Chi osserva le coppie muoversi nel paesaggio giapponese, percepisce quasi subito un velo di riserbo, un’economia di gesti che all’occhio straniero può apparire come un’impressione di algida distanza. I corpi camminano in prossimità, ma raramente si toccano; le conversazioni fioriscono, ma senza i picchi e le valli emotive a cui altre culture sono avvezze. Si è spesso tentati di interpretare questo quadro con un alfabeto che non gli appartiene, di vedere assenza là dove invece risiede una diversa, e forse più profonda, presenza.
È come pretendere di udire una melodia composta per altri sensi. Perché l’amore, qui, spesso si spoglia della parola per indossare il silenzio. E la parola stessa, quando viene usata, possiede un peso specifico differente. L’espressione occidentale “ti amo” è come una moneta corrente, a volte troppo leggera, che suggella l’istante. La sua eco giapponese, “aishiteru”, è invece una soglia sacra, una vertigine. Non è una dichiarazione, ma un evento, carico di una gravità quasi testamentaria. Pronunciare significa indicare una promessa nell’eternità, e per questo la ci custodisce nel profondo, riservando a momenti che forse non arriveranno mai.
La vita affettiva usa un altro lessico, quello del “suki desu”, un “mi piaci” che è in realtà un calmo riconoscimento, un porto sicuro che afferma il legame senza scatenare la tempesta. Poiché la parola è così densa, la vera comunicazione trasmigra altrove, in un regno quasi telepatico descritto dal concetto di “ishin-denshin”: “da un cuore, a un altro”. È l’ideale sublime di una connessione così pura da rendere la parola superflua; l’amore non si dichiara, ma si anticipa.
Così, una dichiarazione può assumere la forma di un ofuro, un bagno caldo, il cui vapore accoglie la stanchezza della sera prima ancora che essa venga confessata. Può avere il sapore di un tè o di un caffè preferito, apparso come per magia mentre stai controllando le ultime carte per la riunione del giorno seguente seduto sul divano. Può essere il peso confortante del silenzio, condiviso su un treno affollato, dove la sola presenza diviene l’unico linguaggio necessario. Questi non sono solo semplici gesti, ma manifestazioni di una specifica lettura dell’anima. Chiedere, esplicitare il bisogno, romperebbe l’incantesimo, ammettendo un fallimento di quella connessione che è alla fine la prova stessa del legame.
E in questo spazio di fiducia quasi assoluta, fiorisce un altro fiore enigmatico: amae, una forma di indulgente dipendenza. È il permesso tacito di mostrare una vulnerabilità quasi infantile, un capriccio, non come un segno di debolezza, ma come la sonda gettata nella sconfinata profondità della fiducia reciproca. L’atto di lamentarsi per un’inezia o di mostrarsi momentaneamente inetti diventa quasi rituale. La risposta, sempre indulgente e quasi protettiva, non è sottomissione, ma la più potente delle rassicurazioni come a voler dire:” il nostro legame e un rifugio così sicuro da poter accogliere anche questa tua fragilità”.
L’occhio frettoloso non scorgerà che la superficie di questa danza. Vedrà solo due figure che non si cercano la mano in pubblico. Ma sotto quella quiete si cela un romanticismo che non ha bisogno di fuochi d’artificio, un fuoco che non necessita delle fiamme per testimoniare il proprio calore. È un’intimità intrecciata in migliaia di silenzi carichi di significato, di cure e di una complessa armonia tra protezione e abbandono. L’apice del sentimento, forse, non è trovare le parole giuste, ma raggiungere insieme quel luogo dove le parole non sono piu necessarie.