Tag: Diario

  • Lo Specchio Incrinato

    Lo Specchio Incrinato

    26 settembre 1939

    Caro Diario,

    L’estate si è arresa, anche se qui nel sud del Giappone, a Sasebo, l’aria è ancora densa, intrisa di quel calore umido che ti si appiccica addosso e non ti abbandona nemmeno nel cuore della notte. È un’afa tenace, quasi un sudario. Sembra quasi che il tempo stesso si rifiuti di andare avanti, immobile in questa calura soffocante, proprio come questa nazione. 

    I sussurri della disfatta di Nomonhan, o Khalkhin Gol, come la chiamano i russi, sono giunti fin quaggiù con la forza di un tifone silente. Sono arrivati non dai giornali, ma sulle labbra dei marinai e dei mercanti di ritorno dal continente. L’ufficialità ha preferito il silenzio, una cortina di fumo spesso come le nubi di polvere sollevate dai carri armati sovietici. Il cessate il fuoco è stato firmato solo undici giorni fa, ma il sapore amaro della sconfitta è già ovunque. Una sconfitta che brucia, un monito terribile sulla potenza dell’Armata Rossa e sulla fallacia delle nostre strategie basate sul seishin shugi, l’ardore dello spirito, contro l’acciaio freddo e impersonale. Si parla di nuove tattiche nemiche, di accerchiamenti rapidi, di carri armati BT-7 contro cui i nostri fanti, coraggiosi fino all’estremo sacrificio, poco hanno potuto. Ma tutto viene sussurrato, mai ammesso apertamente. È strano come una sconfitta così cocente, un colpo così duro all’orgoglio della nostra invincibile Kantōgun, possa svanire nell’oblio delle notizie ufficiali, come se la verità fosse un lusso che non possiamo permetterci, o peggio, un tradimento. 

    E la Cina? Un gorgo che inghiottisce uomini e risorse. Lo chiamano ancora, shina-jihen, l’incidente cinese”, come se fosse una scaramuccia passeggera, ma la nostra “guerra santa” non conosce fine, ora entrata nel suo terzo anno. Ogni giorno il bollettino radiofonico magnifica nuove avanzate. Proprio in questi giorni si parla di grandi successi nella battaglia di Changsha. La propaganda celebra la creazione di governi fantoccio come quello di Wang Jingwei che dovrebbe, sulla carta, pacificare il paese. Ma le lettere che arrivano dal fronte, quelle poche che sfuggono alla censura del kenpeitai, raccontano un’altra storia. Una storia di fango, fame, malattie e di un nemico che, pur frammentato, non si arrende mai. I ragazzi partono pieni di ardore e le loro ceneri tornano in piccole scatole di legno bianco. Una ferita aperta che continua a prosciugare le nostre forze, le nostre risorse, mentre il sogno di una “sfera di coprosperità della grande Asia Orientale” sembra sempre più un lontano miraggio. Ogni giorno porta nuove operazioni, nuove conquiste territoriali, ma a quale costo umano ed economico? La guerra non finisce mai, si trascina, logorante, senza un barlume di speranza concreta.

    Anche la politica interna è un balletto incessante di cambi di guardia. Il barone Hiranuma è caduto,travolto dallo smacco del patto tedesco-sovietico – un fulmine a ciel sereno che ha fatto tremare le fondamenta della nostra alleanza anti-Comintern, un tradimento da parte dei nostri supposti alleati europei – e dalla polvere amara di Nomonhan. Ora c’è Abe Nobuyuki, un altro generale chiamato a rimettere ordine nel caos, a cercare una via d’uscita dal pantano cinese e a ridefinire la nostra posizione in un mondo sull’orlo del baratro. Sembra che nessuno riesca a mantenere la rotta per molto, in un paese che naviga a vista tra le tempeste di una crisi internazionale sempre più minacciosa. E l’economia, povera spina dorsale di una nazione in armi, geme sotto il peso della legge sulla mobilitazione generale dello Stato. Razionamenti, requisizioni e prezzi controllati. Vedo pian piano scomparire dagli scaffali le cose più semplici.

    E mentre noi ci dibattiamo in questo pantano, dall’Europa giungono notizie ancora più cupe. La Germania ha invaso la Polonia all’inizio del mese, e ora Francia e Inghilterra sono in guerra. Un altro incendio che divampa, lontano per ora, ma il cui fumo sembra già voler raggiungere le nostre coste. Il governo Abe ha dichiarato la nostra non ingerenza in questo conflitto europeo, ma in questo mondo interconnesso, quanto può durare un simile isolamento, specialmente dopo il tradimento tedesco che ha lasciato così esposti e confusi?

    Stasera, sulla via del ritorno a casa, ho notato una folla agitata, curiosa, radunata davanti a un locale. Ho pensato al solito comizio di qualche politico minore, o magari a qualche attore di passaggio. Ma poi l’ho vista. Una donna, giovane, forse una futura sposa di guerra o un’infermiera volontaria in partenza per il continente, accompagnata da alcune signore dell’Aikoku Fujinkai. Le stesse che avevo incontrato qualche tempo fa, vestite con i loro kappōgi, i classici grembiuli bianchi, la loro instancabile energia e i loro sorrisi determinati. Le sue compagnie la salutavano con una frase che in quel momento particolare mi ha colpito come una pietra: aikoku no kagami. Lo specchio della patria, della nazione.

    Un’espressione così potente, così evocativa, che riecheggia gli slogan della mobilitazione spirituale nazionale. Mi ha fatto riflettere su quanto fosse simile ad “ai no kagami”, lo specchio dell’amore, un modo di dire che si sente spesso nelle canzoni popolari o nei drammi del kabuki. Lo specchio della patria, lo specchio dell’amore. Ho pensato come una singola parola, possa deviare un significato, caricarlo di un peso così diverso eppure così familiare. Patria al posto di amore. Il sacrificio del sé non più per un altro individuo, ma per l’entità astratta e divoratrice della nazione. Quanto potere poteva avere quella frase sulla gente? Quanta fede, o forse quanta disperazione, potevano celarsi dietro un immagine cosi forte, cosi assoluta, imposta come modello?

    Mentre ero immerso in questi pensieri, una scossa mi ha riportato alla realtà. “Ryōta!Akajō-san, la più anziana e autoritaria del gruppo delle Aikoku Fujinkai, con la sua solita energia marziale, ha urlato il mio nome, strappandomi alla mia bolla. L’ho guardata, poi ha indicato la donna. “Ryōta, ti presento…” L’ho vista meglio. Sarà stata della mia età, forse poco più grande. Ma c’era qualcosa in lei che non quadrava con il fervore di Akajō-san e delle altre. I suoi occhi non bruciavano dello stesso fuoco patriottico. Non sprigionava quell’entusiasmo cieco, quella fede incrollabile che vedevo intorno a me, quasi palpabile nell’aria. Era diversa. Il suo sorriso era una linea sottile e tirata, il suo sguardo era perso oltre la folla, come un lago calmo sotto un cielo carico di tempesta. Volevo parlare, chiederle cosa significasse per lei essere uno “specchio”, se si sentisse levigata o se temesse di andare in frantumi. Ma non ho avuto il tempo. È stata trascinata via, inghiottita dalla folla adorante, dal suo destino di riflesso perfetto.

    Ho continuato la mia strada verso casa, gli ultimi bagliori del sole che si perdeva in lontananza tra le Kujūkushima, le novantanove isole, sagome scure e frammentate contro un cielo che virava al viola. Ho ripensato a lei, a quello sguardo assente, quasi prigioniero, e a tutto il resto. A questa nazione che sembra correre verso un futuro incerto, tra segreti taciuti e verità distorte, tra l’esaltazione del sacrificio e il peso di una guerra che non vuole finire. 

    E mi sono chiesto, ancora una volta, chi siamo davvero, noi, lo specchio di tutto questo. Siamo la superficie lucida che riflette una gloria imposta, o le crepe invisibili che ne rivelano la fragilità? Forse e proprio in quelle crepe che si nasconde la verità.

    Contesto storico

    Attraverso le parole scritte da Ryōta nel suo diario ho cercato di aprire una finestra su un momento cruciale e carico di tensione per il Giappone. Per comprendere appieno le ansie e le osservazioni del protagonista è utile analizzare il contesto storico in cui muove. Il paese non è ancora entrato nella Seconda Guerra Mondiale (l’attacco a Pearl Harbour avverrà solo due anni dopo), ma è già profondamente segnato da un decennio di militarismo crescente e da un conflitto lacerante. 

    I due fronti

    1. L’incidente di Nomonhan (Khalkhin Gol): una guerra non dichiarata con l’Unione Sovietica, combattuta fino a settembre 1939. Fu una sconfitta devastante per l’esercito giapponese, la cui dottrina basata sullo spirito (seishin shugi) si scontrò con la superiorità dei carri armati sovietici. La disfatta, tenuta segreta, fu cruciale: spinse il Giappone a rinunciare all’espansione in Siberia per guardare invece verso il sud-est asiatico, ponendo le basi per la futura guerra del Pacifico.
    2. L’incidente cinese (shina-jihen): termine che i giapponesi hanno sempre volutamente usato per chiamare la guerra contro la Cina, che è nota in Occidente come la Seconda Guerra sino-giapponese (1937-1945). L’uso del termine “incidente” al posto di “guerra” era un strategia del governo e dell’esercito per minimizzare la portata del conflitto e la loro aggressione. Iniziata nel 1937, era in tutti gli effetti un conflitto su vasta scala che la propaganda chiamava eufemisticamente “incidente” per nasconderne i costi esorbitanti. In realtà, era diventato un “pantano” che prosciugava le risorse del Giappone senza una vittoria in vista. Nonostante i successi ufficiali, la resistenza cinese continuava, e la spietata censura della polizia militare (kenpeitai) nascondeva la dura realtà del fronte.

    Crisi politica ed economica interna 

    La situazione internazionale aveva un impatto diretto sulla politica interna del Giappone:

    1. Il patto Molotov-Ribbentrop, ovvero l’accordi di non aggressione tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica dell’agosto del 1939 fu uno shock diplomatico senza precendenti per il Giappone, lagato alla Germania dal Patto Anti-Comintern, un’allenaza ideologica contro il comunismo sovietico. Il patto fu visto come un tradimento che isolò il Giappone e provocò la caduta del governo di Hiranuma Kiichirō. Il nuovo primo ministro Abe, aveva il difficile compito di ricalibrare la politica estera in un mondo stravolto, dichiarando la “non ingerenza” nel conflitto europeo appena scoppiato.
    2. Legge sulla mobilitazione generale, la “kokka sōdō inhō” (国家総動員法), promulgata nel 1938 poneva l’economia e società giapponese al servizio dello sforzo bellico. Concretamente, significava razionamento, controllo dei prezzi, requisizioni di materiali e la soppressione di ogni forma di “lusso”. La vita quotidiana dei cittadini era sempre più dura e controllata dallo stato.

    La mobilitazione dello spirito

    La guerra non si combatteva solo con le armi, ma anche con la propaganda. Il movimento di mobilitazione spirituale nazionale, “kokumin seishin sōdōin undō” (国民精神総動員運動) mirava a unire il popolo in uno sforzo unanime, promuovendo il patriottismo, l’obbedienza e il sacrificio. L’espressione “aikoku no kagami” (愛国の鑑) usata all’interno del diario è, secondo me, un esempio perfetto della retorica di quel periodo. Designava una persona che si era distinta in qualche modo o in qualche suo comportamento (spesso una donna) come modello ideale di virtù patriottica. Come nota Ryōta, il linguaggio dell’amore e della devozione personale, “ai no kagami” (愛の鑑), lo “specchio dell’amore” veniva deviato e riproposto in chiave nazionalista. L’individuo cessava di esistere per se stesso per diventare un mero riflesso della gloria e del sacrificio richiesto dalla nazione.  Lo sguardo “assente” della donna suggerisce la tensione tra l’ideale imposto e la realtà di un individuo schiacciato da un ruolo non scelto. 

    Ho cercato di catturare ancora una volta l’essenza del Giappone del 1939: una nazione militarista intrappolata in una guerra che non puo vincere, tradita dal suo principale alleato europeo, segretamente umiliata sul campo di battaglia dai sovietici e sempre più totalitaria al suo interno, dove la propaganda cerca di mascherare una realtà fatta di dubbi, sacrifici e crescente incertezza. È il ritratto di un paese sull’orlo del precipizio.

  • Sasebo: febbre d’acciaio

    Sasebo: febbre d’acciaio

    20 Luglio, 1939

    Caro Diario,

    Sono trascorsi un paio di mesi, volati via come il fumo di un braciere, da quella serata e da quello shōchū condiviso con Minomori-san. Recentemente, ho ricevuto una sua breve missiva, la calligrafia elegante e precisa come sempre. Mi annunciava la sua promozione a capo ingegnere e il conseguente trasferimento alla ben più grande base navale di Yokosuka. Sono sinceramente felice per questo meritato riconoscimento, sebbene una punta di rammarico per la sua assenza qui a Sasebo si faccia sentire. La sua acuta perspicacia e il suo amato umorismo mi mancano, specialmente in questo ambiente che, pur professionalmente stimolante, è ogni giorno più intriso di una crescente, quasi palpabile, tensione. Anche le sue poche righe da Yokosuka, pur formali, lasciavano trasparire una certa gravità, un accenno alla “ferrea determinazione” che pervade la capitale, che mi ha lasciato più pensieroso che rincuorato.

    Qui a Sasebo, l’aria stessa sembra vibrare di un’attività febbrile. Da quando sono giunto in questa sezione, la mia posizione di supervisore – un ruolo peculiare, affidatomi, credo, oltre alle mie conoscenze tecniche, per la mia conoscenza del paese, della lingua e della sua complessa cultura – mi ha concesso un punto di osservazione privilegiato sugli ingranaggi di questa vasta e oliata macchina bellica. Il mio compito, come sai, è supervisionare alcuni aspetti tecnici legati al varo delle nuove unità per la Marina Imperiale, un’attività che subito un’accelerazione impressionante proprio in queste ultime settimane. Si vocifera di standard produttivi quasi raddoppiati, di scadenze anticipate. 

    Ogni giorno, il porto brulica. È un viavai di navi che entrano ed escono dalla baia: incrociatori leggeri dal profilo affilato, cacciatorpedinieri agili e veloci, scuri sottomarini appena usciti dai cantieri o rientrati da missioni di pattugliamento i cui dettagli rimangono, ovviamente, non detti. Attraccano per manutenzioni lampo o per essere equipaggiati con le ultime tecnologie. Le banchine sono un formicaio instancabile di operai, di marinai dai volti abbronzati, di tecnici chini su progetti e motori. Si lavora a ritmi che definirei disumani, e le luci degli arsenali rimangono accese, quasi a sfidare l’oscurità, fino a tarda notte. Non è solo la costruzione, è l’intero apparato che si muove all’unisono. L’addestramento delle nuove reclute è incessante; vedo questi giovani, alcuni appena adolescenti, muoversi con una determinazione quasi fanatica, gli occhi che brillano di un fuoco strano sotto lo sguardo inflessibile degli ufficiali. L’espansione della flotta non è più un progetto, è una realtà tangibile, il segno inequivocabile di una nazione che si sta armando fino ai denti. Ma per quale scopo ultimo? Contro chi, precisamente?

    Dai notiziari radiofonici, che ascolto con un misto di curiosità professionale e crescente scetticismo, continuano a giungere dispacci frammentari e trionfalistici sulla “Battaglia di Nomonhan” al confine con la Mongolia. Le voci si rincorrono, spesso palesemente contraddittorie, filtrate dalla censura. Si esaltano atti di eroismo individuale, si magnificano presunte avanzate del kantōgun verso le zone della Siberia e dell’Unione Sovietica. Ma non posso fare a meno di chiedermi quanto di vero vi sia in questi resoconti ufficiali, e quanto invece sia frutto della macchina della propaganda, oliata per alimentare uno spirito bellico ed espansionistico che sembra ormai insaziabile. Paradossalmente, quest’ombra del conflitto con i sovietici ad est, un impegno che sospetto sia ben più oneroso di quanto si ammetta, sembra quasi acuire, per una sorta di rivalità interna tra Esercito e Marina, la spinta verso sud. Sento gli ufficiali della Marina, nei rari momenti di convivialità, parlare sempre più apertamente di “risorse vitali” nel sud-est asiatico, di quello che in giapponese viene definito come kyōeiken (共栄圏), ovvero uno “spazio di prosperità” che il Giappone avrebbe il diritto, anzi, il “sacro dovere” di creare e guidare, liberando l’Asia del giogo occidentale. 

    Questo 1939, caro Diario, si sta rivelando un anno di svolta, lo sento fin nelle ossa. C’è un energia quasi primordiale, inarrestabile, che pervade questo paese; una forza collettiva che, devo ammetterlo, in parte mi affascina per la sua dedizione, ma che al contempo mi atterrisce per la sua cecità. La determinazione è senza dubbio ammirevole, la capacità di sacrificio quasi commovente, ma temo che questa ossessiva smania di crescita, questa retorica nazionalista che demonizza ogni ostacolo esterno e interno, stia conducendo il Giappone su un sentiero da cui vi sara rirtorno indolore. Ogni nuova nave da guerra che scivole superba sulla acque della baia di Sasebo, ogni collaudo di nuovi armamenti, ogni giovane volto di recluta che sfila, non fa che alimentare la mia profonda, lancinante preoccupazione per il futuro di questa nazione che, con tutti i suoi contrasti, ho imparato a conoscere e, a modo mio, amare. L’anima del Giappone, in questi giorni d’estate, mi appare più inquieta e febbricitante che mai, sull’orlo di un abisso che ancora si ostina a non vedere.

    Contesto storico

    Questa pagina di diario del 20 Luglio 1939, intitolata “Sasebo: febbre d’acciaio”, si inserisce in un momento cruciale per l’Impero Giapponese, un periodo di crescente militarizzazione e di ambizioni espansionistiche che avrebbero presto trascinato la nazione nel vortice della Seconda Guerra Mondiale. La Base Navale di Sasebo, dove l’autore del diario si trova (e dove io vivo e lavoro oggi), era uno dei cardini di questa imponente macchina bellica, e la sua importanza strategica non può essere sottovalutata. 

    Genesi e ascesa di Sasebo

    La scelta di Sasebo come sede di un importante, chinjufu (鎮守府), “distretto navale” alla fine del XIX secolo non fu casuale. Le sue particolarità geografiche la rendevano ideale: 

    1. Porto naturale protetto: la baia di Sasebo è profonda, ampia e ben riparata dalle intemperie e da possibili attacchi, grazie alla sue molte insenature e isole circostanti.
    2. Posizione strategica: situata sulla costa nord-occidentale del Kyūshū, Sasebo offriva un accesso privilegiato al Mar Cinese Orientale, ponendosi in una posizione ideale per le operazioni verso la Corea, la Cina, e più in generale, il continente asiatico. Questa sua vicinanza era fondamentale per le ambizioni espansionistiche del Giappone. 
    3. Risorse e sviluppo: la vicinanza a bacini carboniferi (come quello di Miike), essenziali per la navi a vapore dell’epoca, e la determinazione del governo Meiji a modernizzare il paese, portarono a rapidi investimenti industriali.

    Fina dalla sua designazione ufficiale come distretto navale nel 1889 e l’apertura dell’arsenale nel 1903, Sasebo divenne un fulcro per la Marina Imperiale Giapponese. Svolse un ruolo chiave durante la Guerra Russo-Giapponese (1904-1905), fungendo da base di partenza e riparazione per la flotta dell’Ammiraglio Tōgō (lo stesso che aveva scoperto e scelto Sasebo).

    Gli anni ‘30: verso la guerra totale

    Il periodo che ho cercato di descrivere nel diario, 1939, vede un’accelerazione esponenziale delle attività. Il Giappone era impegnato dal 1937 nella Seconda Guerra Sino-Giapponese, un conflitto logorante che continuava a prosciugare risorse. La “febbre d’acciaio” e una metafora che ho usato:

    Costruzione e riparazione navale

    L’arsenale navale di Sasebo era uno dei principali centri per la costruzione di nuove unità navali (cacciatorpedinieri, incrociatori leggeri, sottomarini) e per la riparazione e modernizzazione di quelle esistenti. La Marina Imperiale stava vivendo una fase di massiccia espansione, in parte svincolata dai trattati navali internazionali che il Giappone decise di abbandonare (come il Trattato Navale di Washington e i successivi accordi di Londra). La necessità di una flotta potente per sostenere l’espansione nel Pacifico e nel Sud-Est Asiatico era considerata vitale. 

    Base operativa e logistica

    Sasebo era un’importante base di smistamento per truppe e materiali da e verso il continente. Le sue banchine e i suoi cantieri lavoravano a ritmi forsennati per mantenere la flotta efficiente e pronta al combattimento. L’addestramento incessante delle reclute rifletteva la militarizzazione della società e la preparazione a un conflitto su vasta scala. 

    Tensioni geopolitiche

    Il riferimento alla “Battaglia di Khalkhin Gol” (o incidente di Nomonhan), un duro scontro di confine non dichiarato con l’Unione Sovietica che si stava combattendo proprio nell’estate nel 1939, e significativo. Sebbene principalmente uno scontro terrestre, esso influenzava la strategia bellica generale. La sconfitta giapponese a Khalkhin avrebbe, paradossalmente, rafforzato le argomentazioni della Marina (in special modo la fazione sostenitrice del nanshin-ron – 南進論, ovvero la “dottrina dell’espansione a Sud”) che premeva per concentrare le risorse sulla conquista delle ricche colonie del Sud-Est Asiatico (Indocina Francese, Indie Orientali Olandesi, Malesia Britannica) per assicurarsi materie prime vitali come petrolio, gomma e minerali. Questo contrastava con la fazione dell’Esercito del hokushin-ron (北進論), la “dottrina dell’espansione a nord” focalizzata sull’espansione in Manciuria e la Siberia. 

    Sfera di co-prosperita della Grande Asia Orientale

    L’accenno che ho fatto al kyōeiken (共栄圏), per esteso “Dai Tōa Kyōeiken” (大東亜共栄圏),  è centrale. Questa era la dottrina tramite la quale il Giappone giustificava le sue mire espansionistiche, presentandosi come il liberatore dell’Asia dal colonialismo occidentale, con l’obiettivo, almeno dichiarato, di creare un blocco di nazioni asiatiche autosufficienti sotto la guida giapponese.

    In questo contesto, Sasebo non era solo un citta cantiere o una base navale, ma il cuore pulsante delle ambizioni navali dell’Impero. La frenetica attivita, l’aumento della produzione, la tensione palpabile e la retorica nazionalista descritta nel diario sono il riflesso diretto della posizione fondamentale di Sasebo nello scacchiere militare giapponese, mentre la nazione di preparava a una guerra che avrebbe ridefinito il suo destino e quello del mondo intero. La “febbre d’acciaio” era la manifestazione fisica della volontà del Giappone di diventare la potenza egemone in Asia, e Sasebo era una delle fucine dove venivano forgiati gli strumenti di tale ambizione.

  • Un bicchiere di shōchū e l’anima inquieta del Giappone

    Un bicchiere di shōchū e l’anima inquieta del Giappone

    15 Maggio, 1939

    Caro Diario,

    L’aria greve di questo maggio qui a Sasebo si mescola al fumo denso della piccola shokudō di quartiere. Le risate degli altri avventori e il tintinnio dei bicchieri riempiono a tratti il locale, ma stasera sembrano quasi distanti, un sottofondo a una tensione che sento crescere. Sono qui a Sasebo, per supervisionare alcuni aspetti tecnici legati al varo delle nuove unità per la Marina Imperiale. Di fronte a me siede Minomori-san, vecchio amico e ingegnere navale. La sua fronte è solcata da rughe che non ricordavo così profonde, mentre sorseggia il suo shōchū. Anni sono trascorsi dall’ultima volta che ci siamo visti con questa calma, eppure il nostro legame sembra immutato. Come ai vecchi tempi, da quando i miei incarichi mi portano in questa citta fortezza della Marina Imperiale, ci troviamo spesso a conversare, ma stasera il discorso ha preso una piega che mi lascia pensieroso, quasi inquieto. 

    “Sai,” esordisce Minomori-san, la voce più bassa del solito, quasi un sussurro carico di un peso che fatica a scrollarsi di dosso, “questi sono tempi…difficili da decifrare, non trovi? il paese cambia a una velocità che mi sconcerta. E questo kokka Shintō, lo Shintō di stato…ahimè, è diventato una forza che travolge ogni cosa, e non sempre in modi che mi convincono.” Abbassa lo sguardo, quasi a cercare le parole giuste nel fondo del suo bicchiere vuoto. 

    “Sì, lo percepisco ovunque,” rispondo, masticando lentamente una fetta di daikon marinato. La sua presenza è palpabile, nelle scuole, nelle cerimonie, nei discorsi ufficiali. “Ma cosa c’è realmente dietro a questa imponente spinta? Al di là del patriottismo, della lealtà quasi febbrile verso l’Imperatore…” lascio la frase in sospeso, intuendo che la sua risposta non sarà di circostanza.

    Minomori-san si versa dell’altro shōchū, un gesto lento, quasi meditato. I suoi occhi, solitamente vivaci, sembrano velati da un’ombra. “È una domanda che mi pongo spesso, amico mio. E la risposta è complessa, forse scomoda. Ma se vuoi tentare di capire le radici di ciò che vedi, devi fare i conti con un nome: Hirata Atsutane.”

    Annuisco. “Il nome mi è familiare. Uno dei “Quattro grandi del Kokugaku”, se non erro?”. Ho letto qualcosa sui suoi studi, sulla sua influenza. 

    “Proprio lui,” conferma con mezzo sorriso amaro. “Un intelletto formidabile, non c’è dubbio. Un uomo che ha voluto scavare fino a quella che credeva essere l’anima più recondita, l’essenza primigenia del Giappone. Ha tentato, con una foga quasi ossessiva, di “purificare” lo Shintō da quelle che considerava incrostazioni, le influenze buddiste e confuciane accumulate nei secoli. Voleva riportare alla luce la “via degli antichi Dèi”, le nostre credenze originarie. Un’intenzione nobile, forse, ma…” lascia la frase sospesa, e il silenzio è eloquente.

    Mi porge il tokkuri, e mentre il mio bicchiere si riempie, continua con una voce ancora più sommessa, quasi guardandosi intorno: “Atsutane non era il solito filologo, un erudito come altri. Era, nel profondo, un teologo, un costruttore di sistemi. La sua visione dello yūmeikai, dell’aldila…non e un luogo di terrore, come potete immaginarlo voi occidentali, ma un mondo che si sovrappone al nostro, quasi ne fosse il doppio invisibile, l’altra faccia di una moneta. E l’aspetto cruciale, quello che oggi viene tanto…enfatizzato…e che non sarebbe un luogo di impurità. Niente kegare, dimentica quel concetto rituale. Anzi, per lui, quello era il vero mondo, eterno, infinito, mentre il nostro, questo su cui poggiamo i piedi, sarebbe solo un passaggio effimero.”

    Un brivido sottile mi corre lungo la schiena, nonostante il calore del locale e dello shōchū. Ricordo alcuni passaggi dei testi che ho consultato. “Quindi, secondo questa visione, i nostri cari defunti…non sarebbero realmente scomparsi?”

    Minomori-san annuisce lentamente, il suo sguardo fisso nel vuoto. “Così dicono. Ed è su questa leva emotiva, amico mio, che lo Shintō di stato fa presa con la forza. L’idea che gli spiriti degli antenati, di coloro che abbiamo amato e perduto, non siano irrimediabilmente lontani. Che siano ancora qui, “dall’altra parte del velo”, come dicono. Non svaniti, ma viventi, in una forma diversa, che coesiste con la nostra”. 

    Beve un altro sorso, il volto contratto in un’espressione indecifrabile. “Pensa un attimo al sollievo che un simile pensiero può infondere, specialmente di questi tempi, con tanti giovani al fronte”. La sua voce si incrina leggermente. “Sapere, o credere, o essere portati a credere, che il loro spirito non si dissolva nel nulla, ma resti a vegliare…è un conforto potente. Atsutane ha fornito una cornice, una sorta di logica a tutto questo. Ha cercato di definire dove e come gli spiriti dimorino, nel tentativo di rendere lo Shintō una dottrina che offrisse “serenità dopo la morte”. Una serenità che, temo, oggi viene usata per altri scopi.”

    “È…inquietante quanto questa idea stia riemergendo con tanta forza proprio ora”, commento, riflettendo sulla sete di unità e di certezza che sembra pervadere il paese in questo clima di crescente tensione internazionale. “Sembra quasi che le sue teorie siano state dissepolte a lucidate a nuovo, per servire uno scopo preciso”. 

    “Altroché!” la mano di Minomori-san si stringe attorno al bicchiere. “Perché non si tratta solo di teologia, capisci? Atsutane, nel suo fervore nazionalistico, proclamò anche la superiorità intrinseca del Giappone, terra degli dei, e la natura divina del nostro Imperatore. Questa enfasi sulla discendenza diretta dalla dea Amaterasu… è diventata la colonna portante, la giustificazione ultima dell’ideologia del kokka Shintō. La lealtà verso il Trono, il patriottismo, non sono più solo doveri civici, ma atti di fede, un vincolo quasi sacrale.”

    Si china leggermente verso di me, abbassando ulteriormente la voce, nonostante il rumore circostante. “E poi c’è l’aspetto più spinoso. Quello nazionalistico, intendo. Atsutane era un patriota, non c’è dubbio, ma anche profondamente avverso agli stranieri . Le sue idee hanno gettato le basi per quel sonnō jōi – Riverire l’Imperatore, espellere i barbari – che infiammò gli animi alla fine del periodo Tokugawa. E quel “espellere i barbari”… beh, non devo certo spiegare a chi si riferisse.” Un’occhiata eloquente nella mia direzione. “Ora, quello spirito, quella chiusura, quella presunzione di superiorità, sta tornando. Ma non è più come uno slogan che univa samurai ribelli; oggi è organizzato, inculcato, è…dottrina di Stato. E questo amico mio, mi spaventa.”

    Guardo il mio bicchiere, ora vuoto. “Quindi, la rotta che il paese sta seguendo…affonda le sue radici molto più in profondità di quanto un osservatore esterno possa cogliere.

    Minomori-san continua: “È una rotta intrapresa, e le idee di Atsutane, o meglio, l’interpretazione che se ne fa oggi, sono un vento potente che gonfia le vele della propaganda. Ma ho il terrore che questo vento ci stia spingendo verso una tempesta da cui sarà difficile uscire indenni. Il kokka Shintō non è solo un’impalcatura politica; sta cercando di plasmare l’anima stessa della nostra gente, il modo di concepire la vita, la morte, il nostro ruolo nel mondo. Offre una presunta tranquillità, la promessa che non siamo soli, che i nostri antenati vegliano. E di questi tempi, credimi “il suo sguardo si fa sempre più intenso,” molti sono disposti ad aggrapparsi a qualunque cosa pur di avere questa illusione.”

    Mando giù l’ultimo sorso di shōchū. Il suo calore si diffonde, ma non riesce a scacciare un freddo interiore. Mi chiedo, osservando il volto tirato del mio amico, se in questo mondo in ebollizione, la promessa di un “dopo” così tangibile e rassicurante, così intimamente legato al destino della nazione, non possa davvero condurre a una cieca dedizione, a un sacrificio totale sull’altare di un ideale sempre più opprimente. Il sapore dello shōchū mi sembra improvvisamente più amaro. 

    Contesto storico

    Giappone tra restaurazione e nazionalismo

    La pagina di diario che ho scritto ci trasporta ancora una volta nel 1939, un periodo cruciale per il Giappone, che si trovava sull’orlo di un conflitto mondiale. In quegli anni, il paese era percorso da un forte nazionalismo e da una lealtà quasi assoluta all’Imperatore. Questo clima era alimentato da un’ideologia conosciuta come kokka shintō (国家神道), lo shintō di stato, che elevava la “religione” tradizionale giapponese al rango di dottrina ufficiale dello Stato.

    Per capire una delle tante radici di questo fenomeno, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, precisamente alla fine del periodo Tokugawa e all’inizio dell’era Meiji (1868-1912). Per oltre due secoli e mezzo, il Giappone era stato un paese isolato, governato da uno shogunato militare che manteneva l’Imperatore in una posizione di prestigio, ma senza alcun potere effettivo.

    La restaurazione Meiji e il ritorno dell’Imperatore

    Verso la metà del XIX secolo, l’apertura forzata del Giappone all’Occidente e le crescenti pressioni interne portarono alla Restaurazione Meiji. Questo evento segnò la fine dello shogunato e il ritorno dell’Imperatore al centro della vita politica e spirituale del paese. La nuova leadership Meiji cercò di modernizzare il Giappone a ritmi serrati, ma anche di rafforzare nello stesso tempo l’identità nazionale e la coesione sociale. Fu in questo contesto che lo shintō iniziò a essere strumentalizzato per sostenere l’ideologia imperiale. 

    Hirata Atsutane: le radici del nazionalismo shintoista

    È qui che entra in gioco la figura di Hirata Atsutane (1776-1843). Nonostante fosse vissuto prima della Restaurazione Meiji, le sue idee ebbero un influenza enorme sul nazionalismo giapponese e sullo shintō di stato (assieme alla corrente di pensiero e studi storici portati avanti dalla Mitogaku (水戸学), “la scuola di Mito”). Atsutane fu uno dei maggiori esponenti del Kokugaku (国学), una scuola di pensiero che si proponeva di riscoprire e “purificare” l’autentica cultura e spiritualità giapponese, liberandola dalle influenze buddiste e cinesi.

    Atsutane, in particolare, si dedicò allo studio dello shintō, interpretandolo come la vera “religione” originaria del Giappone. Le sue teorie furono considerate rivoluzionarie per quel periodo. 

    “Suprematismo giapponese”: Atsutane sosteneva la “superiorità intrinseca del Giappone” come “terra degli dei”, e la natura divina dell’imperatore, discendente diretto della dea del sole Amaterasu. Questa idea divenne la pietra angolare dell’ideologia imperiale.

    Concetto di aldilà: lo yūmeikai. Contrariamente alle visioni più diffuse all’epoca, influenzate dal buddismo, Atsutane sviluppo un’idea di aldilà, chiamato appunto yūmeikai, come un mondo che coesisteva con il nostro, non un luogo lontano e spaventoso, ma una sorta di altra dimensione in cui gli spiriti degli antenati continuano a vegliare sui vivi. Questa visione offriva conforto e un forte senso di continuità, specialmente in un periodo di guerre e sacrifici.

    Sonnō jōi: le sue idee contribuirono a gettare le basi del movimento sonnō jōi – “riverire l’imperatore, espellere i barbari” – che infiammò gli animi alla fine del periodo Tokugawa e portò al diffondersi di un forte sentimento anti-occidentale. 

    Le teorie di Atsutane, pur nate in un contesto diverso, furono anch’esse interpretate e utilizzate a posteriori per giustificare lo shintō di stato. La sua enfasi sulla natura divina dell’Imperatore, sulla superiorità del Giappone e sulla costante presenza degli spiriti ancestrali, venne sapientemente impiegata per infondere un senso di lealtà sacra, patriottismo e sacrificio nel popolo giapponese, spingendo il paese verso la strada che avrebbe portato ai conflitti del XX secolo.

JapanItalyUSAUnknown