Tag: Storia del Giappone

  • Il giorno in cui il Buddha non morì

    Il giorno in cui il Buddha non morì

    Stamattina, tra le righe asettiche degli impegni di lavoro, una parola è balenata sul mio calendario digitale, un sussurro ancestrale nel frastuono della routine: Butsumetsu (仏滅). Per chi, come me, vive in Giappone, non è una semplice indicazione temporale, ma un portale su un mondo dove il tempo non era scandito solo da ore e minuti, ma anche dal respiro della fortuna e del presagio.

    Il suo significato letterale – “la morte del Buddha” – è un velo drammatico, tanto potente quanto ingannevole. Lungi dall’affondare le radici nei sacri sutra del buddismo, la sua storia è un labirinto di assonanze e credenze popolari che conduce all’antica divinazione cinese. Il kanji 仏 (bustu), che siamo abituati ad associare a Buddha, e qui un semplice prestito fonetico, spogliato di ogni sacralità. E che il parinirvana di Shakyamuni, il quindicesimo giorno del secondo mese lunare, cada talvolta in un giorno di Bustumetsu? Pura coincidenza, un capriccio del calendario senza alcun legame con il rokuyō, il ciclo divinatorio, di sei giorni, che governa il flusso della sorte.

    Il Butsumetsu è il nadir di questa danza di sei giorni che scandisce la fortuna: Senshō, Tomobiki, Senbu, Butsumetsu, Taian e Shakkō. Eppure, in questa gerarchia della sventura, non è solo. A conterdegli il primato è shakkō (赤口), un giorno che alcuni temono persino di più, forse perché i suoi kanji evocano immagini crudeli di sangue e fuoco. C’è chi lo considera più nefasto, interpretando il Butsumetsu come un giorno in cui “le cose giungono a termine”, mentre shakkō porterebbe con sé la minaccia di un “annientamento totale”. Nessuna sentenza definitiva: la percezione del peggiore veria, e la scelta è affidata a un equilibrio delicato tra presagio e consuetudine.

    Tornando alle origini. Butsumetsu era scritto con kanji diversi: 物滅, “la fine delle cose”. Un concetto forse meno suggestivo della morte di Buddha, ma più fedele alla sua funzione: segnare la fine di un ciclo, rendendolo il giorno più nefasto per qualsiasi nuovo inizio. Nel Giappone del passato, l’influenza del rokuyō non era una semplice credenza, ma una forza invisibile che governava la vita. Nessuno avrebbe osato celebrare un matrimonio, inaugurare un’attivita o traslocare in un giorno di Butsumetsu. Era un imperativo sociale che dettava i ritmi dell’esistenza, decidendo i giorni di festa e quelli di attesa, i momenti per agire e quelli per astenersi da qualsiasi azione.

    Oggi, tra l’acciaio e il vetro delle metropoli, il rokuyō è scivolato da dogma a superstizione, una consuetudine culturale più che un obbligo. Eppure, la sua ombra si allunga ancora sulla vita delle persone. Le sale per matrimoni offrono sconti vertiginosi a coppie abbastanza audaci – o razionali – da sfidare la sorte, mentre molti, soprattutto tra le generazioni più anziane, non prendono decisioni importanti senza prima consultare il calendario.

    Per molti di noi, inghiottiti dalla fretta e dalle scadenze, Butsumetsu è poco più di una nota a margine del nostro tempo efficiente e secolarizzato. Ma vederlo scritto lì, accanto ai miei appuntamenti, è stato un promemoria: anche nella più spinta modernità, il passato non svanisce. Resiste come un’iscrizione silenziosa, un invito a ricordare che ogni giorno porta con sé non solo un numero, ma anche un’anima e una storia.

  • Dov’e finita la nostra giovinezza

    Dov’e finita la nostra giovinezza

    C’è una domanda che ha aleggiato come un fantasma tra le macerie del Giappone post-bellico. Un sussurro diventato un grido sordo, carico di rabbia e smarrimento, che appartiene a un’intera generazione:

    「うちの青春どこにいった!」

    “Dov’e finita la nostra giovinezza?”

    Immagina di avere quindici anni. I tuoi sogni non sono fatti di amori, musica o feste con gli amici. I tuoi sogni sono stati cancellati. Per i ragazzi e le ragazze cresciuti nel Giappone degli anni ‘30 e ‘40, l’adolescenza fu un furto. I banchi di scuola vennero sostituiti con i torni delle fabbriche di munizioni, i campi vennero arati da mani adolescenti al posto di quelle di padri e dei fratelli, inghiottiti dal fronte. Alle ragazze, a cui si insegnava l’ideale ryōsai kenbo, ovvero della “buona moglie, madre saggia”, fu chiesto di diventare operaie o, nel peggiore dei casi, con l’inganno di sacrificare il proprio corpo come “donne di conforto”. La gioventù divenne semplicemente un’altra risorsa da consumare per la guerra.

    L’ideale per cui tutti si stavano sacrificando – un Giappone divino, invincibile e guidato da un Imperatore-dio – si frantumò nel modo più crudele e assordante. La colonna sonora delle loro notti non era musica, ma la nenia metallica dei bombardieri B-29. Le loro città non erano luoghi di incontro, ma inferni di fuoco. Poi, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki scavarono un solco incancellabile nella loro anima, mostrando la vulnerabilità terrificante di tutto ciò in cui erano stati costretti a credere. La resa del 15 agosto 1945 non portò la pace. Porto un silenzio assordante, e un vuoto.

    Il disorientamento fu totale. Le loro guide, i loro valori, i loro idoli: tutto era crollato, rivelandosi un castello di menzogne. Scrittori come Dazai Osamu diventarono lo specchio di un’anima collettiva in frantumi, dando voce a una gioventù che si sentiva profondamente tradita. Il ritorno dei soldati, spesso mutilati nel corpo e nello spirito, non fece che confermare la catastrofe. Chi erano adesso? Orfani non solo dei genitori, ma di un’intera nazione. Molti si ritrovarono a vagare per le strade di un paese in rovina, lottando per una ciotola di riso al mercato nero, con l’unica certezza di aver perso tutto.

    La loro domanda, “Dov’e finita la nostra giovinezza?”, non era semplice nostalgia. Era un’accusa gridata con la gola secca contro il mondo degli adulti che li aveva ingannati. Al posto dei ricordi del primo amore, c’erano le immagini delle città in fiamme. Al posto delle gite scolastiche, il ricordo della fame. Al posto delle fotografie felici, il volto dei morti.

    Eppure, cosa fai quando hai toccato il fondo? O ti lasci affogare, o usi quel fondo per darti la spinta per risalire. Da quell’abisso di disperazione nacque una rabbiosa, disperata voglia di rivalsa. Non una vendetta militare, ma una spinta incontenibile a creare. Se la guerra aveva distrutto la loro giovinezza, loro avrebbero usato la loro vita adulta per costruire un futuro dalle ceneri.

    Questa determinazione divenne il motore del miracolo economico giapponese. La stessa disciplina ferrea e lo stesso spirito di sacrificio, prima incanalati verso la distruzione, furono riconvertiti in una forza costruttiva senza precedenti. Quella generazione lavorò fino allo sfinimento, riversando nelle fabbriche, negli uffici e nelle università tutta l’energia che non aveva potuto esprimere. Ricostruirono le città, ma soprattutto l’orgoglio di una nazione.

    La loro rivalsa fu anche culturale. Rigettando con forza il militarismo che li aveva traditi, si aggrapparono ai nuovi ideali di pace e democrazia. Registi come Kurosawa iniziarono a esplorare le cicatrici delle guerra, cercando un barlume di umanità tra le rovine. La letteratura si fece più intima, mettendo al centro l’individuo e il suo smarrimento.

    La giovinezza rubata non venne mai restituita. Rimase un’ombra lunga, un dolore sordo che li accompagnò per tutta la vita. Ma nella fatica della ricostruzione, nel successo di un’economia che sbalordì il mondo e nella creazione di una società pacifica, quella generazione trovo il proprio riscatto.

    Dov’è finita la loro giovinezza? Non è mai più tornata. Ma al suo posto, mattone dopo mattone, hanno costruito il Giappone moderno. E questa fu la loro, silenziosa e grandiosa, risposta.

  • La crepa nel tempo

    La crepa nel tempo

    Esistono parole che non sono semplici suoni, ma crepe nel tessuto del tempo.

    Taegataki o tae, shinobigataki o shinobi

    “Sopportare l’insopportabile, tollerare l’intollerabile”

    Non è una massima filosofica distillata in un tempio, ma il ronzio che emerge dal fruscio di una radio, la voce di un “dio” che per la prima volta si fa uomo, parlando una lingua quasi straniera al suo stesso popolo. In quell’istante, si consumò un cortocircuito di magnitudo cosmica. Un intero sistema, costruito su un asse di divinità, onore e vittoria certa, viene attraversato da una corrente di voltaggio elevatissimo: la realtà. E il sistema va in frantumi.

    L’incomprensione non fu solo un limite tecnico, un difetto della trasmissione o un arcaismo del lessico. Fu lo specchio perfetto del momento. Come poteva una mente, forgiata per anni nel crogiolo dell’eroismo, del sacrificio totale come unico esito onorevole, decifrare un messaggio la cui essenza era la negazione di tutto ciò? La voce parlava di fine, ma le orecchie, abituate solo agli anni di guerra, sentivano un incitamento alla resistenza finale. La lingua stessa, così aulica e distante, proteggeva la psiche collettiva dall’impatto diretto, creando un cuscinetto di confusione e disturbo tra la coscienza individuale e l’abisso. Qualcuno, dall’alto di un trono che tremava, aveva deciso. Ma quella decisione, per poter essere accettata, doveva essere incompresa, metabolizzata lentamente e con i giusti tempi, come un veleno che per salvare deve prima quasi uccidere.

    Ecco il cuore del cortocircuito: un ordine di sopravvivenza dato a un popolo programmato per morire. “Tollerare l’intollerabile” non significava semplicemente arrendersi. Significava disinnescare l’istinto all’autodistruzione, l’impulso a trasformare le ceneri in un’ultima, abbagliante fiammata di gloria. Significava guardare in faccia l’umiliazione, la perdita, la fame, la distruzione di ogni certezza, e scegliere di restare. Non per viltà, ma per un atto di resistenza ancora più profondo e straziante: la resistenza contro il nulla. Qualcuno aveva deciso che la nazione doveva sopravvivere, anche a costo di perdere la sua anima mitologica, per poterne forgiare una nuova, umana, fragile, storica.

    In quel silenzio carico di domande che segui la trasmissione, in quella quasi paralisi collettiva, inizia la riscrittura. Il primo capitolo della nuova storia non è scritto con l’inchiostro, ma con il respiro trattenuto di chi sopporta. Sopportare l’insopportabile diventa l’atto fondativo, il nuovo codice. È un processo attivo, una fatica immane che trasforma il trauma in fondamento. Il sistema è distrutto, i suoi idoli sono infranti, le sue promesse evaporate. Ciò che resta e solo questo imperativo, queste parole che fluttuano sulle rovine: continuate a esistere anche quando l’esistenza stessa e un’offesa. È da questo paradosso, da questa contraddizione vivente, che un popolo smette di essere la manifestazione di un’idea divina e inizia il lungo, doloroso cammino per diventare, semplicemente, sé stesso.

  • La casa attende

    La casa attende

    Ogni volta che sento qualcuno definire l’Obon come la “festa dei morti” giapponese, un’ondata di sottile irritazione si mescola al ricordo del mio stesso imbarazzo. Perché quell’errore, quella superficiale etichetta, un tempo era anche la mia. Appena giunto in Giappone, archiviai la questione con la medesima superficialità, adagiandosi in un parallelo comodo e rassicurante. Pensavo: “Certo, un momento per onorare i defunti. Come da noi”. Ma la verità è che non avevo compreso nulla. Stavo guardando la luna, ma vedevo solo il dito che la indicava.

    Fu solo partecipando al mio primo Obon nel furusato, il paese di origine della famiglia di un collega, che l’impalcatura della mia certezza iniziò a vacillare. L’aria non era greve di lutto, né impregnata di quella solennità malinconica che la mia cultura mi aveva insegnato ad associare alla morte. Certo, aleggiava un rispetto profondo, un pensiero commosso, ma l’emozione dominante era un’altra: un’attesa vibrante, una letizia serena, quasi elettrica. Era l’atmosfera di chi si prepara a riabbracciare una persona cara dopo un lungo, lunghissimo viaggio.

    Ho capito allora che l’equivoco fondamentale risiede nel nostro stesso concetto di “morte”, che è quasi sempre una cesura, un punto di non ritorno. I defunti appartengono al passato; sono presenza da commemorare, figure da compiangere. Qui, durante l’Obon, non si commemorano i “morti”. Si accolgono a braccia aperte i sorei, gli spiriti venerati degli antenati, che non sono entità incorporee o spettri inquieti del folklore, ma sono a tutti gli effetti membri della famiglia, temporaneamente residenti altrove.

    L’intera ritualità non è un atto di commemorazione, bensì una preparazione attiva e gioiosa al ricongiungimento. Quando accendiamo il mukaebi, il piccolo fuoco di benvenuto, non stiamo eseguendo un rito scaramantico per placare chissà quali entità. Stiamo accendendo la luce del portico per i nostri nonni e bisnonni, un gesto d’amore puro che sussurra: “La strada di casa è questa. Vi stiamo aspettando”. L’altare domestico, il butsudan, smette di essere un sacrario funebre per trasformarsi nel cuore pulsante della casa, la tavola ideale attorno alla quale tutti siedono, vivi e antenati, condividendo lo stesso sacro spazio.

    E poi c’è il Bon Odori. La prima volta che vidi centinaia di persone danzare al ritmo febbrile dei taiko, la mia logica occidentale andò in cortocircuito. Una danza? In una “festa dei morti”? Eppure, nessuno danzava con mestizia. I volti erano sorridenti, i gesti carichi di energia, la gioia era un’onda contagiosa. È una coreografia di gratitudine, un omaggio danzato per intrattenere gli ospiti d’onore, per celebrare il miracolo di essere di nuovo tutti insieme, sotto lo stesso cielo estivo.

    Definire l’Obon “festa dei morti” significa appiattire questa realtà complessa e meravigliosa, svuotandola del suo significato più profondo. Significa ignorare il concetto cardine della continuità della famiglia. La famiglia non è la somma degli individui presenti, ma un lignaggio ininterrotto, un fiume di cui gli antenati sono la sorgente e noi il corso attuale. L’Obon e la celebrazione di questo fiume, il momento in cui percepiamo più forte la corrente che ci unisce a chi ci ha preceduto. Non è un volgersi indietro verso ciò che è concluso, ma un percepire, qui e ora, la presenza di ciò che non ha mai fine.

    Oggi quando sento quella definizione, non avverto più solo irritazione, ma una sincera compassione per l’orizzonte che a quella persona rimane precluso. Sta riducendo una profondo modo di vivere la vita a una semplice data di calendario. No, questa non è una “festa dei morti”. È la festa della famiglia. È il celebrare la vita che prosegue, imperterrita e coesa, al di là di ogni mondo.

  • L’anima delle vette

    L’anima delle vette

    Oggi, qui in Giappone, si celebra lo yama no ho, il “giorno della montagna”. Questa ricorrenza istituita ufficialmente solo nel 2016, e in realtà l’eco di un legame millenario, un dialogo silenzioso e costante tra un popolo e le vette che ne definiscono l’orizzonte. Non è una semplice festa sul calendario, ma il riconoscimento di una presenza che è al contempo fisica e spirituale, un pilastro dell’identità giapponese.

    In Giappone, le montagne non sono mai state semplici ammassi di roccia e terra. Da sempre, sono state percepite come una soglia verticale, una scala verso il cielo dove il mondo umano sfiora quello divino. Nello shintoismo, le cime più imponenti sono considerate shintai, il corpo stesso delle divinità, o kannabi, luoghi sacri dove dimorano i kami. L’ascesa alla vetta non è mai stata un mero atto sportivo, quanto un pellegrinaggio, un percorso di purificazione. Ogni passo verso l’alto e un passo verso il sacro, un modo per lasciare alle spalle l’impurità del mondo terreno e avvicinarsi all’essenza divina. Il Fuji-san, con la sua perfezione conica, non è solo un vulcano: è un’icona sacra, un mandala naturale che ha ispirato innumerevoli artisti, poeti e mistici.

    Questo senso del sacro si è poi fuso con il buddismo, che ha trovato sulle montagne il luogo ideale per la meditazione e l’ascetismo. I templi si annidano tra le foreste di cedri secolari, i sentieri si snodano verso pagode nascoste, disegnando un paesaggio dove natura e spiritualità sono inseparabili. Le montagne sono diventate il terreno di prova per gli yamabushi, i monaci asceti che, attraverso pratiche rigorose, cercano l’illuminazione attingendo forza e saggezza direttamente dalla potenza della natura selvaggia.

    Tuttavia, l’importanza delle montagne non si esaurisce nella loro dimensione spirituale. È una presenza che plasma la vita quotidiana. Per secoli, sono state fonte di ogni risorse: legname per costruire case, templi e santuari, carbone per i focolari, acqua pura che sgorga per irrigare le risaie a valle. Interi paesaggi, i satoyama, sono sorti in simbiosi con le pendici dei monti, in un delicato equilibrio di utilizzo e rispetto. La montagna è madre e custode, una risorsa vitale che insegna i valori della gratitudine e della parsimonia.

    Ancora oggi, questo legame profondo pulsa nella vita dei giapponesi. Fuggire dall’afa delle città per cercare il fresco delle alture, immergersi in un onsen vulcanico, ammirare il mutare delle foglie in autunno: sono tutte esperienze che riconnettono l’uomo moderno a questo ritmo ancestrale. Lo yama no hi è quindi soltanto un’occasione per un’escursione, ma un invito a fermarsi e ad ascoltare. A sentire il respiro della foresta, a percepire la stabilità della roccia sotto i piedi e a riconoscere, in quella maestosa immobilità, una parte fondamentale della propria anima. È un giorno per ricorda che, in un mondo che corre veloce, le montagne restano. Silenziose, potenti, eterne custodi di ciò che è veramente essenziale.

  • Un minuto di silenzio nel cuore pulsante di un’estate giapponese

    Un minuto di silenzio nel cuore pulsante di un’estate giapponese

    Il rito si rinnova, immutabile e necessario, ad ogni estate. Con l’avvicinarsi degli anniversari di Hiroshima e Nagasaki, gli schermi del Giappone si popolano di volti segnati dal tempo e scolpiti dalla memoria. Sono gli hibakusha, i sopravvissuti, i cui racconti squarciano il velo del tempo per ricondurci a quei giorni di fuoco e silenzio. Quest’anno, tuttavia, una voce si è levata rompendo la consuetudine del lutto, lasciandomi in eredità una domanda che ancora risuona dentro di me.

    Tra le innumerevoli interviste, la mia attenzione è stata catturata da una donna molto anziana, prossima al secolo di vita. Il suo volto era una mappa esistenziale di rughe profonde, ma il suo sguardo era terso, privo di quella nebbia che così spesso accompagna il ricordo di un trauma. Con una calma disarmante, si è rivolta alla giovane giornalista e ha pronunciato parole che hanno scardinato il fondamento di molte mie certezze. “Lei non può nemmeno immaginare che paese fosse il Giappone in quel periodo”, ha affermato. “Non biasimo e non incolpo nessuno per aver lanciato le bombe; non provo né odio né disprezzo nei loro confronti. Se noi giapponesi “ – e ricordo con assoluta precisione l’uso di quel “noi”, che la avvolgeva in una responsabilità collettiva – “avessimo avuto le stesse bombe, non avremmo esitato un solo istante ad usarle.”

    Quelle parole mi hanno lasciato attonito. Così lucide, così prive di qualsiasi vittimismo, provenivano da chi aveva attraversato l’inferno sulla Terra. Ne ho parlato con la nonna di mia moglie. Vive ad Isahaya, non lontano da Nagasaki. Lei non subì l’esplosione sulla sua pelle, ma la distruzione la vide con i propri occhi, e respirò l’aria greve di cenere e di perdita. Ascoltando il mio racconto, ha assentito con un cenno lento, carico di significato. “Quella donna ha ragione,” mi ha detto con la medesima, serena gravità. “La penso allo stesso modo. Tu conosci bene la situazione del Giappone in quel periodo, dovresti capirlo meglio di molti altri. Non provo alcun odio verso gli americani o i soldati che sganciarono le bombe. Eravamo tutti pedine.”

    “Eravamo tutti pedine”. Questa frase, saldata alla confessione della signora alla televisione. scava una voragine nella narrazione consolidata. Ci impone di guardare oltre il fungo atomico, di scrutare nel cuore del Giappone imperiale: un paese consumato da un’ideologia totalizzante, un nazionalismo fanatico che aveva elevato la morte per l’imperatore a onore supremo e la resa a disonore intollerabile. In un simile contesto, la compassione era debolezza e l’esitazione tradimento. La lucidità di due anziane non era un perdono concesso al nemico, ma un atto di spietata onestà storica verso se stesse e il proprio popolo. Era il riconoscimento che il germe della distruzione totale non albergava solo a bordo dell’Enola Gay, ma era stato coltivato e nutrito in casa, nel fertile terreno di un’intera nazione pronta al sacrificio ultimo, proprio e altrui.

    Prima di trasferirmi a Isahaya e poi qui a Sasebo, ho vissuto quasi un decennio a Nagasaki. Ho impresso nella memoria il rito del mokutō, il minuto di silenzio, ogni 9 agosto alle 11:02. Al suono acuto della sirena, un’onda di quiete innaturale si propaga e paralizza la città. Il traffico si congela, le conversazioni si estinguono, i gesti restano sospesi. Persino le cicale, metronomo assordante dell’estate nipponica, ammutoliscono. L’aria, densa e carica di umidità, sembra placarsi, trattenere il respiro. È una sensazione surreale, come se il tempo si contraesse su se stesso e per un istante il 1945 e il presente coincidessero in quella quiete assoluta. In quel silenzio, si onorano i morti, ma si contempla anche l’abisso. Le parole di quella anziana donna ora riempiono quel vuoto, conferendogli un significato più complesso e terribile.

    Passato il minuto, la bolla si infrange. La sirena tace e, come a un segnale convenuto, la vita riprende il suo flusso, rumorosa e calda come prima. Le auto ripartono, le cicale ricominciano il loro frinire assordante, il calore torna a opprimere. La vita prosegue, ma la memoria di quel silenzio rimane.

    Comprendo ora che quel silenzio non è un segno di rispetto per il lutto. È uno spazio sacro per la riflessione razionale, per accogliere verità scomode come quella che mi è stata offerta. Non si tratta di relativizzare o di creare false equivalenze, ma di afferrare la capacità umana, in determinate condizioni storiche e ideologiche, di diventare strumento di annientamento. Quella donna e la nonna di mia moglie non stavano assolvendo nessuno con le loro parole; stavano consegnando alla storia la verità più profonda e inquietante della guerra: che la logica della distruzione, una volta innescata, non conosce bandiera, e che chiunque, sentendosi investito di una giusta causa, può diventare un mostro. La loro non è l’eco dell’odio, ma il concentrato di una saggezza tragica: la consapevolezza di essere state, insieme ai loro stessi carnefici, ingranaggi di una macchina impazzita. E in questa consapevolezza risiede la lezione più potente, un monito che trascende il tempo e lo spazio, affidato a un minuto di silenzio nel cuore pulsante di un’estate giapponese.

    Sono anni che portavo dentro il desiderio di scrivere sulle tragedie delle due bombe atomiche. Volevo trovare le parole giuste, ma ogni brano che scrivevo mi sembrava vuoto, quasi irrispettoso nella sua inadeguatezza. Nessun tentativo riusciva a esprimere quello che realmente volevo dire, bloccato sul peso di un orrore che non si può raccontare. Poi ho ascoltato le parole di quella donna. La sua testimonianza, priva di odio e vittimismo, mi hanno offerto una prospettiva che non avevo mai considerato. Ho capito che non dovevo descrivere la disumanità della guerra, ma la straordinaria umanità di chi, avendola subita, ha scelto la pace. Sono state quelle parole a liberarmi, a permettermi di scrivere queste righe.

  • Puntare al futuro

    Puntare al futuro

    Nonostante i tanti anni trascorsi in Giappone, ci sono ancora piccoli gesti quotidiani che catturano la mia attenzione, invitandomi a riflettere come fossero silenziosi enigmi. Tra tutti, il più costante si manifesta sulla soglia di ogni casa, tempio, santuario e in ogni parcheggio: le scarpe, sfilate nel genkan, sono sempre allineate con una precisione quasi rituale, le punte rivolte verso l’uscita; le automobili, con coerenza sorprendente, sono parcheggiate quasi sempre in retromarcia, il muso già proiettato verso la strada.

    Per lungo tempo mi sono interrogato sul perché di un’usanza così radicata. Ne ho parlato con tanti giapponesi, da mia moglie ai miei colleghi, ricevendo risposte che, sebbene corrette, sembravano sempre parziali, frammenti di un quadro più grande. “È per essere più rapidi quando si esce”, mi spiegavano. “È semplicemente, shitsuke, buona educazione e disciplina personale, omoiyari, ovvero una forma di considerazione per gli altri, aggiungevano altri”. Spiegazioni valide, certo, ma sentivo che non riuscivano a cogliere l’anima di un gesto tanto universale quanto istintivo.

    Poi, qualche giorno fa, la memoria si è riaccesa. È bastato leggere un post di un mio stimato amico, Francesco Baldessari, per far riaffiorare una riflessione che avevo scritto anni fa. Le sue parole mi hanno riportato alla conclusione a cui ero giunto dopo le mie ricerche, una sintesi che finalmente dava un senso a tutto: dietro la pratica e l’etichetta si nasconde un’eredità ben più antica e complessa.

    In questo gesto sopravvive l’eco dei samurai, per cui la prontezza mentale e fisica (il kokorogamae) era una questione di vita o di morte: avere le calzature già orientate per la fuga poteva fare la differenza. La stessa mentalità di prontezza si riflette oggi nella necessità di poter lasciare un parcheggio all’istante in caso di allarme o pericolo. A questo si intreccia l’influenza dello shintoismo, che vede la casa come uno spazio sacro e puro (hare) e il genkan come la soglia sacra che lo protegge dal mondo esterno considerato carico di impurità (kegare); ordinare le scarpe diventa così una atto di profondo rispetto per questo confine. Infine vi è la disciplina silenziosa del buddismo zen, che insegna a compiere ogni azione, anche la più umile, con totale consapevolezza, trasformando il gesto banale in una forma di meditazione attiva.

    Alla fine, credo di aver compreso come tutte queste correnti – la sicurezza, il rispetto, la storia e la spiritualità – convergessero in un unico, potentissimo concetto, una filosofia racchiusa nelle seguenti parole giapponesi:

    次の行動への準備

    Tsugi no kōdō e no junbi

    La preparazione per l’azione successiva

    Ecco quella che secondo me può essere considerata come la vera chiave di volta. Non si tratta quindi di ottimizzare una via di uscita. Si tratta di una mentalità. L’atto di prepararsi non viene rimandato al momento del bisogno, ma viene anticipato, compiuto in un momento di calma. La manovra più complessa, il pensiero, lo sforzo, si concentrano all’arrivo, affinché la partenza sia fluida, sicura e priva di esitazioni. Quasi a voler plasmare il futuro agendo sul presente.

    È un atto di previdenza per se stessi, ma anche un profondo gesto di considerazione per gli altri, perché un’uscita di scena ordinata non crea né intralcio e disturbo. È un piccolo gesto che insegna come la preparazione del presente sia il più grande atto di rispetto verso il futuro. Il proprio e quello degli altri.

  • Il mare prima dei kami

    Il mare prima dei kami

    Questo articolo si lega al precedente “Dove il mare è destino”.

    Sono trascorsi molti anni da quando ho messo piede per la prima volta in Giappone, e in tutto questo tempo credevo di aver compreso il profondo vincolo che lega questo popolo alle sue acque. Lo associavo istintivamente allo Shintō, a una cornice spirituale affascinante e onnipresente. Eppure, solo di recente ho iniziato a interrogarmi più a fondo, a sentire che quella spiegazione, per quanto corretta, non era completa. Mi sono reso conto che ridurre questa relazione ancestrale alla sola fede sarebbe come ammirare la Grande Onda di Hokusai e notare solo la schiuma in superficie, ignorando la massa immensa e la potenza abissale che la genera. Ho capito che lo Shintō non è la causa di questo legame, ma il sublime linguaggio spirituale attraverso cui esso prende voce. La relazione stessa è un tessuto esistenziale molto più antico, i cui fili sono l’ineluttabilità della geografia, la necessità economica, il terrore primordiale e, solo alla fine, la sacralità.

    Il mio primo passo, in questa riflessione, è stato spogliarmi di ogni sovrastruttura per tornare all’evidenza più lampante: il Giappone è un arcipelago, una shima-guni (nazione insulare). Una definizione che per anni ho usato quasi meccanicamente, senza coglierne appieno il peso. Vivere qui significa che nessun punto della nazione dista più di centocinquanta chilometri dalla costa. Il mare non è un’opzione, un panorama da scegliere per le vacanze, ma un vicino costante, a volte ingombrante. È il confine che definisce e la via che chiama. È solo ora che inizio a comprendere come questa prossimità abbia forgiato una mentalità unica, intrisa di un senso di vulnerabilità e, allo stesso tempo, di un splendido isolamento che ha permesso a questa cultura di chiudersi al mondo e di riaprirsi ad esso, sempre e solo attraverso le sue porte d’acqua.

    Vivere così, costantemente abbracciati dal mare, ha installato nell’anima collettiva qualche cosa che ho impiegato anni a decifrare: un ambivalenza profonda, un equilibrio perenne tra la più devota gratitudine e la più atavica paura. Il mare è innanzitutto sostentatore, la fonte della megumi, la benedizione. La dieta stessa è un inno ai suoi doni, che qui chiamano con un’espressione meravigliosa: umi no sachi, i “tesori del mare”. Questi tesori, che includono alghe e molluschi oltre al pesce, hanno garantito per millenni la sopravvivenza in una terra montuosa e avara di suolo. Ma questo stesso mare, ho imparato a mie spese, e anche la più grande minaccia collettiva, kyōi. La parola tsunami è un termine che il Giappone ha tragicamente donato al mondo. La Grande Onda di Kanagawa, che prima vedevo come un’icona estetica, ora la percepisco per quello che forse è: la rappresentazione sublime della fragilità umana. Quei pescatori, rannicchiati nelle loro barche, non sono eroi, ma esseri minuscoli in balia di una forza cosmica e indifferente.

    Ed è qui, in questa fessura tra amore e paura, che ho finalmente capito il ruolo autentico dello Shintō. In quanto fede animista, nata dal paesaggio stesso del Giappone, non ha creato il vincolo con il mare, ma lo ha elevato a sacro, gli ha dato un ordine e una grammatica. Ha offerto gli strumenti per dialogare con l’inconciliabile dualità di megumi e kyōi. Il pantheon si è popolato di divinità marine come watatsumi, che governa gli abissi, e i Sumiyoshi sanjin, protettore dei marinai. Venerare questi kami è diventato il modo per ringraziare i “tesori del mare” e, al contempo, un tentativo disperato di placarne la furia. L’acqua salata stessa è diventata un agente di purificazione, il misogi un rito per lavare le impurità. I maestosi torii che sorgono dall’acqua, come quello immortale di Itsukushima, non sono solo un artificio scenico; ho imparato a vederli come la soglia visibile tra il nostro mondo e un mondo in cui il mare non è sfondo, ma protagonista divino.

    Ma la mia riflessione non poteva fermarsi qui. Se il legame fosse solo religioso, si sarebbe affievolito con il passare del tempo. Invece, la sua eco risuona, potente e trasformata, anche nella cultura moderna. In Mishima, il mare non è più un dio, ma diventa simbolo di un ordine trascendente, di una purezza assoluta e crudele, indifferente alle piccole vicende umane. E rileggendo le parole di un altro straniero che ha amato profondamente questo paese, Donald Richie, ho trovato un’altra conferma: “L’acqua è sempre stata la vera strada maestra del Giappone. È ancora il legame tra le sue parti…Questo senso di connessione attraverso l’acqua e qualcosa che la terraferma non può dare”. Il mare quindi non è ciò che separa le isole che formano il Giappone, ma il tessuto connettivo che le unisce.

    Alla fine, questo viaggio mi ha portato a una conclusione quasi disarmante nella sua semplicità. La relazione tra i giapponesi e il loro mare è una simbiosi nata da una necessità geografica e forgiata nel fuoco di un’eterna contraddizione tra vita e morte. Lo shintoismo offre una grammatica spirituale per articolarla, un vocabolario fatto di riverenza e paura. Ma il legame stesso è più antico e viscerale di qualunque dottrina: è la consapevolezza, che sento ora più vicina, incisa nell’anima di un popolo, di vivere perennemente sull’orlo di un abisso magnifico e terribile.

  • Dove il mare è destino

    Dove il mare è destino

    Nonostante l’enorme volume di lavoro di quest’ultimo periodo, tra nuovi contratti, nuovi progetti e lo studio continuo per non rimanere avvinto dalle pieghe del tempo, ho scelto di concedere a me e alla mia famiglia la quiete di questi giorni a casa. Pur continuando a compulsare documenti da quella che era nata come una gaming room ma si è ormai trasformata nel mio ufficio casalingo, l’atmosfera che si respira è quella di una festività, una pausa nel ritmo sincopato della quotidianità. La ragione di questa tregua risiede in una celebrazione profondamente radicata nell’anima di questa nazione: l’umi no hi, la giornata del mare.

    Questa ricorrenza, che cade il terzo lunedì di luglio, non è un mero pretesto per un fine settimana allungato, bensì un momento di sentita gratitudine verso l’oceano per i suoi doni e un auspicio di prosperità per il Giappone. Per comprendere appieno la portata di tale celebrazione, è necessario spogliarsi della nostra concezione mediterranea del mare, spesso legata alla villeggiatura, al divertimento estivo, a un orizzonte di svago. Qui il mare è vita, nutrimento, via di comunicazione, ma anche forza temibile e indomita. È un’entità con cui il popolo giapponese ha stretto un patto millenario, un legame viscerale che ne ha plasmato la cultura, l’economia e la stessa identità. Essendo il Giappone una nazione insulare, la cui esistenza stessa è intrinsecamente legata alle acque che la cingono, il mare è il fulcro di un retaggio storico e spirituale che pervade ogni aspetto della vita. Io stesso, proveniente da una zona più prossima alle alte vette dolomitiche che alle rive del mare, non ho mai coltivato un simile legame, e forse proprio per questa distanza riesco a cogliere con maggior stupore la profondità della riverenza nipponica.

    Le origini di questa festività ci riportano indietro nel tempo, al 1876. Fu in quell’anno che l’imperatore Meiji, figura cardine della modernizzazione del paese, fece ritorno al porto di Yokohama il 20 Luglio, al termine di un lungo viaggio che lo aveva impegnato nella visita delle regioni settentrionali del Tōhoku e dell’Hokkaidō. L’imbarcazione che lo ricondusse a casa non era una nave qualsiasi, ma la Meiji Maru, un piroscafo di costruzione scozzese che incarnava il progresso tecnologico e la nuova apertura del Giappone al mondo. Quel ritorno divenne il simbolo di un viaggio non solo fisico, ma anche metaforico, verso un futuro prospero guidato dall’innovazione.

    Per commemorare un evento di tale portata simbolica, nel 1941 venne istituita la “Giornata commemorativa del mare”, umi no kinenbi, fissata proprio il 20 luglio. Tuttavia, fu necessario attendere fino al 1996 perché questa giornata assumesse lo status di festa nazionale, specchio di una società in cambiamento, dal 2003 la festività è stata spostata al terzo lunedì del mese di luglio, in accordo con la politica governativa conosciuta come “Happy Monday System”, volta a creare più fine settimana di tre giorni per favorire il riposo e il turismo interno.

    Ed è così, che dalla mia stanza, tra una pila di documenti e l’altra, osservo questa giornata dipanarsi. Il mare poco distante riflette i raggi del sole e credo che sia un’occasione perfetta per riflettere non solo sulla dipendenza di un’intera nazione dall’oceano, ma anche sull’urgenza di preservare l’equilibrio. È un momento in cui il fragore delle onde sembra riecheggiare la storia, la cultura e le speranze di un popolo che, nel mare, ha sempre trovato il proprio destino.

  • Il gracchiare degli dei

    Il gracchiare degli dei

    Nel cielo del Sol Levante, un’ombra nera danza instancabile, un ritornello visivo che accompagna l’alba e il tramonto. È il corvo, l’onnipresente signore dei cieli urbani, un sovrano pennuto che osserva dall’alto le nostre vite indaffarate con un’intelligenza che a tratti inquieta, a tratti affascina. Non si può sfuggire al suo richiamo roco, “ka-ka-” che è divenuto la colonna sonora non ufficiale delle metropoli giapponesi, un suono così familiare da confondersi con il brusio del traffico e le melodie delle stazioni dei treni.

    Questo volatile, vestito di un piumaggio che ruba la luce, è un maestro di adattamento, un genio incompreso del mondo animale. Lo si osserva con un misto di ammirazione e fastidio mentre risolve complessi problemi per procurarsi il cibo. Lo si vede far cadere noci sulle strisce pedonali, attendendo pazientemente che il semaforo diventi verde e le auto, ignare complici, le schiaccino per lui. Un’astuzia che strappa un sorriso, se non fosse che la sua ingegnosità si applica con la medesima perizia a un’altra, meno nobile, attività.

    Ed è qui che l’ammirazione cede il passo all’esasperazione, trasformando il nostro astuto corvo in un vera e propria piaga sociale. All’alba, prima ancora che la città si desti del tutto, orde di questi becchi affilati si avventano sui punti di raccolta dei rifiuti. Con una precisione chirurgica, lacerano i sacchetti, spargendo in un tripudio di caos i resti della nostra opulenza. L’immondizia, meticolosamente separata la sera prima, diventa un banchetto a cielo aperto, un mosaico desolante di avanzi e confezioni sparse sul selciato. E così, quasi ogni mattina, si rinnova la silenziosa battaglia tra cittadini armati di reti protettive e i corvi, imperterriti e sempre un passo avanti.

    Eppure in questo paese che oggi lo combatte a colpi di reti e dissuasori, il corvo non è sempre stato un paria. È un animale profondamente ambivalente, un essere che cammina sul filo sottile che separa il sacro dal profano. Se da un lato è considerato un “kami no tsukai”, un messaggero divino, dall’altro la sua ombra si allunga su aspetti più oscuri, legandosi a volte all’idea di maledizione. Basta scalfire la superficie del quotidiano per scoprire un’anima antica, un rispetto ancestrale che affonda le radici nella notte dei tempi. Se si lascia la giungla d’asfalto e ci si addentra nel silenzio ovattato di un santuario shintoista, l’immagine del corvo trasfigura.

    Qui, esso abbandona le sue spoglie di razziatore di rifiuti seriale per indossare quelle sacre dello yatagarasu, il corvo a tre zampe, guida celeste e araldo divino. La leggenda narra che fu proprio questo essere mitologico, inviato dalla dea del sole Amaterasu, a guidare il primo imperatore del Giappone, Jimmu, attraverso le impervie montagne, assicurando la fondazione di una nazione. Le sue tre zampe, si dice, rappresentano il cielo, la terra e l’umanità, un simbolo potente di unione e armonia.

    Questa dualità si riflette in usanza popolari quasi sussurrate, come i karasu kanjō (烏勧請), antichi rituali in cui l’uomo cerca di ingraziarsi questa creatura ambigua. Si offrono piccoli doni, come mochi o dango, non per scacciarla, ma per invitarla, per pregarla di farsi tramite con il divino, come suggerisce lo stesso termine kanjō. Si credeva, e in alcune comunità rurali si crede ancora, che dal modo in cui il corvo becca l’offerta si possano trarre presagi, decifrare il futuro, propiziarsi la fortuna. Un gesto di pace, un tentativo di dialogo con l’uccello che è tanto detestato quanto venerato.

    Purtroppo, come molte tradizioni che richiedono tempo e silenzio, anche i karasu kanjō stanno lentamente scomparendo, inghiottiti dalla fretta del mondo moderno. Sopravvivono tenacemente nelle campagne, ultimo baluardo di un passato ricco di significato, un legame con un tempo in cui l’uomo sapeva ancora ascoltare la voce degli dei attraverso il gracchiare di un corvo.

    E così, il Giappone, vive questa sua curiosa dicotomia. Alza gli occhi al cielo con un sospiro di rassegnazione nel vedere l’ennesimo stormo dirigersi verso i cassonetti, ma poi si inchina con riverenza davanti a un’immagine dello stesso uccello incisa su un amuleto. Un ladro sfacciato e un messaggero divino, un fastidio quotidiano e un oracolo alato. In questa duplice natura, forse, risiede il vero fascino del corvo giapponese: un promemoria costante che la bellezza e la seccatura, il sacro e il profano, spesso volano con le stesse ali.

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