Ogni volta che sento qualcuno definire l’Obon come la “festa dei morti” giapponese, un’ondata di sottile irritazione si mescola al ricordo del mio stesso imbarazzo. Perché quell’errore, quella superficiale etichetta, un tempo era anche la mia. Appena giunto in Giappone, archiviai la questione con la medesima superficialità, adagiandosi in un parallelo comodo e rassicurante. Pensavo: “Certo, un momento per onorare i defunti. Come da noi”. Ma la verità è che non avevo compreso nulla. Stavo guardando la luna, ma vedevo solo il dito che la indicava.
Fu solo partecipando al mio primo Obon nel furusato, il paese di origine della famiglia di un collega, che l’impalcatura della mia certezza iniziò a vacillare. L’aria non era greve di lutto, né impregnata di quella solennità malinconica che la mia cultura mi aveva insegnato ad associare alla morte. Certo, aleggiava un rispetto profondo, un pensiero commosso, ma l’emozione dominante era un’altra: un’attesa vibrante, una letizia serena, quasi elettrica. Era l’atmosfera di chi si prepara a riabbracciare una persona cara dopo un lungo, lunghissimo viaggio.
Ho capito allora che l’equivoco fondamentale risiede nel nostro stesso concetto di “morte”, che è quasi sempre una cesura, un punto di non ritorno. I defunti appartengono al passato; sono presenza da commemorare, figure da compiangere. Qui, durante l’Obon, non si commemorano i “morti”. Si accolgono a braccia aperte i sorei, gli spiriti venerati degli antenati, che non sono entità incorporee o spettri inquieti del folklore, ma sono a tutti gli effetti membri della famiglia, temporaneamente residenti altrove.
L’intera ritualità non è un atto di commemorazione, bensì una preparazione attiva e gioiosa al ricongiungimento. Quando accendiamo il mukaebi, il piccolo fuoco di benvenuto, non stiamo eseguendo un rito scaramantico per placare chissà quali entità. Stiamo accendendo la luce del portico per i nostri nonni e bisnonni, un gesto d’amore puro che sussurra: “La strada di casa è questa. Vi stiamo aspettando”. L’altare domestico, il butsudan, smette di essere un sacrario funebre per trasformarsi nel cuore pulsante della casa, la tavola ideale attorno alla quale tutti siedono, vivi e antenati, condividendo lo stesso sacro spazio.
E poi c’è il Bon Odori. La prima volta che vidi centinaia di persone danzare al ritmo febbrile dei taiko, la mia logica occidentale andò in cortocircuito. Una danza? In una “festa dei morti”? Eppure, nessuno danzava con mestizia. I volti erano sorridenti, i gesti carichi di energia, la gioia era un’onda contagiosa. È una coreografia di gratitudine, un omaggio danzato per intrattenere gli ospiti d’onore, per celebrare il miracolo di essere di nuovo tutti insieme, sotto lo stesso cielo estivo.
Definire l’Obon “festa dei morti” significa appiattire questa realtà complessa e meravigliosa, svuotandola del suo significato più profondo. Significa ignorare il concetto cardine della continuità della famiglia. La famiglia non è la somma degli individui presenti, ma un lignaggio ininterrotto, un fiume di cui gli antenati sono la sorgente e noi il corso attuale. L’Obon e la celebrazione di questo fiume, il momento in cui percepiamo più forte la corrente che ci unisce a chi ci ha preceduto. Non è un volgersi indietro verso ciò che è concluso, ma un percepire, qui e ora, la presenza di ciò che non ha mai fine.
Oggi quando sento quella definizione, non avverto più solo irritazione, ma una sincera compassione per l’orizzonte che a quella persona rimane precluso. Sta riducendo una profondo modo di vivere la vita a una semplice data di calendario. No, questa non è una “festa dei morti”. È la festa della famiglia. È il celebrare la vita che prosegue, imperterrita e coesa, al di là di ogni mondo.