Nel silenzio ovattato di una veglia funebre giapponese, l’aria è densa del profumo dell’incenso e della sommessa recitazione dei sutra. Tutto parla di pace, di un distacco solenne. Eppure, in questo arazzo di gesti composti, un singolo oggetto, a occhi poco esperti, stona, quasi un paradosso: una lama. Posta sul petto del defunto, il cui capo è spesso rivolto a nord secondo un’usanza antica, essa brilla di una luce fredda in un ambiente di calde memorie. E lì tra la serenità della cerimonia si celano usanze antiche, nate da un sincretismo di credenze il cui esatto confine è ormai sfumato nel tempo.
Perché un’arma in un momento di resa? La risposta si nasconde in un nome, mamori – gatana: la “lama protettrice”.
La sua funzione però non è marziale, ma spirituale, un ultimo scudo per l’anima in quel delicato passaggio che è la morte. Nel pensiero giappone la morte è una transizione, un passaggio durante il quale lo spirito del defunto è vulnerabile. La lama rappresenta una barriera contro l’invisibile, contro gli akuryō, spiriti maligni che la credenza vuole si affollino ai confini della vita, pronti a ghermire uno spirito divenuto vulnerabile. Ma il suo compito non si esaurisce qui. Come un eco delle antiche tradizioni samurai, in cui la spada purificava e proteggeva, questa lama diventa un’estensione della cura dei vivi, un guardiano che veglia non solo all’anima del defunto, ma anche sui familiari, difendendoli, secondo la tradizione shintoista dall’aura impura, recidendo il kegare, l’impurità spirituale che la morte porta con sé. Per la fede buddista, la lama si trasforma in un amuleto per il sacro viaggio di quarantanove giorni che l’anima percorre prima di raggiungere la terra promessa. È come il bastone di un pellegrino per un sentiero che si percorre da soli, una promessa che il cammino sarà sicuro. Un guardiano silenzioso, una barriera incorruttibile tra il mondo dei vivi e le ombre che si annidano al confine con la morte.
Ma da cosa, esattamente, la mamori – gatana deve proteggere il defunto? È qui che tra tutte le paure senza nome e le ombre teologiche, che la minaccia più temuta prende una forma sorprendentemente familiare. Qui entra in scena il gatto. Nell’immaginario giapponese il gatto è una creatura ambivalente. Amata e venerata come portafortuna, il maneki-neko che invita la buona sorte, viene guardata con sospetto e timore quando la morte è vicina. Un’antica paura, radicata nel folklore, sussurra che se un gatto dovesse saltare sul corpo del defunto, potrebbe rubarne l’anima o, peggio, rianimarlo in una creatura mostruosa. Ed ecco che la lama lucente della mamori – gatana assume un ruolo ancora più specifico, diventando un neko – yoke, uno “scaccia gatti”. Sfruttando la credenza che i felini detestino gli oggetti scintillanti. Il bagliore metallico della lame, freddo e così alieno alla morbidezza della vita, si crede tenga a distanza l’animale, considerato in questo contesto un tramite per le forze oscure.
Questa non è una semplice superstizione, ma il riflesso di un terrore più profondo, quello per il kasha, un demone del folklore dalle sembianze di un gatto gigante avvolto dalla fiamme. Si narra che discenda dai cieli su un carro infuocato per rapire i cadaveri dei peccatori, negando loro persino il rito della cremazione. Il gatto che sonnecchia accanto al focolare diventa così la potenziale incarnazione di questo orrore cosmico. Il nesso a questo punto, si svela in tutta la sua drammaticità: la vulnerabilità della morte, la minaccia incarnata dal gatto e la lama come unica, estrema difesa.
La veglia giapponese si rivela così non solo una cerimonia di commiato, ma un rituale attivo di protezione. E in quel singolo gesto, nel posare la lama sul petto di una persona amata, convergono la fede, la storia e la superstizione. Che la si veda come un amuleto, purificatore o scudo, nella mamori – gatana risiede un unico, potente desiderio che unisce ogni credenza: la volontà di proteggere. La lama non è più un simbolo di violenza, ma l’ultimo disperato atto di cura, un sigillo contro antiche paure, per garantire che il viaggio finale sia sereno e indisturbato, lontano dall’ombra ambigua di un felino e dai demoni che esso potrebbe evocare.
Disclaimer
Una significativa eccezione a questa usanza è rappresentata dalla setta Jōdo Shinshū (la setta più diffusa in Giappone), o Buddismo della Terra Pura, che non prevede l’uso della mamori – gatana. La ragione risiede nel cuore della teologia stessa della setta, secondo cui il defunto non affronta un viaggio incerto, ma rinasce istantaneamente nella Terra Pura grazie al voto compassionevole di Amida Nyorai. Maestro di tutti i Buddha, ha infatti giurato di un raggiungere la propria illuminazione definitiva finché anche l’ultimo degli esseri senzienti non sarà stato salvato. Poiché si crede che la sua salvezza sia già compiuta, la fede in lui garantisce a tutti il raggiungimento dello stato di Buddha.
Di conseguenza concetti come l’impurità o la necessità di riti a sostegno dell’anima del defunto (i tsuizen kuyō) perdono di significato. L’assenza della lama non e dunque un divieto assoluto, ma una logica conseguenza: in un cammino già assicurato dalla promessa di Amida, una protezione terrena diventa semplicemente superflua, un gesto d’amore rispettato ma non necessario.