Leggere l’aria che non c’è più

Sono passati più di dieci anni. A volte mi sembra ieri, a volte un’intera vita fa. Stasera siamo di nuovo qui, nella nostra solita izakaya soffocante di fumo di yakitori e risate educate. È un nomikai, uno dei tanti, eppure non è più la stessa cosa. Guardo i volti nuovi, ragazzi dai 18 ai 24 anni, appena usciti dal liceo o all’università. Parlano a voce bassa tra loro, ogni tanto lanciano un’occhiata allo smartphone appoggiato a faccia in giù sul tavolo, un gesto che dieci anni fa sarebbe stato un’eresia. Nessuno li riprende. L’aria è più leggera, meno carica di aspettative. Ed è proprio in questa leggerezza che sento il peso di ciò che manca.

Manca il fantasma del bureikō.

Ricordo i miei primi nomikai come un campo minato sociale. Io, gaijin volenteroso, cercavo disperatamente di decifrare codici che nessuno si prendeva la briga di spiegare. E poi, a un certo punto della serata, quando l’alcool aveva già fatto diversi giri, il buchō, il nostro capo divisione, si schiariva la voce e pronunciava la formula magica: “Konya wa bureikō da!”. “Stasera, nessuna formalità”. Sulla carta, era una liberazione. Un’amnistia temporanea dalle catene della gerarchia, un invito a svelare il proprio honne, i veri sentimenti seppellendo per qualche ora il tatemae, la maschera sociale che indossavamo ogni giorno in ufficio.

Ma il bureikō non è mai stato sinonimo di libertà. Era un teatrino orchestrato, un’illusione di uguaglianza il cui scopo non era abbattere le gerarchie, ma rafforzarle in modo più subdolo. Era la prova del nove della tua intelligenza sociale, la tua capacità di kūki o yomu, di leggere l’aria. Dovevi capire fin dove potevi spingerti. Una battuta innocua sul golf del capo? Ammessa. Un commento sulla sua discutibile gestione dell’ultimo progetto? Suicidio professionale. Il bureikō ti dava la corda, ma eri tu a dover capire che non era per liberarti, ma per vedere se eri cosi stupido da impiccartici.

Mi sono sempre chiesto da dove provenisse questa strana usanza. Non è un’invenzione del Giappone aziendale del dopoguerra. Le sua radici affondano più in profondità, forse negli antichi banchetti di corte, o nelle riunioni dei samurai prima di una battaglia. In una società verticalmente rigida, creare uno spazio controllato dove le tensioni potevano essere rilasciate era essenziale per la coesione del gruppo. Era un meccanismo di sopravvivenza sociale. L’azienda moderna, nel suo picco di crescita economica, non ha fatto altro che adottare questo modello, trasformando l’ufficio in un feudo e i dipendenti in un clan. La lealtà non era solo richiesta, era forgiata nel calore del sake e nel complesso gioco di ruolo delle nomikai. Il bureikō era il culmine di questo rito: un momento per sentirsi parte di qualcosa di più grande, un “noi” aziendale, anche se basato su una mera finzione.

Oggi, guardo il giovane Tanaka-kun. Ha il bicchiere quasi vuoto., Dieci anni fa, sarei scattato in piedi per riempirglielo, un gesto di rispetto da senpai a kōhai. Ma oggi sono io il senpai, e lui non si aspetta nulla. Non è scortesia, è semplicemente un linguaggio che non parla più. La sua lealtà non è verso l’azienda-clan, ma verso il suo contratto di lavoro, il suo tempo libero, la sua vita al di fuori delle mura dell’ufficio. Il lavoro non è più l’identità totalizzante che era per la generazione dei miei buchō.

Le nuove generazioni si stanno allontanando da questa tradizione non per ribellione attiva, ma per semplice indifferenza. La trovano inefficiente, stressante e, in fondo, inutile. Perché partecipare a un complesso rituale per esprimere un’opinione in modo velato, quando si può mandare un’email o, più probabilmente, parlare con gli amici su LINE? La pandemia ha dato il colpo di grazia, dimostrando che l’azienda poteva sopravvivere e prosperare anche senza queste liturgie alcoliche. Ha spezzato un’abitudine decennale e ha dato a tutti la scusa perfetta per non ricominciare.

E così, mentre il fumo si dirada, mi rendo conto che ciò che stiamo perdendo non è solo un’usanza bizzarra. Stiamo forse perdendo un pezzo di DNA culturale che teneva insieme la società giapponese in un modo specifico: attraverso la gestione collettiva della pressione, la conformità ritualizzata e la condivisione di un codice non scritto. Forse è un bene. Forse una società più trasparente e meno basata su queste sottigliezze è una società più sana. Chi lo può dire. Eppure, in questa nuova quiete, in questa prevedibilità senza rischi, sento la nostalgia di quel brivido, di quella tensione, di quel momento in cui il capo dichiarava aperto il teatro del bureikō e tutti noi, attori consapevoli, iniziavano la nostra recita. Era estenuante, era ambiguo, ma era un modo di essere, insieme. Un modo che, silenziosamente, sta svanendo bicchiere dopo bicchiere.

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