Un minuto di silenzio nel cuore pulsante di un’estate giapponese

Il rito si rinnova, immutabile e necessario, ad ogni estate. Con l’avvicinarsi degli anniversari di Hiroshima e Nagasaki, gli schermi del Giappone si popolano di volti segnati dal tempo e scolpiti dalla memoria. Sono gli hibakusha, i sopravvissuti, i cui racconti squarciano il velo del tempo per ricondurci a quei giorni di fuoco e silenzio. Quest’anno, tuttavia, una voce si è levata rompendo la consuetudine del lutto, lasciandomi in eredità una domanda che ancora risuona dentro di me.

Tra le innumerevoli interviste, la mia attenzione è stata catturata da una donna molto anziana, prossima al secolo di vita. Il suo volto era una mappa esistenziale di rughe profonde, ma il suo sguardo era terso, privo di quella nebbia che così spesso accompagna il ricordo di un trauma. Con una calma disarmante, si è rivolta alla giovane giornalista e ha pronunciato parole che hanno scardinato il fondamento di molte mie certezze. “Lei non può nemmeno immaginare che paese fosse il Giappone in quel periodo”, ha affermato. “Non biasimo e non incolpo nessuno per aver lanciato le bombe; non provo né odio né disprezzo nei loro confronti. Se noi giapponesi “ – e ricordo con assoluta precisione l’uso di quel “noi”, che la avvolgeva in una responsabilità collettiva – “avessimo avuto le stesse bombe, non avremmo esitato un solo istante ad usarle.”

Quelle parole mi hanno lasciato attonito. Così lucide, così prive di qualsiasi vittimismo, provenivano da chi aveva attraversato l’inferno sulla Terra. Ne ho parlato con la nonna di mia moglie. Vive ad Isahaya, non lontano da Nagasaki. Lei non subì l’esplosione sulla sua pelle, ma la distruzione la vide con i propri occhi, e respirò l’aria greve di cenere e di perdita. Ascoltando il mio racconto, ha assentito con un cenno lento, carico di significato. “Quella donna ha ragione,” mi ha detto con la medesima, serena gravità. “La penso allo stesso modo. Tu conosci bene la situazione del Giappone in quel periodo, dovresti capirlo meglio di molti altri. Non provo alcun odio verso gli americani o i soldati che sganciarono le bombe. Eravamo tutti pedine.”

“Eravamo tutti pedine”. Questa frase, saldata alla confessione della signora alla televisione. scava una voragine nella narrazione consolidata. Ci impone di guardare oltre il fungo atomico, di scrutare nel cuore del Giappone imperiale: un paese consumato da un’ideologia totalizzante, un nazionalismo fanatico che aveva elevato la morte per l’imperatore a onore supremo e la resa a disonore intollerabile. In un simile contesto, la compassione era debolezza e l’esitazione tradimento. La lucidità di due anziane non era un perdono concesso al nemico, ma un atto di spietata onestà storica verso se stesse e il proprio popolo. Era il riconoscimento che il germe della distruzione totale non albergava solo a bordo dell’Enola Gay, ma era stato coltivato e nutrito in casa, nel fertile terreno di un’intera nazione pronta al sacrificio ultimo, proprio e altrui.

Prima di trasferirmi a Isahaya e poi qui a Sasebo, ho vissuto quasi un decennio a Nagasaki. Ho impresso nella memoria il rito del mokutō, il minuto di silenzio, ogni 9 agosto alle 11:02. Al suono acuto della sirena, un’onda di quiete innaturale si propaga e paralizza la città. Il traffico si congela, le conversazioni si estinguono, i gesti restano sospesi. Persino le cicale, metronomo assordante dell’estate nipponica, ammutoliscono. L’aria, densa e carica di umidità, sembra placarsi, trattenere il respiro. È una sensazione surreale, come se il tempo si contraesse su se stesso e per un istante il 1945 e il presente coincidessero in quella quiete assoluta. In quel silenzio, si onorano i morti, ma si contempla anche l’abisso. Le parole di quella anziana donna ora riempiono quel vuoto, conferendogli un significato più complesso e terribile.

Passato il minuto, la bolla si infrange. La sirena tace e, come a un segnale convenuto, la vita riprende il suo flusso, rumorosa e calda come prima. Le auto ripartono, le cicale ricominciano il loro frinire assordante, il calore torna a opprimere. La vita prosegue, ma la memoria di quel silenzio rimane.

Comprendo ora che quel silenzio non è un segno di rispetto per il lutto. È uno spazio sacro per la riflessione razionale, per accogliere verità scomode come quella che mi è stata offerta. Non si tratta di relativizzare o di creare false equivalenze, ma di afferrare la capacità umana, in determinate condizioni storiche e ideologiche, di diventare strumento di annientamento. Quella donna e la nonna di mia moglie non stavano assolvendo nessuno con le loro parole; stavano consegnando alla storia la verità più profonda e inquietante della guerra: che la logica della distruzione, una volta innescata, non conosce bandiera, e che chiunque, sentendosi investito di una giusta causa, può diventare un mostro. La loro non è l’eco dell’odio, ma il concentrato di una saggezza tragica: la consapevolezza di essere state, insieme ai loro stessi carnefici, ingranaggi di una macchina impazzita. E in questa consapevolezza risiede la lezione più potente, un monito che trascende il tempo e lo spazio, affidato a un minuto di silenzio nel cuore pulsante di un’estate giapponese.

Sono anni che portavo dentro il desiderio di scrivere sulle tragedie delle due bombe atomiche. Volevo trovare le parole giuste, ma ogni brano che scrivevo mi sembrava vuoto, quasi irrispettoso nella sua inadeguatezza. Nessun tentativo riusciva a esprimere quello che realmente volevo dire, bloccato sul peso di un orrore che non si può raccontare. Poi ho ascoltato le parole di quella donna. La sua testimonianza, priva di odio e vittimismo, mi hanno offerto una prospettiva che non avevo mai considerato. Ho capito che non dovevo descrivere la disumanità della guerra, ma la straordinaria umanità di chi, avendola subita, ha scelto la pace. Sono state quelle parole a liberarmi, a permettermi di scrivere queste righe.

Leave Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

JapanItalyUSAUnknown