O-chūgen: il filo invisibile della gratitudine giapponese

In ufficio, in questi primi giorni di luglio, si respira un’aria frizzante e quasi febbrile, un’agitazione che non ha nulla a che vedere con le solite scadenze di fine mese. Sulle nostre scrivanie sono comparsi eleganti cataloghi patinati contenenti foto di confezioni di birra pregiata, gelatine colorate e cesti di frutta così perfetti da sembrare finti. Per me, straniero in questa complessa e affascinante realtà aziendale giapponese, è arrivato di nuovo quel momento dell’anno: il tempo degli o-chūgen. E quest’anno più degli altri tocca di nuovo anche a me, con una lista di clienti tra le mani, inoltrarsi nuovamente in questo rito sociale che è tanto radicato quanto, per un occidentale, inizialmente enigmatico.

Mentre sfoglio le pagine, cercando il regalo giusto che esprima gratitudine senza essere eccessivo, la mia mente vaga. Non posso fare a meno di pensare a quanto sia profonda la storia dietro questo semplice gesto di donare una scatola di dolci o un set di olio da cucina. Non è un’invenzione del marketing moderno, né una semplice cortesia aziendale. È l’eco lontana di storie antiche, un filo che lega il mio gesto di oggi a credenze millenarie.

Il viaggio degli o-chūgen comincia in un tempo il cui il sacro e il profano danzavano insieme, in una Cina permeata di taoismo. Il nome stesso, chūgen (中元), significa letteralmente “origine di mezzo”, e si riferisce a una delle tre festività taoiste principali. Il quindicesimo giorno del settimo mese del calendario lunare era il momento per pregare la divinità della terra che si credeva avesse il potere di perdonare i peccati degli uomini. In questo giorno, si facevano offerte per chiedere perdono e benedizioni. Era un momento solenne di espiazione e gratitudine verso le forze che governano il mondo.

Quando queste credenza viaggiarono fino in Giappone, trovarono un terreno fertile e si fusero con una tradizione buddista già esistente e potentissima: l’Obon, la festa per onorare gli spiriti degli antenati. Il periodo coincideva, e così il concetto di offerta di espansione. Non si faceva più solo l’offerta per chiedere il perdono divino, ma anche agli altari di famiglia, le kyōshoku, per accogliere le anime dei propri cari di ritorno per qualche giorno nel mondo dei vivi. Queste offerte, che consistevano in cibi e bevande, dopo essere state presentate agli spiriti, venivano consumate e condivise tra i membri della famiglia e con i vicini. Il gesto si stava già trasformando: da atto puramente religioso a pratica comunitaria, un modo per rafforzare i legami attraverso la condivisione e la gratitudine.

Furono proprio i mercanti, con il loro acuto intuito, a trasformare questa tradizione. Iniziarono ad inviare doni ai loro clienti più importanti durante il periodo estivo, sovrapponendo un’astuta pratica commerciale al profondo significato di gratitudine dell’ Obon. Il loro messaggio era chiaro: “grazie per gli affari conclusi nella prima metà dell’anno, continuiamo a prosperare insieme”. La coincidenza temporale tra le offerte religiose e questa nuova usanza commerciale fu così forte che le due pratiche si fusero. Lentamente, la parola stessa – chūgen – si spogliò del suo significato puramente calendariale per vestire quello dell’atto stesso del donare.

Tuttavia, la vera espansione dell’ochūgen come consuetudine nazionale avvenne con l’era Meiji (1869-1912). La modernizzazione del Giappone agì da catalizzatore: la popolazione si concentrò nelle grandi città, allargando a dismisura le cerchie sociali, e l’industrializzazione permetteva per la prima volta la commercializzazione di massa dei regali. L’impatto decisivo venne però dai grandi magazzini, sorti uno dopo l’altro nel boom economico seguito alle guerre sino-giapponese e russo-giapponese. Con le loro imponenti campagne pubblicitarie su giornali e riviste, non solo vendettero prodotti e shōhin-kitte (gli antenati dei buoni regalo), ma radicarono il gesto nella cultura urbana.

In una società che abbandona le certezze del villaggio per l’anonimato della città, le antiche regole sociali non bastavano più. La gente aveva perso i propri punti di riferimento su cosa fosse appropriato fare. I grandi magazzini colmarono questo vuoto, diventando una sorta di arbitri del buon gusto, le cui proposte funzionavano come guida sicura su cosa, come e a chi donare. Fu così che il gesto su consolidò in un’etichetta sociale indispensabile, un modo per mantenere buone relazioni non solo negli affari, ma anche nella vita privata, esprimendo riconoscenza verso maestri, medici o chiunque ci avesse aiutato in un momento di difficoltà.

Ed eccomi qui, secoli dopo, un impiegato straniero in un Giappone moderno, che partecipa allo stesso identico rituale. La scelta del regalo è carica di significati. Una confezione di sōmen, i sottili spaghetti di grano da mangiare freddi, non è solo cibo, ma un augurio di freschezza durante la calda e umida estate giapponese. Una confezione di birra è un invito alla convivialità da condividere con la famiglia o i colleghi. Ogni articolo nel catalogo è pensato per essere pratico, di qualità e condivisibile, un’eco diretta di quelle antiche offerte che venivano distribuite nella comunità.

Domani andrò dal mio primo cliente della lista. Avrò con me un pacco elegante avvolto, con la tradizionale carta noshi che indica un dono formale. E mentre porgerò quel pacco con un leggero inchino, non starò semplicemente consegnando un prodotto. Sarò l’ultimo anello di una catena secolare, un messaggero che porta con sé un sentimento di antica gratitudine, nato da miti taoisti e riti buddisti e levigato dall’uso sociale di generazioni di mercanti e gente comune. In quel momento, il gesto cesserà di essere un dovere lavorativo e diventerà una piccola, personale comprensione di cosa significhi davvero far parte di questa cultura: mantenere l’armonia, onorare i legami e non dare mai nulla per scontato.

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