Nel cielo del Sol Levante, un’ombra nera danza instancabile, un ritornello visivo che accompagna l’alba e il tramonto. È il corvo, l’onnipresente signore dei cieli urbani, un sovrano pennuto che osserva dall’alto le nostre vite indaffarate con un’intelligenza che a tratti inquieta, a tratti affascina. Non si può sfuggire al suo richiamo roco, “ka-ka-” che è divenuto la colonna sonora non ufficiale delle metropoli giapponesi, un suono così familiare da confondersi con il brusio del traffico e le melodie delle stazioni dei treni.
Questo volatile, vestito di un piumaggio che ruba la luce, è un maestro di adattamento, un genio incompreso del mondo animale. Lo si osserva con un misto di ammirazione e fastidio mentre risolve complessi problemi per procurarsi il cibo. Lo si vede far cadere noci sulle strisce pedonali, attendendo pazientemente che il semaforo diventi verde e le auto, ignare complici, le schiaccino per lui. Un’astuzia che strappa un sorriso, se non fosse che la sua ingegnosità si applica con la medesima perizia a un’altra, meno nobile, attività.
Ed è qui che l’ammirazione cede il passo all’esasperazione, trasformando il nostro astuto corvo in un vera e propria piaga sociale. All’alba, prima ancora che la città si desti del tutto, orde di questi becchi affilati si avventano sui punti di raccolta dei rifiuti. Con una precisione chirurgica, lacerano i sacchetti, spargendo in un tripudio di caos i resti della nostra opulenza. L’immondizia, meticolosamente separata la sera prima, diventa un banchetto a cielo aperto, un mosaico desolante di avanzi e confezioni sparse sul selciato. E così, quasi ogni mattina, si rinnova la silenziosa battaglia tra cittadini armati di reti protettive e i corvi, imperterriti e sempre un passo avanti.
Eppure in questo paese che oggi lo combatte a colpi di reti e dissuasori, il corvo non è sempre stato un paria. È un animale profondamente ambivalente, un essere che cammina sul filo sottile che separa il sacro dal profano. Se da un lato è considerato un “kami no tsukai”, un messaggero divino, dall’altro la sua ombra si allunga su aspetti più oscuri, legandosi a volte all’idea di maledizione. Basta scalfire la superficie del quotidiano per scoprire un’anima antica, un rispetto ancestrale che affonda le radici nella notte dei tempi. Se si lascia la giungla d’asfalto e ci si addentra nel silenzio ovattato di un santuario shintoista, l’immagine del corvo trasfigura.
Qui, esso abbandona le sue spoglie di razziatore di rifiuti seriale per indossare quelle sacre dello yatagarasu, il corvo a tre zampe, guida celeste e araldo divino. La leggenda narra che fu proprio questo essere mitologico, inviato dalla dea del sole Amaterasu, a guidare il primo imperatore del Giappone, Jimmu, attraverso le impervie montagne, assicurando la fondazione di una nazione. Le sue tre zampe, si dice, rappresentano il cielo, la terra e l’umanità, un simbolo potente di unione e armonia.
Questa dualità si riflette in usanza popolari quasi sussurrate, come i karasu kanjō (烏勧請), antichi rituali in cui l’uomo cerca di ingraziarsi questa creatura ambigua. Si offrono piccoli doni, come mochi o dango, non per scacciarla, ma per invitarla, per pregarla di farsi tramite con il divino, come suggerisce lo stesso termine kanjō. Si credeva, e in alcune comunità rurali si crede ancora, che dal modo in cui il corvo becca l’offerta si possano trarre presagi, decifrare il futuro, propiziarsi la fortuna. Un gesto di pace, un tentativo di dialogo con l’uccello che è tanto detestato quanto venerato.
Purtroppo, come molte tradizioni che richiedono tempo e silenzio, anche i karasu kanjō stanno lentamente scomparendo, inghiottiti dalla fretta del mondo moderno. Sopravvivono tenacemente nelle campagne, ultimo baluardo di un passato ricco di significato, un legame con un tempo in cui l’uomo sapeva ancora ascoltare la voce degli dei attraverso il gracchiare di un corvo.
E così, il Giappone, vive questa sua curiosa dicotomia. Alza gli occhi al cielo con un sospiro di rassegnazione nel vedere l’ennesimo stormo dirigersi verso i cassonetti, ma poi si inchina con riverenza davanti a un’immagine dello stesso uccello incisa su un amuleto. Un ladro sfacciato e un messaggero divino, un fastidio quotidiano e un oracolo alato. In questa duplice natura, forse, risiede il vero fascino del corvo giapponese: un promemoria costante che la bellezza e la seccatura, il sacro e il profano, spesso volano con le stesse ali.