Lingua e cultura giapponese

Lo Specchio Incrinato

26 settembre 1939

Caro Diario,

L’estate si è arresa, anche se qui nel sud del Giappone, a Sasebo, l’aria è ancora densa, intrisa di quel calore umido che ti si appiccica addosso e non ti abbandona nemmeno nel cuore della notte. È un’afa tenace, quasi un sudario. Sembra quasi che il tempo stesso si rifiuti di andare avanti, immobile in questa calura soffocante, proprio come questa nazione. 

I sussurri della disfatta di Nomonhan, o Khalkhin Gol, come la chiamano i russi, sono giunti fin quaggiù con la forza di un tifone silente. Sono arrivati non dai giornali, ma sulle labbra dei marinai e dei mercanti di ritorno dal continente. L’ufficialità ha preferito il silenzio, una cortina di fumo spesso come le nubi di polvere sollevate dai carri armati sovietici. Il cessate il fuoco è stato firmato solo undici giorni fa, ma il sapore amaro della sconfitta è già ovunque. Una sconfitta che brucia, un monito terribile sulla potenza dell’Armata Rossa e sulla fallacia delle nostre strategie basate sul seishin shugi, l’ardore dello spirito, contro l’acciaio freddo e impersonale. Si parla di nuove tattiche nemiche, di accerchiamenti rapidi, di carri armati BT-7 contro cui i nostri fanti, coraggiosi fino all’estremo sacrificio, poco hanno potuto. Ma tutto viene sussurrato, mai ammesso apertamente. È strano come una sconfitta così cocente, un colpo così duro all’orgoglio della nostra invincibile Kantōgun, possa svanire nell’oblio delle notizie ufficiali, come se la verità fosse un lusso che non possiamo permetterci, o peggio, un tradimento. 

E la Cina? Un gorgo che inghiottisce uomini e risorse. Lo chiamano ancora, shina-jihen, l’incidente cinese”, come se fosse una scaramuccia passeggera, ma la nostra “guerra santa” non conosce fine, ora entrata nel suo terzo anno. Ogni giorno il bollettino radiofonico magnifica nuove avanzate. Proprio in questi giorni si parla di grandi successi nella battaglia di Changsha. La propaganda celebra la creazione di governi fantoccio come quello di Wang Jingwei che dovrebbe, sulla carta, pacificare il paese. Ma le lettere che arrivano dal fronte, quelle poche che sfuggono alla censura del kenpeitai, raccontano un’altra storia. Una storia di fango, fame, malattie e di un nemico che, pur frammentato, non si arrende mai. I ragazzi partono pieni di ardore e le loro ceneri tornano in piccole scatole di legno bianco. Una ferita aperta che continua a prosciugare le nostre forze, le nostre risorse, mentre il sogno di una “sfera di coprosperità della grande Asia Orientale” sembra sempre più un lontano miraggio. Ogni giorno porta nuove operazioni, nuove conquiste territoriali, ma a quale costo umano ed economico? La guerra non finisce mai, si trascina, logorante, senza un barlume di speranza concreta.

Anche la politica interna è un balletto incessante di cambi di guardia. Il barone Hiranuma è caduto,travolto dallo smacco del patto tedesco-sovietico – un fulmine a ciel sereno che ha fatto tremare le fondamenta della nostra alleanza anti-Comintern, un tradimento da parte dei nostri supposti alleati europei – e dalla polvere amara di Nomonhan. Ora c’è Abe Nobuyuki, un altro generale chiamato a rimettere ordine nel caos, a cercare una via d’uscita dal pantano cinese e a ridefinire la nostra posizione in un mondo sull’orlo del baratro. Sembra che nessuno riesca a mantenere la rotta per molto, in un paese che naviga a vista tra le tempeste di una crisi internazionale sempre più minacciosa. E l’economia, povera spina dorsale di una nazione in armi, geme sotto il peso della legge sulla mobilitazione generale dello Stato. Razionamenti, requisizioni e prezzi controllati. Vedo pian piano scomparire dagli scaffali le cose più semplici.

E mentre noi ci dibattiamo in questo pantano, dall’Europa giungono notizie ancora più cupe. La Germania ha invaso la Polonia all’inizio del mese, e ora Francia e Inghilterra sono in guerra. Un altro incendio che divampa, lontano per ora, ma il cui fumo sembra già voler raggiungere le nostre coste. Il governo Abe ha dichiarato la nostra non ingerenza in questo conflitto europeo, ma in questo mondo interconnesso, quanto può durare un simile isolamento, specialmente dopo il tradimento tedesco che ha lasciato così esposti e confusi?

Stasera, sulla via del ritorno a casa, ho notato una folla agitata, curiosa, radunata davanti a un locale. Ho pensato al solito comizio di qualche politico minore, o magari a qualche attore di passaggio. Ma poi l’ho vista. Una donna, giovane, forse una futura sposa di guerra o un’infermiera volontaria in partenza per il continente, accompagnata da alcune signore dell’Aikoku Fujinkai. Le stesse che avevo incontrato qualche tempo fa, vestite con i loro kappōgi, i classici grembiuli bianchi, la loro instancabile energia e i loro sorrisi determinati. Le sue compagnie la salutavano con una frase che in quel momento particolare mi ha colpito come una pietra: aikoku no kagami. Lo specchio della patria, della nazione.

Un’espressione così potente, così evocativa, che riecheggia gli slogan della mobilitazione spirituale nazionale. Mi ha fatto riflettere su quanto fosse simile ad “ai no kagami”, lo specchio dell’amore, un modo di dire che si sente spesso nelle canzoni popolari o nei drammi del kabuki. Lo specchio della patria, lo specchio dell’amore. Ho pensato come una singola parola, possa deviare un significato, caricarlo di un peso così diverso eppure così familiare. Patria al posto di amore. Il sacrificio del sé non più per un altro individuo, ma per l’entità astratta e divoratrice della nazione. Quanto potere poteva avere quella frase sulla gente? Quanta fede, o forse quanta disperazione, potevano celarsi dietro un immagine cosi forte, cosi assoluta, imposta come modello?

Mentre ero immerso in questi pensieri, una scossa mi ha riportato alla realtà. “Ryōta!Akajō-san, la più anziana e autoritaria del gruppo delle Aikoku Fujinkai, con la sua solita energia marziale, ha urlato il mio nome, strappandomi alla mia bolla. L’ho guardata, poi ha indicato la donna. “Ryōta, ti presento…” L’ho vista meglio. Sarà stata della mia età, forse poco più grande. Ma c’era qualcosa in lei che non quadrava con il fervore di Akajō-san e delle altre. I suoi occhi non bruciavano dello stesso fuoco patriottico. Non sprigionava quell’entusiasmo cieco, quella fede incrollabile che vedevo intorno a me, quasi palpabile nell’aria. Era diversa. Il suo sorriso era una linea sottile e tirata, il suo sguardo era perso oltre la folla, come un lago calmo sotto un cielo carico di tempesta. Volevo parlare, chiederle cosa significasse per lei essere uno “specchio”, se si sentisse levigata o se temesse di andare in frantumi. Ma non ho avuto il tempo. È stata trascinata via, inghiottita dalla folla adorante, dal suo destino di riflesso perfetto.

Ho continuato la mia strada verso casa, gli ultimi bagliori del sole che si perdeva in lontananza tra le Kujūkushima, le novantanove isole, sagome scure e frammentate contro un cielo che virava al viola. Ho ripensato a lei, a quello sguardo assente, quasi prigioniero, e a tutto il resto. A questa nazione che sembra correre verso un futuro incerto, tra segreti taciuti e verità distorte, tra l’esaltazione del sacrificio e il peso di una guerra che non vuole finire. 

E mi sono chiesto, ancora una volta, chi siamo davvero, noi, lo specchio di tutto questo. Siamo la superficie lucida che riflette una gloria imposta, o le crepe invisibili che ne rivelano la fragilità? Forse e proprio in quelle crepe che si nasconde la verità.

Contesto storico

Attraverso le parole scritte da Ryōta nel suo diario ho cercato di aprire una finestra su un momento cruciale e carico di tensione per il Giappone. Per comprendere appieno le ansie e le osservazioni del protagonista è utile analizzare il contesto storico in cui muove. Il paese non è ancora entrato nella Seconda Guerra Mondiale (l’attacco a Pearl Harbour avverrà solo due anni dopo), ma è già profondamente segnato da un decennio di militarismo crescente e da un conflitto lacerante. 

I due fronti

  1. L’incidente di Nomonhan (Khalkhin Gol): una guerra non dichiarata con l’Unione Sovietica, combattuta fino a settembre 1939. Fu una sconfitta devastante per l’esercito giapponese, la cui dottrina basata sullo spirito (seishin shugi) si scontrò con la superiorità dei carri armati sovietici. La disfatta, tenuta segreta, fu cruciale: spinse il Giappone a rinunciare all’espansione in Siberia per guardare invece verso il sud-est asiatico, ponendo le basi per la futura guerra del Pacifico.
  2. L’incidente cinese (shina-jihen): termine che i giapponesi hanno sempre volutamente usato per chiamare la guerra contro la Cina, che è nota in Occidente come la Seconda Guerra sino-giapponese (1937-1945). L’uso del termine “incidente” al posto di “guerra” era un strategia del governo e dell’esercito per minimizzare la portata del conflitto e la loro aggressione. Iniziata nel 1937, era in tutti gli effetti un conflitto su vasta scala che la propaganda chiamava eufemisticamente “incidente” per nasconderne i costi esorbitanti. In realtà, era diventato un “pantano” che prosciugava le risorse del Giappone senza una vittoria in vista. Nonostante i successi ufficiali, la resistenza cinese continuava, e la spietata censura della polizia militare (kenpeitai) nascondeva la dura realtà del fronte.

Crisi politica ed economica interna 

La situazione internazionale aveva un impatto diretto sulla politica interna del Giappone:

  1. Il patto Molotov-Ribbentrop, ovvero l’accordi di non aggressione tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica dell’agosto del 1939 fu uno shock diplomatico senza precendenti per il Giappone, lagato alla Germania dal Patto Anti-Comintern, un’allenaza ideologica contro il comunismo sovietico. Il patto fu visto come un tradimento che isolò il Giappone e provocò la caduta del governo di Hiranuma Kiichirō. Il nuovo primo ministro Abe, aveva il difficile compito di ricalibrare la politica estera in un mondo stravolto, dichiarando la “non ingerenza” nel conflitto europeo appena scoppiato.
  2. Legge sulla mobilitazione generale, la “kokka sōdō inhō” (国家総動員法), promulgata nel 1938 poneva l’economia e società giapponese al servizio dello sforzo bellico. Concretamente, significava razionamento, controllo dei prezzi, requisizioni di materiali e la soppressione di ogni forma di “lusso”. La vita quotidiana dei cittadini era sempre più dura e controllata dallo stato.

La mobilitazione dello spirito

La guerra non si combatteva solo con le armi, ma anche con la propaganda. Il movimento di mobilitazione spirituale nazionale, “kokumin seishin sōdōin undō” (国民精神総動員運動) mirava a unire il popolo in uno sforzo unanime, promuovendo il patriottismo, l’obbedienza e il sacrificio. L’espressione “aikoku no kagami” (愛国の鑑) usata all’interno del diario è, secondo me, un esempio perfetto della retorica di quel periodo. Designava una persona che si era distinta in qualche modo o in qualche suo comportamento (spesso una donna) come modello ideale di virtù patriottica. Come nota Ryōta, il linguaggio dell’amore e della devozione personale, “ai no kagami” (愛の鑑), lo “specchio dell’amore” veniva deviato e riproposto in chiave nazionalista. L’individuo cessava di esistere per se stesso per diventare un mero riflesso della gloria e del sacrificio richiesto dalla nazione.  Lo sguardo “assente” della donna suggerisce la tensione tra l’ideale imposto e la realtà di un individuo schiacciato da un ruolo non scelto. 

Ho cercato di catturare ancora una volta l’essenza del Giappone del 1939: una nazione militarista intrappolata in una guerra che non puo vincere, tradita dal suo principale alleato europeo, segretamente umiliata sul campo di battaglia dai sovietici e sempre più totalitaria al suo interno, dove la propaganda cerca di mascherare una realtà fatta di dubbi, sacrifici e crescente incertezza. È il ritratto di un paese sull’orlo del precipizio.

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