Ombrelli Rotti

  • Il giorno in cui il Buddha non morì

    Il giorno in cui il Buddha non morì

    Stamattina, tra le righe asettiche degli impegni di lavoro, una parola è balenata sul mio calendario digitale, un sussurro ancestrale nel frastuono della routine: Butsumetsu (仏滅). Per chi, come me, vive in Giappone, non è una semplice indicazione temporale, ma un portale su un mondo dove il tempo non era scandito solo da ore e minuti, ma anche dal respiro della fortuna e del presagio.

    Il suo significato letterale – “la morte del Buddha” – è un velo drammatico, tanto potente quanto ingannevole. Lungi dall’affondare le radici nei sacri sutra del buddismo, la sua storia è un labirinto di assonanze e credenze popolari che conduce all’antica divinazione cinese. Il kanji 仏 (bustu), che siamo abituati ad associare a Buddha, e qui un semplice prestito fonetico, spogliato di ogni sacralità. E che il parinirvana di Shakyamuni, il quindicesimo giorno del secondo mese lunare, cada talvolta in un giorno di Bustumetsu? Pura coincidenza, un capriccio del calendario senza alcun legame con il rokuyō, il ciclo divinatorio, di sei giorni, che governa il flusso della sorte.

    Il Butsumetsu è il nadir di questa danza di sei giorni che scandisce la fortuna: Senshō, Tomobiki, Senbu, Butsumetsu, Taian e Shakkō. Eppure, in questa gerarchia della sventura, non è solo. A conterdegli il primato è shakkō (赤口), un giorno che alcuni temono persino di più, forse perché i suoi kanji evocano immagini crudeli di sangue e fuoco. C’è chi lo considera più nefasto, interpretando il Butsumetsu come un giorno in cui “le cose giungono a termine”, mentre shakkō porterebbe con sé la minaccia di un “annientamento totale”. Nessuna sentenza definitiva: la percezione del peggiore veria, e la scelta è affidata a un equilibrio delicato tra presagio e consuetudine.

    Tornando alle origini. Butsumetsu era scritto con kanji diversi: 物滅, “la fine delle cose”. Un concetto forse meno suggestivo della morte di Buddha, ma più fedele alla sua funzione: segnare la fine di un ciclo, rendendolo il giorno più nefasto per qualsiasi nuovo inizio. Nel Giappone del passato, l’influenza del rokuyō non era una semplice credenza, ma una forza invisibile che governava la vita. Nessuno avrebbe osato celebrare un matrimonio, inaugurare un’attivita o traslocare in un giorno di Butsumetsu. Era un imperativo sociale che dettava i ritmi dell’esistenza, decidendo i giorni di festa e quelli di attesa, i momenti per agire e quelli per astenersi da qualsiasi azione.

    Oggi, tra l’acciaio e il vetro delle metropoli, il rokuyō è scivolato da dogma a superstizione, una consuetudine culturale più che un obbligo. Eppure, la sua ombra si allunga ancora sulla vita delle persone. Le sale per matrimoni offrono sconti vertiginosi a coppie abbastanza audaci – o razionali – da sfidare la sorte, mentre molti, soprattutto tra le generazioni più anziane, non prendono decisioni importanti senza prima consultare il calendario.

    Per molti di noi, inghiottiti dalla fretta e dalle scadenze, Butsumetsu è poco più di una nota a margine del nostro tempo efficiente e secolarizzato. Ma vederlo scritto lì, accanto ai miei appuntamenti, è stato un promemoria: anche nella più spinta modernità, il passato non svanisce. Resiste come un’iscrizione silenziosa, un invito a ricordare che ogni giorno porta con sé non solo un numero, ma anche un’anima e una storia.

  • Dov’e finita la nostra giovinezza

    Dov’e finita la nostra giovinezza

    C’è una domanda che ha aleggiato come un fantasma tra le macerie del Giappone post-bellico. Un sussurro diventato un grido sordo, carico di rabbia e smarrimento, che appartiene a un’intera generazione:

    「うちの青春どこにいった!」

    “Dov’e finita la nostra giovinezza?”

    Immagina di avere quindici anni. I tuoi sogni non sono fatti di amori, musica o feste con gli amici. I tuoi sogni sono stati cancellati. Per i ragazzi e le ragazze cresciuti nel Giappone degli anni ‘30 e ‘40, l’adolescenza fu un furto. I banchi di scuola vennero sostituiti con i torni delle fabbriche di munizioni, i campi vennero arati da mani adolescenti al posto di quelle di padri e dei fratelli, inghiottiti dal fronte. Alle ragazze, a cui si insegnava l’ideale ryōsai kenbo, ovvero della “buona moglie, madre saggia”, fu chiesto di diventare operaie o, nel peggiore dei casi, con l’inganno di sacrificare il proprio corpo come “donne di conforto”. La gioventù divenne semplicemente un’altra risorsa da consumare per la guerra.

    L’ideale per cui tutti si stavano sacrificando – un Giappone divino, invincibile e guidato da un Imperatore-dio – si frantumò nel modo più crudele e assordante. La colonna sonora delle loro notti non era musica, ma la nenia metallica dei bombardieri B-29. Le loro città non erano luoghi di incontro, ma inferni di fuoco. Poi, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki scavarono un solco incancellabile nella loro anima, mostrando la vulnerabilità terrificante di tutto ciò in cui erano stati costretti a credere. La resa del 15 agosto 1945 non portò la pace. Porto un silenzio assordante, e un vuoto.

    Il disorientamento fu totale. Le loro guide, i loro valori, i loro idoli: tutto era crollato, rivelandosi un castello di menzogne. Scrittori come Dazai Osamu diventarono lo specchio di un’anima collettiva in frantumi, dando voce a una gioventù che si sentiva profondamente tradita. Il ritorno dei soldati, spesso mutilati nel corpo e nello spirito, non fece che confermare la catastrofe. Chi erano adesso? Orfani non solo dei genitori, ma di un’intera nazione. Molti si ritrovarono a vagare per le strade di un paese in rovina, lottando per una ciotola di riso al mercato nero, con l’unica certezza di aver perso tutto.

    La loro domanda, “Dov’e finita la nostra giovinezza?”, non era semplice nostalgia. Era un’accusa gridata con la gola secca contro il mondo degli adulti che li aveva ingannati. Al posto dei ricordi del primo amore, c’erano le immagini delle città in fiamme. Al posto delle gite scolastiche, il ricordo della fame. Al posto delle fotografie felici, il volto dei morti.

    Eppure, cosa fai quando hai toccato il fondo? O ti lasci affogare, o usi quel fondo per darti la spinta per risalire. Da quell’abisso di disperazione nacque una rabbiosa, disperata voglia di rivalsa. Non una vendetta militare, ma una spinta incontenibile a creare. Se la guerra aveva distrutto la loro giovinezza, loro avrebbero usato la loro vita adulta per costruire un futuro dalle ceneri.

    Questa determinazione divenne il motore del miracolo economico giapponese. La stessa disciplina ferrea e lo stesso spirito di sacrificio, prima incanalati verso la distruzione, furono riconvertiti in una forza costruttiva senza precedenti. Quella generazione lavorò fino allo sfinimento, riversando nelle fabbriche, negli uffici e nelle università tutta l’energia che non aveva potuto esprimere. Ricostruirono le città, ma soprattutto l’orgoglio di una nazione.

    La loro rivalsa fu anche culturale. Rigettando con forza il militarismo che li aveva traditi, si aggrapparono ai nuovi ideali di pace e democrazia. Registi come Kurosawa iniziarono a esplorare le cicatrici delle guerra, cercando un barlume di umanità tra le rovine. La letteratura si fece più intima, mettendo al centro l’individuo e il suo smarrimento.

    La giovinezza rubata non venne mai restituita. Rimase un’ombra lunga, un dolore sordo che li accompagnò per tutta la vita. Ma nella fatica della ricostruzione, nel successo di un’economia che sbalordì il mondo e nella creazione di una società pacifica, quella generazione trovo il proprio riscatto.

    Dov’è finita la loro giovinezza? Non è mai più tornata. Ma al suo posto, mattone dopo mattone, hanno costruito il Giappone moderno. E questa fu la loro, silenziosa e grandiosa, risposta.

  • La crepa nel tempo

    La crepa nel tempo

    Esistono parole che non sono semplici suoni, ma crepe nel tessuto del tempo.

    Taegataki o tae, shinobigataki o shinobi

    “Sopportare l’insopportabile, tollerare l’intollerabile”

    Non è una massima filosofica distillata in un tempio, ma il ronzio che emerge dal fruscio di una radio, la voce di un “dio” che per la prima volta si fa uomo, parlando una lingua quasi straniera al suo stesso popolo. In quell’istante, si consumò un cortocircuito di magnitudo cosmica. Un intero sistema, costruito su un asse di divinità, onore e vittoria certa, viene attraversato da una corrente di voltaggio elevatissimo: la realtà. E il sistema va in frantumi.

    L’incomprensione non fu solo un limite tecnico, un difetto della trasmissione o un arcaismo del lessico. Fu lo specchio perfetto del momento. Come poteva una mente, forgiata per anni nel crogiolo dell’eroismo, del sacrificio totale come unico esito onorevole, decifrare un messaggio la cui essenza era la negazione di tutto ciò? La voce parlava di fine, ma le orecchie, abituate solo agli anni di guerra, sentivano un incitamento alla resistenza finale. La lingua stessa, così aulica e distante, proteggeva la psiche collettiva dall’impatto diretto, creando un cuscinetto di confusione e disturbo tra la coscienza individuale e l’abisso. Qualcuno, dall’alto di un trono che tremava, aveva deciso. Ma quella decisione, per poter essere accettata, doveva essere incompresa, metabolizzata lentamente e con i giusti tempi, come un veleno che per salvare deve prima quasi uccidere.

    Ecco il cuore del cortocircuito: un ordine di sopravvivenza dato a un popolo programmato per morire. “Tollerare l’intollerabile” non significava semplicemente arrendersi. Significava disinnescare l’istinto all’autodistruzione, l’impulso a trasformare le ceneri in un’ultima, abbagliante fiammata di gloria. Significava guardare in faccia l’umiliazione, la perdita, la fame, la distruzione di ogni certezza, e scegliere di restare. Non per viltà, ma per un atto di resistenza ancora più profondo e straziante: la resistenza contro il nulla. Qualcuno aveva deciso che la nazione doveva sopravvivere, anche a costo di perdere la sua anima mitologica, per poterne forgiare una nuova, umana, fragile, storica.

    In quel silenzio carico di domande che segui la trasmissione, in quella quasi paralisi collettiva, inizia la riscrittura. Il primo capitolo della nuova storia non è scritto con l’inchiostro, ma con il respiro trattenuto di chi sopporta. Sopportare l’insopportabile diventa l’atto fondativo, il nuovo codice. È un processo attivo, una fatica immane che trasforma il trauma in fondamento. Il sistema è distrutto, i suoi idoli sono infranti, le sue promesse evaporate. Ciò che resta e solo questo imperativo, queste parole che fluttuano sulle rovine: continuate a esistere anche quando l’esistenza stessa e un’offesa. È da questo paradosso, da questa contraddizione vivente, che un popolo smette di essere la manifestazione di un’idea divina e inizia il lungo, doloroso cammino per diventare, semplicemente, sé stesso.

  • La casa attende

    La casa attende

    Ogni volta che sento qualcuno definire l’Obon come la “festa dei morti” giapponese, un’ondata di sottile irritazione si mescola al ricordo del mio stesso imbarazzo. Perché quell’errore, quella superficiale etichetta, un tempo era anche la mia. Appena giunto in Giappone, archiviai la questione con la medesima superficialità, adagiandosi in un parallelo comodo e rassicurante. Pensavo: “Certo, un momento per onorare i defunti. Come da noi”. Ma la verità è che non avevo compreso nulla. Stavo guardando la luna, ma vedevo solo il dito che la indicava.

    Fu solo partecipando al mio primo Obon nel furusato, il paese di origine della famiglia di un collega, che l’impalcatura della mia certezza iniziò a vacillare. L’aria non era greve di lutto, né impregnata di quella solennità malinconica che la mia cultura mi aveva insegnato ad associare alla morte. Certo, aleggiava un rispetto profondo, un pensiero commosso, ma l’emozione dominante era un’altra: un’attesa vibrante, una letizia serena, quasi elettrica. Era l’atmosfera di chi si prepara a riabbracciare una persona cara dopo un lungo, lunghissimo viaggio.

    Ho capito allora che l’equivoco fondamentale risiede nel nostro stesso concetto di “morte”, che è quasi sempre una cesura, un punto di non ritorno. I defunti appartengono al passato; sono presenza da commemorare, figure da compiangere. Qui, durante l’Obon, non si commemorano i “morti”. Si accolgono a braccia aperte i sorei, gli spiriti venerati degli antenati, che non sono entità incorporee o spettri inquieti del folklore, ma sono a tutti gli effetti membri della famiglia, temporaneamente residenti altrove.

    L’intera ritualità non è un atto di commemorazione, bensì una preparazione attiva e gioiosa al ricongiungimento. Quando accendiamo il mukaebi, il piccolo fuoco di benvenuto, non stiamo eseguendo un rito scaramantico per placare chissà quali entità. Stiamo accendendo la luce del portico per i nostri nonni e bisnonni, un gesto d’amore puro che sussurra: “La strada di casa è questa. Vi stiamo aspettando”. L’altare domestico, il butsudan, smette di essere un sacrario funebre per trasformarsi nel cuore pulsante della casa, la tavola ideale attorno alla quale tutti siedono, vivi e antenati, condividendo lo stesso sacro spazio.

    E poi c’è il Bon Odori. La prima volta che vidi centinaia di persone danzare al ritmo febbrile dei taiko, la mia logica occidentale andò in cortocircuito. Una danza? In una “festa dei morti”? Eppure, nessuno danzava con mestizia. I volti erano sorridenti, i gesti carichi di energia, la gioia era un’onda contagiosa. È una coreografia di gratitudine, un omaggio danzato per intrattenere gli ospiti d’onore, per celebrare il miracolo di essere di nuovo tutti insieme, sotto lo stesso cielo estivo.

    Definire l’Obon “festa dei morti” significa appiattire questa realtà complessa e meravigliosa, svuotandola del suo significato più profondo. Significa ignorare il concetto cardine della continuità della famiglia. La famiglia non è la somma degli individui presenti, ma un lignaggio ininterrotto, un fiume di cui gli antenati sono la sorgente e noi il corso attuale. L’Obon e la celebrazione di questo fiume, il momento in cui percepiamo più forte la corrente che ci unisce a chi ci ha preceduto. Non è un volgersi indietro verso ciò che è concluso, ma un percepire, qui e ora, la presenza di ciò che non ha mai fine.

    Oggi quando sento quella definizione, non avverto più solo irritazione, ma una sincera compassione per l’orizzonte che a quella persona rimane precluso. Sta riducendo una profondo modo di vivere la vita a una semplice data di calendario. No, questa non è una “festa dei morti”. È la festa della famiglia. È il celebrare la vita che prosegue, imperterrita e coesa, al di là di ogni mondo.

  • L’anima delle vette

    L’anima delle vette

    Oggi, qui in Giappone, si celebra lo yama no ho, il “giorno della montagna”. Questa ricorrenza istituita ufficialmente solo nel 2016, e in realtà l’eco di un legame millenario, un dialogo silenzioso e costante tra un popolo e le vette che ne definiscono l’orizzonte. Non è una semplice festa sul calendario, ma il riconoscimento di una presenza che è al contempo fisica e spirituale, un pilastro dell’identità giapponese.

    In Giappone, le montagne non sono mai state semplici ammassi di roccia e terra. Da sempre, sono state percepite come una soglia verticale, una scala verso il cielo dove il mondo umano sfiora quello divino. Nello shintoismo, le cime più imponenti sono considerate shintai, il corpo stesso delle divinità, o kannabi, luoghi sacri dove dimorano i kami. L’ascesa alla vetta non è mai stata un mero atto sportivo, quanto un pellegrinaggio, un percorso di purificazione. Ogni passo verso l’alto e un passo verso il sacro, un modo per lasciare alle spalle l’impurità del mondo terreno e avvicinarsi all’essenza divina. Il Fuji-san, con la sua perfezione conica, non è solo un vulcano: è un’icona sacra, un mandala naturale che ha ispirato innumerevoli artisti, poeti e mistici.

    Questo senso del sacro si è poi fuso con il buddismo, che ha trovato sulle montagne il luogo ideale per la meditazione e l’ascetismo. I templi si annidano tra le foreste di cedri secolari, i sentieri si snodano verso pagode nascoste, disegnando un paesaggio dove natura e spiritualità sono inseparabili. Le montagne sono diventate il terreno di prova per gli yamabushi, i monaci asceti che, attraverso pratiche rigorose, cercano l’illuminazione attingendo forza e saggezza direttamente dalla potenza della natura selvaggia.

    Tuttavia, l’importanza delle montagne non si esaurisce nella loro dimensione spirituale. È una presenza che plasma la vita quotidiana. Per secoli, sono state fonte di ogni risorse: legname per costruire case, templi e santuari, carbone per i focolari, acqua pura che sgorga per irrigare le risaie a valle. Interi paesaggi, i satoyama, sono sorti in simbiosi con le pendici dei monti, in un delicato equilibrio di utilizzo e rispetto. La montagna è madre e custode, una risorsa vitale che insegna i valori della gratitudine e della parsimonia.

    Ancora oggi, questo legame profondo pulsa nella vita dei giapponesi. Fuggire dall’afa delle città per cercare il fresco delle alture, immergersi in un onsen vulcanico, ammirare il mutare delle foglie in autunno: sono tutte esperienze che riconnettono l’uomo moderno a questo ritmo ancestrale. Lo yama no hi è quindi soltanto un’occasione per un’escursione, ma un invito a fermarsi e ad ascoltare. A sentire il respiro della foresta, a percepire la stabilità della roccia sotto i piedi e a riconoscere, in quella maestosa immobilità, una parte fondamentale della propria anima. È un giorno per ricorda che, in un mondo che corre veloce, le montagne restano. Silenziose, potenti, eterne custodi di ciò che è veramente essenziale.

  • La lama e il gatto

    La lama e il gatto

    Nel silenzio ovattato di una veglia funebre giapponese, l’aria è densa del profumo dell’incenso e della sommessa recitazione dei sutra. Tutto parla di pace, di un distacco solenne. Eppure, in questo arazzo di gesti composti, un singolo oggetto, a occhi poco esperti, stona, quasi un paradosso: una lama. Posta sul petto del defunto, il cui capo è spesso rivolto a nord secondo un’usanza antica, essa brilla di una luce fredda in un ambiente di calde memorie. E lì tra la serenità della cerimonia si celano usanze antiche, nate da un sincretismo di credenze il cui esatto confine è ormai sfumato nel tempo.

    Perché un’arma in un momento di resa? La risposta si nasconde in un nome, mamori gatana: la “lama protettrice”.

    La sua funzione però non è marziale, ma spirituale, un ultimo scudo per l’anima in quel delicato passaggio che è la morte. Nel pensiero giappone la morte è una transizione, un passaggio durante il quale lo spirito del defunto è vulnerabile. La lama rappresenta una barriera contro l’invisibile, contro gli akuryō, spiriti maligni che la credenza vuole si affollino ai confini della vita, pronti a ghermire uno spirito divenuto vulnerabile. Ma il suo compito non si esaurisce qui. Come un eco delle antiche tradizioni samurai, in cui la spada purificava e proteggeva, questa lama diventa un’estensione della cura dei vivi, un guardiano che veglia non solo all’anima del defunto, ma anche sui familiari, difendendoli, secondo la tradizione shintoista dall’aura impura, recidendo il kegare, l’impurità spirituale che la morte porta con sé. Per la fede buddista, la lama si trasforma in un amuleto per il sacro viaggio di quarantanove giorni che l’anima percorre prima di raggiungere la terra promessa. È come il bastone di un pellegrino per un sentiero che si percorre da soli, una promessa che il cammino sarà sicuro. Un guardiano silenzioso, una barriera incorruttibile tra il mondo dei vivi e le ombre che si annidano al confine con la morte.

    Ma da cosa, esattamente, la mamori – gatana deve proteggere il defunto? È qui che tra tutte le paure senza nome e le ombre teologiche, che la minaccia più temuta prende una forma sorprendentemente familiare. Qui entra in scena il gatto. Nell’immaginario giapponese il gatto è una creatura ambivalente. Amata e venerata come portafortuna, il maneki-neko che invita la buona sorte, viene guardata con sospetto e timore quando la morte è vicina. Un’antica paura, radicata nel folklore, sussurra che se un gatto dovesse saltare sul corpo del defunto, potrebbe rubarne l’anima o, peggio, rianimarlo in una creatura mostruosa. Ed ecco che la lama lucente della mamori – gatana assume un ruolo ancora più specifico, diventando un neko – yoke, uno “scaccia gatti”. Sfruttando la credenza che i felini detestino gli oggetti scintillanti. Il bagliore metallico della lame, freddo e così alieno alla morbidezza della vita, si crede tenga a distanza l’animale, considerato in questo contesto un tramite per le forze oscure.

    Questa non è una semplice superstizione, ma il riflesso di un terrore più profondo, quello per il kasha, un demone del folklore dalle sembianze di un gatto gigante avvolto dalla fiamme. Si narra che discenda dai cieli su un carro infuocato per rapire i cadaveri dei peccatori, negando loro persino il rito della cremazione. Il gatto che sonnecchia accanto al focolare diventa così la potenziale incarnazione di questo orrore cosmico. Il nesso a questo punto, si svela in tutta la sua drammaticità: la vulnerabilità della morte, la minaccia incarnata dal gatto e la lama come unica, estrema difesa.

    La veglia giapponese si rivela così non solo una cerimonia di commiato, ma un rituale attivo di protezione. E in quel singolo gesto, nel posare la lama sul petto di una persona amata, convergono la fede, la storia e la superstizione. Che la si veda come un amuleto, purificatore o scudo, nella mamori – gatana risiede un unico, potente desiderio che unisce ogni credenza: la volontà di proteggere. La lama non è più un simbolo di violenza, ma l’ultimo disperato atto di cura, un sigillo contro antiche paure, per garantire che il viaggio finale sia sereno e indisturbato, lontano dall’ombra ambigua di un felino e dai demoni che esso potrebbe evocare.

    Disclaimer

    Una significativa eccezione a questa usanza è rappresentata dalla setta Jōdo Shinshū (la setta più diffusa in Giappone), o Buddismo della Terra Pura, che non prevede l’uso della mamori – gatana. La ragione risiede nel cuore della teologia stessa della setta, secondo cui il defunto non affronta un viaggio incerto, ma rinasce istantaneamente nella Terra Pura grazie al voto compassionevole di Amida Nyorai. Maestro di tutti i Buddha, ha infatti giurato di un raggiungere la propria illuminazione definitiva finché anche l’ultimo degli esseri senzienti non sarà stato salvato. Poiché si crede che la sua salvezza sia già compiuta, la fede in lui garantisce a tutti il raggiungimento dello stato di Buddha.

    Di conseguenza concetti come l’impurità o la necessità di riti a sostegno dell’anima del defunto (i tsuizen kuyō) perdono di significato. L’assenza della lama non e dunque un divieto assoluto, ma una logica conseguenza: in un cammino già assicurato dalla promessa di Amida, una protezione terrena diventa semplicemente superflua, un gesto d’amore rispettato ma non necessario.

  • Il vocabolario invisibile dell’affetto

    Il vocabolario invisibile dell’affetto

    Chi osserva le coppie muoversi nel paesaggio giapponese, percepisce quasi subito un velo di riserbo, un’economia di gesti che all’occhio straniero può apparire come un’impressione di algida distanza. I corpi camminano in prossimità, ma raramente si toccano; le conversazioni fioriscono, ma senza i picchi e le valli emotive a cui altre culture sono avvezze. Si è spesso tentati di interpretare questo quadro con un alfabeto che non gli appartiene, di vedere assenza là dove invece risiede una diversa, e forse più profonda, presenza.

    È come pretendere di udire una melodia composta per altri sensi. Perché l’amore, qui, spesso si spoglia della parola per indossare il silenzio. E la parola stessa, quando viene usata, possiede un peso specifico differente. L’espressione occidentale “ti amo” è come una moneta corrente, a volte troppo leggera, che suggella l’istante. La sua eco giapponese, “aishiteru”, è invece una soglia sacra, una vertigine. Non è una dichiarazione, ma un evento, carico di una gravità quasi testamentaria. Pronunciare significa indicare una promessa nell’eternità, e per questo la ci custodisce nel profondo, riservando a momenti che forse non arriveranno mai.

    La vita affettiva usa un altro lessico, quello del “suki desu”, un “mi piaci” che è in realtà un calmo riconoscimento, un porto sicuro che afferma il legame senza scatenare la tempesta. Poiché la parola è così densa, la vera comunicazione trasmigra altrove, in un regno quasi telepatico descritto dal concetto di “ishin-denshin”: “da un cuore, a un altro”. È l’ideale sublime di una connessione così pura da rendere la parola superflua; l’amore non si dichiara, ma si anticipa.

    Così, una dichiarazione può assumere la forma di un ofuro, un bagno caldo, il cui vapore accoglie la stanchezza della sera prima ancora che essa venga confessata. Può avere il sapore di un tè o di un caffè preferito, apparso come per magia mentre stai controllando le ultime carte per la riunione del giorno seguente seduto sul divano. Può essere il peso confortante del silenzio, condiviso su un treno affollato, dove la sola presenza diviene l’unico linguaggio necessario. Questi non sono solo semplici gesti, ma manifestazioni di una specifica lettura dell’anima. Chiedere, esplicitare il bisogno, romperebbe l’incantesimo, ammettendo un fallimento di quella connessione che è alla fine la prova stessa del legame.

    E in questo spazio di fiducia quasi assoluta, fiorisce un altro fiore enigmatico: amae, una forma di indulgente dipendenza. È il permesso tacito di mostrare una vulnerabilità quasi infantile, un capriccio, non come un segno di debolezza, ma come la sonda gettata nella sconfinata profondità della fiducia reciproca. L’atto di lamentarsi per un’inezia o di mostrarsi momentaneamente inetti diventa quasi rituale. La risposta, sempre indulgente e quasi protettiva, non è sottomissione, ma la più potente delle rassicurazioni come a voler dire:” il nostro legame e un rifugio così sicuro da poter accogliere anche questa tua fragilità”.

    L’occhio frettoloso non scorgerà che la superficie di questa danza. Vedrà solo due figure che non si cercano la mano in pubblico. Ma sotto quella quiete si cela un romanticismo che non ha bisogno di fuochi d’artificio, un fuoco che non necessita delle fiamme per testimoniare il proprio calore. È un’intimità intrecciata in migliaia di silenzi carichi di significato, di cure e di una complessa armonia tra protezione e abbandono. L’apice del sentimento, forse, non è trovare le parole giuste, ma raggiungere insieme quel luogo dove le parole non sono piu necessarie.

  • Un minuto di silenzio nel cuore pulsante di un’estate giapponese

    Un minuto di silenzio nel cuore pulsante di un’estate giapponese

    Il rito si rinnova, immutabile e necessario, ad ogni estate. Con l’avvicinarsi degli anniversari di Hiroshima e Nagasaki, gli schermi del Giappone si popolano di volti segnati dal tempo e scolpiti dalla memoria. Sono gli hibakusha, i sopravvissuti, i cui racconti squarciano il velo del tempo per ricondurci a quei giorni di fuoco e silenzio. Quest’anno, tuttavia, una voce si è levata rompendo la consuetudine del lutto, lasciandomi in eredità una domanda che ancora risuona dentro di me.

    Tra le innumerevoli interviste, la mia attenzione è stata catturata da una donna molto anziana, prossima al secolo di vita. Il suo volto era una mappa esistenziale di rughe profonde, ma il suo sguardo era terso, privo di quella nebbia che così spesso accompagna il ricordo di un trauma. Con una calma disarmante, si è rivolta alla giovane giornalista e ha pronunciato parole che hanno scardinato il fondamento di molte mie certezze. “Lei non può nemmeno immaginare che paese fosse il Giappone in quel periodo”, ha affermato. “Non biasimo e non incolpo nessuno per aver lanciato le bombe; non provo né odio né disprezzo nei loro confronti. Se noi giapponesi “ – e ricordo con assoluta precisione l’uso di quel “noi”, che la avvolgeva in una responsabilità collettiva – “avessimo avuto le stesse bombe, non avremmo esitato un solo istante ad usarle.”

    Quelle parole mi hanno lasciato attonito. Così lucide, così prive di qualsiasi vittimismo, provenivano da chi aveva attraversato l’inferno sulla Terra. Ne ho parlato con la nonna di mia moglie. Vive ad Isahaya, non lontano da Nagasaki. Lei non subì l’esplosione sulla sua pelle, ma la distruzione la vide con i propri occhi, e respirò l’aria greve di cenere e di perdita. Ascoltando il mio racconto, ha assentito con un cenno lento, carico di significato. “Quella donna ha ragione,” mi ha detto con la medesima, serena gravità. “La penso allo stesso modo. Tu conosci bene la situazione del Giappone in quel periodo, dovresti capirlo meglio di molti altri. Non provo alcun odio verso gli americani o i soldati che sganciarono le bombe. Eravamo tutti pedine.”

    “Eravamo tutti pedine”. Questa frase, saldata alla confessione della signora alla televisione. scava una voragine nella narrazione consolidata. Ci impone di guardare oltre il fungo atomico, di scrutare nel cuore del Giappone imperiale: un paese consumato da un’ideologia totalizzante, un nazionalismo fanatico che aveva elevato la morte per l’imperatore a onore supremo e la resa a disonore intollerabile. In un simile contesto, la compassione era debolezza e l’esitazione tradimento. La lucidità di due anziane non era un perdono concesso al nemico, ma un atto di spietata onestà storica verso se stesse e il proprio popolo. Era il riconoscimento che il germe della distruzione totale non albergava solo a bordo dell’Enola Gay, ma era stato coltivato e nutrito in casa, nel fertile terreno di un’intera nazione pronta al sacrificio ultimo, proprio e altrui.

    Prima di trasferirmi a Isahaya e poi qui a Sasebo, ho vissuto quasi un decennio a Nagasaki. Ho impresso nella memoria il rito del mokutō, il minuto di silenzio, ogni 9 agosto alle 11:02. Al suono acuto della sirena, un’onda di quiete innaturale si propaga e paralizza la città. Il traffico si congela, le conversazioni si estinguono, i gesti restano sospesi. Persino le cicale, metronomo assordante dell’estate nipponica, ammutoliscono. L’aria, densa e carica di umidità, sembra placarsi, trattenere il respiro. È una sensazione surreale, come se il tempo si contraesse su se stesso e per un istante il 1945 e il presente coincidessero in quella quiete assoluta. In quel silenzio, si onorano i morti, ma si contempla anche l’abisso. Le parole di quella anziana donna ora riempiono quel vuoto, conferendogli un significato più complesso e terribile.

    Passato il minuto, la bolla si infrange. La sirena tace e, come a un segnale convenuto, la vita riprende il suo flusso, rumorosa e calda come prima. Le auto ripartono, le cicale ricominciano il loro frinire assordante, il calore torna a opprimere. La vita prosegue, ma la memoria di quel silenzio rimane.

    Comprendo ora che quel silenzio non è un segno di rispetto per il lutto. È uno spazio sacro per la riflessione razionale, per accogliere verità scomode come quella che mi è stata offerta. Non si tratta di relativizzare o di creare false equivalenze, ma di afferrare la capacità umana, in determinate condizioni storiche e ideologiche, di diventare strumento di annientamento. Quella donna e la nonna di mia moglie non stavano assolvendo nessuno con le loro parole; stavano consegnando alla storia la verità più profonda e inquietante della guerra: che la logica della distruzione, una volta innescata, non conosce bandiera, e che chiunque, sentendosi investito di una giusta causa, può diventare un mostro. La loro non è l’eco dell’odio, ma il concentrato di una saggezza tragica: la consapevolezza di essere state, insieme ai loro stessi carnefici, ingranaggi di una macchina impazzita. E in questa consapevolezza risiede la lezione più potente, un monito che trascende il tempo e lo spazio, affidato a un minuto di silenzio nel cuore pulsante di un’estate giapponese.

    Sono anni che portavo dentro il desiderio di scrivere sulle tragedie delle due bombe atomiche. Volevo trovare le parole giuste, ma ogni brano che scrivevo mi sembrava vuoto, quasi irrispettoso nella sua inadeguatezza. Nessun tentativo riusciva a esprimere quello che realmente volevo dire, bloccato sul peso di un orrore che non si può raccontare. Poi ho ascoltato le parole di quella donna. La sua testimonianza, priva di odio e vittimismo, mi hanno offerto una prospettiva che non avevo mai considerato. Ho capito che non dovevo descrivere la disumanità della guerra, ma la straordinaria umanità di chi, avendola subita, ha scelto la pace. Sono state quelle parole a liberarmi, a permettermi di scrivere queste righe.

  • Puntare al futuro

    Puntare al futuro

    Nonostante i tanti anni trascorsi in Giappone, ci sono ancora piccoli gesti quotidiani che catturano la mia attenzione, invitandomi a riflettere come fossero silenziosi enigmi. Tra tutti, il più costante si manifesta sulla soglia di ogni casa, tempio, santuario e in ogni parcheggio: le scarpe, sfilate nel genkan, sono sempre allineate con una precisione quasi rituale, le punte rivolte verso l’uscita; le automobili, con coerenza sorprendente, sono parcheggiate quasi sempre in retromarcia, il muso già proiettato verso la strada.

    Per lungo tempo mi sono interrogato sul perché di un’usanza così radicata. Ne ho parlato con tanti giapponesi, da mia moglie ai miei colleghi, ricevendo risposte che, sebbene corrette, sembravano sempre parziali, frammenti di un quadro più grande. “È per essere più rapidi quando si esce”, mi spiegavano. “È semplicemente, shitsuke, buona educazione e disciplina personale, omoiyari, ovvero una forma di considerazione per gli altri, aggiungevano altri”. Spiegazioni valide, certo, ma sentivo che non riuscivano a cogliere l’anima di un gesto tanto universale quanto istintivo.

    Poi, qualche giorno fa, la memoria si è riaccesa. È bastato leggere un post di un mio stimato amico, Francesco Baldessari, per far riaffiorare una riflessione che avevo scritto anni fa. Le sue parole mi hanno riportato alla conclusione a cui ero giunto dopo le mie ricerche, una sintesi che finalmente dava un senso a tutto: dietro la pratica e l’etichetta si nasconde un’eredità ben più antica e complessa.

    In questo gesto sopravvive l’eco dei samurai, per cui la prontezza mentale e fisica (il kokorogamae) era una questione di vita o di morte: avere le calzature già orientate per la fuga poteva fare la differenza. La stessa mentalità di prontezza si riflette oggi nella necessità di poter lasciare un parcheggio all’istante in caso di allarme o pericolo. A questo si intreccia l’influenza dello shintoismo, che vede la casa come uno spazio sacro e puro (hare) e il genkan come la soglia sacra che lo protegge dal mondo esterno considerato carico di impurità (kegare); ordinare le scarpe diventa così una atto di profondo rispetto per questo confine. Infine vi è la disciplina silenziosa del buddismo zen, che insegna a compiere ogni azione, anche la più umile, con totale consapevolezza, trasformando il gesto banale in una forma di meditazione attiva.

    Alla fine, credo di aver compreso come tutte queste correnti – la sicurezza, il rispetto, la storia e la spiritualità – convergessero in un unico, potentissimo concetto, una filosofia racchiusa nelle seguenti parole giapponesi:

    次の行動への準備

    Tsugi no kōdō e no junbi

    La preparazione per l’azione successiva

    Ecco quella che secondo me può essere considerata come la vera chiave di volta. Non si tratta quindi di ottimizzare una via di uscita. Si tratta di una mentalità. L’atto di prepararsi non viene rimandato al momento del bisogno, ma viene anticipato, compiuto in un momento di calma. La manovra più complessa, il pensiero, lo sforzo, si concentrano all’arrivo, affinché la partenza sia fluida, sicura e priva di esitazioni. Quasi a voler plasmare il futuro agendo sul presente.

    È un atto di previdenza per se stessi, ma anche un profondo gesto di considerazione per gli altri, perché un’uscita di scena ordinata non crea né intralcio e disturbo. È un piccolo gesto che insegna come la preparazione del presente sia il più grande atto di rispetto verso il futuro. Il proprio e quello degli altri.

  • Leggere l’aria che non c’è più

    Leggere l’aria che non c’è più

    Sono passati più di dieci anni. A volte mi sembra ieri, a volte un’intera vita fa. Stasera siamo di nuovo qui, nella nostra solita izakaya soffocante di fumo di yakitori e risate educate. È un nomikai, uno dei tanti, eppure non è più la stessa cosa. Guardo i volti nuovi, ragazzi dai 18 ai 24 anni, appena usciti dal liceo o all’università. Parlano a voce bassa tra loro, ogni tanto lanciano un’occhiata allo smartphone appoggiato a faccia in giù sul tavolo, un gesto che dieci anni fa sarebbe stato un’eresia. Nessuno li riprende. L’aria è più leggera, meno carica di aspettative. Ed è proprio in questa leggerezza che sento il peso di ciò che manca.

    Manca il fantasma del bureikō.

    Ricordo i miei primi nomikai come un campo minato sociale. Io, gaijin volenteroso, cercavo disperatamente di decifrare codici che nessuno si prendeva la briga di spiegare. E poi, a un certo punto della serata, quando l’alcool aveva già fatto diversi giri, il buchō, il nostro capo divisione, si schiariva la voce e pronunciava la formula magica: “Konya wa bureikō da!”. “Stasera, nessuna formalità”. Sulla carta, era una liberazione. Un’amnistia temporanea dalle catene della gerarchia, un invito a svelare il proprio honne, i veri sentimenti seppellendo per qualche ora il tatemae, la maschera sociale che indossavamo ogni giorno in ufficio.

    Ma il bureikō non è mai stato sinonimo di libertà. Era un teatrino orchestrato, un’illusione di uguaglianza il cui scopo non era abbattere le gerarchie, ma rafforzarle in modo più subdolo. Era la prova del nove della tua intelligenza sociale, la tua capacità di kūki o yomu, di leggere l’aria. Dovevi capire fin dove potevi spingerti. Una battuta innocua sul golf del capo? Ammessa. Un commento sulla sua discutibile gestione dell’ultimo progetto? Suicidio professionale. Il bureikō ti dava la corda, ma eri tu a dover capire che non era per liberarti, ma per vedere se eri cosi stupido da impiccartici.

    Mi sono sempre chiesto da dove provenisse questa strana usanza. Non è un’invenzione del Giappone aziendale del dopoguerra. Le sua radici affondano più in profondità, forse negli antichi banchetti di corte, o nelle riunioni dei samurai prima di una battaglia. In una società verticalmente rigida, creare uno spazio controllato dove le tensioni potevano essere rilasciate era essenziale per la coesione del gruppo. Era un meccanismo di sopravvivenza sociale. L’azienda moderna, nel suo picco di crescita economica, non ha fatto altro che adottare questo modello, trasformando l’ufficio in un feudo e i dipendenti in un clan. La lealtà non era solo richiesta, era forgiata nel calore del sake e nel complesso gioco di ruolo delle nomikai. Il bureikō era il culmine di questo rito: un momento per sentirsi parte di qualcosa di più grande, un “noi” aziendale, anche se basato su una mera finzione.

    Oggi, guardo il giovane Tanaka-kun. Ha il bicchiere quasi vuoto., Dieci anni fa, sarei scattato in piedi per riempirglielo, un gesto di rispetto da senpai a kōhai. Ma oggi sono io il senpai, e lui non si aspetta nulla. Non è scortesia, è semplicemente un linguaggio che non parla più. La sua lealtà non è verso l’azienda-clan, ma verso il suo contratto di lavoro, il suo tempo libero, la sua vita al di fuori delle mura dell’ufficio. Il lavoro non è più l’identità totalizzante che era per la generazione dei miei buchō.

    Le nuove generazioni si stanno allontanando da questa tradizione non per ribellione attiva, ma per semplice indifferenza. La trovano inefficiente, stressante e, in fondo, inutile. Perché partecipare a un complesso rituale per esprimere un’opinione in modo velato, quando si può mandare un’email o, più probabilmente, parlare con gli amici su LINE? La pandemia ha dato il colpo di grazia, dimostrando che l’azienda poteva sopravvivere e prosperare anche senza queste liturgie alcoliche. Ha spezzato un’abitudine decennale e ha dato a tutti la scusa perfetta per non ricominciare.

    E così, mentre il fumo si dirada, mi rendo conto che ciò che stiamo perdendo non è solo un’usanza bizzarra. Stiamo forse perdendo un pezzo di DNA culturale che teneva insieme la società giapponese in un modo specifico: attraverso la gestione collettiva della pressione, la conformità ritualizzata e la condivisione di un codice non scritto. Forse è un bene. Forse una società più trasparente e meno basata su queste sottigliezze è una società più sana. Chi lo può dire. Eppure, in questa nuova quiete, in questa prevedibilità senza rischi, sento la nostalgia di quel brivido, di quella tensione, di quel momento in cui il capo dichiarava aperto il teatro del bureikō e tutti noi, attori consapevoli, iniziavano la nostra recita. Era estenuante, era ambiguo, ma era un modo di essere, insieme. Un modo che, silenziosamente, sta svanendo bicchiere dopo bicchiere.

  • Quando la lode è un martello

    Quando la lode è un martello

    Per uno straniero, ricevere un complimento pubblico o essere scelto come esempio di successo di fronte ai colleghi è quasi sempre motivo di orgoglio. Ci si sente riconosciuti, valorizzati. In Giappone, tuttavia, una situazione simile può trasformarsi in un momento di profondo imbarazzo, un’esperienza che un occidetale farebbe fatica a comprendere.

    Il fulcro di questo disagio risiede nel proverbio giapponese che reicita: “Il chiodo che sporge viene martellato”. Essere messi sotto i riflettori, anche per una lode, significa “sporgere” rispetto all’armonia del gruppo. In una cultura che valorizza l’umiltà, lo sforzo collettivo e il non disturbare l’equilibrio della comunità, essere lodati individualmente può essere interpretato in diversi modi, tutti comunque negativi per l’interessato.

    Innanzitutto, la persona lodata può sentirsi in colpa verso i colleghi, come se il successo individuale mettesse in ombra il contributo del team, temendo di suscitare invidia o risentimento. Invece di un “Bravo!”, nella sua testa risuona un “Perché proprio io? Ora gli altri penseranno che mi sente superiore”. In secondo luogo, l’individuo si sente sotto pressione per dover negare o sminuire il complimento in modo socialmente accettabile. Accettare apertamente una lode sarebbe visto come un atto di arroganza insopportabile. La persone di trova quindi costretta a una serie di frasi di circostanza come: “Tondemonai desu – “Niente affatto” o “Minasan no okage desu – “È tutto merito vostro”, sperando che l’attenzione si sposti da lui il più velocemente possibile.

    Uno straniero con le migliori intenzioni, potrebbe insistere nel complimento, pensando di essere incoraggiante. In realtà, sta solo prolungando l’agonia del suo interlocutore giapponese, “martellando” ancora più a fondo quel chiodo che desidera soltanto tornare a livello degli altri. È un silenzioso panico sociale che svolge dietro un sorriso tirato e ripetuti inchini, un’imbarazzante danza culturale che rimane, per la maggior parte degli stranieri, completamente invisibile.

    Riflettere su l’imbarazzo generato da un lode qui in Giappone significa avventurarsi in un paesaggio mentale dove tutte le nostre certezze occidentali sull’io e sul successo personale si dissolvono. Il panico silenzioso, la frenetica ricerca di umiltà, la danza sociale per deviare l’attenzione. Ma per comprendere il perché di questa reazione, bisogna scavare più a fondo, poiché non si tratta di tic della modernità, bensì di un’eco potente che risuona da un passato molto lontano.

    La risposta, come spesso accade quando si parla di cose Giapponesi, non risiede nel presente ma in un sedimento storico, plasmato da necessità pragmatiche prima ancora che da precetti filosofici. Immaginiamo per un istante il Giappone rurale di secoli fa, una nazione la cui sopravvivenza era legata a un’unica, esigente cultura: il riso. La risicoltura non è un’impresa per solitari; richiede un’incredibile e meticolosa cooperazione. Canali di irrigazione, semina, trapianto e raccolto dovevano essere coordinati alla perfezione all’interno del mura, il villaggio. Un singolo individuo che avesse agito per il proprio tornaconto, deviando l’acqua o anticipando i tempi, avrebbe potuto compromettere il sostentamento dell’intera comunità. In questo contesto, l’individualismo non era un’affermazione di libertà, ma una minaccia esistenziale. Il “chiodo che sporge” non era semplicemente anticonformista; era un pericolo per tutti. L’armonia non era un ideale per lo più astratto, ma la condizione necessaria per la sopravvivenza.

    Su questo pragmatismo agricolo si sono poi innestate le grandi correnti spirituali e filosofiche che hanno fornito una cornice morale a questa necessità materiale. Lo shintō, con la sua enfasi sulla purezza e sull’idea di una comunità legata a un luogo sacro, ha sempre considerato l’armonia del gruppo un valore supremo. Romperla significava creare una sorta di kegare, di impurità spirituale. Parallelamente, il buddismo, giunto sul suolo nipponico attraverso Cine e Corea, ha introdotto il concetto di muga, l’anatta, ovvero la vacuità dell’io, l’idea che l’ego e il desiderio di affermazione personale siano la radice di ogni sofferenza. Sminuire se stessi e i propri successi diventa allora non solo una norma sociale, ma anche un esercizio spirituale per trascendere l’illusione dell’ego e raggiungere la liberazione dalla sofferenza. A questa due correnti si è aggiunto in seguito il confucianesimo, che ha cementato una rigida etica sociale basata sulla lealtà, sul rispetto delle gerarchie e sul corretto adempimento del proprio ruolo all’interno della comunità. L’individuo esiste e trova il suo senso solo in relazione agli altri.

    Esiste un aneddoto storico, o meglio un sistema istituzionalizzato, che cristallizza questa mentalità in modo quasi spietato: il sistema dei gonin-gumi (五人組) perfezionato durante lo shogunato Tokugawa (1603-1868). In questo sistema, le famiglie venivano raggruppate in entità di cinque e rese collettivamente responsabili per le azioni, le tasse e il comportamento di ogni singolo membro. Se una persona commette un crimine o infrange una regola, l’intera unità veniva punita. Conformarsi, mimetizzarsi e assicurasi che nessuno “sporgesse” divenne una strategia di sopravvivenza non solo individuale, ma familiare e comunitaria. La pressione sociale non era solo un sentimento, ma una legge dello “Stato”.

    Questo imprinting non è svanito con la fine dello shogunato e l’avvento della modernità. È stato traslato con sorprendente efficacia dal villaggio rurale a molte aziende del XX secolo, dove la lealtà al gruppo e l’enfasi sul team sono diventati pilastri del miracolo economico del Giappone del dopoguerra. L’impiegato che oggi si sente a disagio per una lode, quindi, non sta semplicemente recitando una parte; sta inconsciamente rispondendo a un imperativo culturale forgiato da secoli di risaie, dottrine spirituali e controllo sociale. Quella che per molti stranieri è una semplice parola di incoraggiamento, per lui è una vibrazione che disturba una quiete secolare, un riflettore che lo isola pericolosamente dal rassicurante corpo della collettività. Comprendere questo sottile imbarazzo significa, in fondo, iniziare a comprendere l’anima del Giappone.

  • Il mare prima dei kami

    Il mare prima dei kami

    Questo articolo si lega al precedente “Dove il mare è destino”.

    Sono trascorsi molti anni da quando ho messo piede per la prima volta in Giappone, e in tutto questo tempo credevo di aver compreso il profondo vincolo che lega questo popolo alle sue acque. Lo associavo istintivamente allo Shintō, a una cornice spirituale affascinante e onnipresente. Eppure, solo di recente ho iniziato a interrogarmi più a fondo, a sentire che quella spiegazione, per quanto corretta, non era completa. Mi sono reso conto che ridurre questa relazione ancestrale alla sola fede sarebbe come ammirare la Grande Onda di Hokusai e notare solo la schiuma in superficie, ignorando la massa immensa e la potenza abissale che la genera. Ho capito che lo Shintō non è la causa di questo legame, ma il sublime linguaggio spirituale attraverso cui esso prende voce. La relazione stessa è un tessuto esistenziale molto più antico, i cui fili sono l’ineluttabilità della geografia, la necessità economica, il terrore primordiale e, solo alla fine, la sacralità.

    Il mio primo passo, in questa riflessione, è stato spogliarmi di ogni sovrastruttura per tornare all’evidenza più lampante: il Giappone è un arcipelago, una shima-guni (nazione insulare). Una definizione che per anni ho usato quasi meccanicamente, senza coglierne appieno il peso. Vivere qui significa che nessun punto della nazione dista più di centocinquanta chilometri dalla costa. Il mare non è un’opzione, un panorama da scegliere per le vacanze, ma un vicino costante, a volte ingombrante. È il confine che definisce e la via che chiama. È solo ora che inizio a comprendere come questa prossimità abbia forgiato una mentalità unica, intrisa di un senso di vulnerabilità e, allo stesso tempo, di un splendido isolamento che ha permesso a questa cultura di chiudersi al mondo e di riaprirsi ad esso, sempre e solo attraverso le sue porte d’acqua.

    Vivere così, costantemente abbracciati dal mare, ha installato nell’anima collettiva qualche cosa che ho impiegato anni a decifrare: un ambivalenza profonda, un equilibrio perenne tra la più devota gratitudine e la più atavica paura. Il mare è innanzitutto sostentatore, la fonte della megumi, la benedizione. La dieta stessa è un inno ai suoi doni, che qui chiamano con un’espressione meravigliosa: umi no sachi, i “tesori del mare”. Questi tesori, che includono alghe e molluschi oltre al pesce, hanno garantito per millenni la sopravvivenza in una terra montuosa e avara di suolo. Ma questo stesso mare, ho imparato a mie spese, e anche la più grande minaccia collettiva, kyōi. La parola tsunami è un termine che il Giappone ha tragicamente donato al mondo. La Grande Onda di Kanagawa, che prima vedevo come un’icona estetica, ora la percepisco per quello che forse è: la rappresentazione sublime della fragilità umana. Quei pescatori, rannicchiati nelle loro barche, non sono eroi, ma esseri minuscoli in balia di una forza cosmica e indifferente.

    Ed è qui, in questa fessura tra amore e paura, che ho finalmente capito il ruolo autentico dello Shintō. In quanto fede animista, nata dal paesaggio stesso del Giappone, non ha creato il vincolo con il mare, ma lo ha elevato a sacro, gli ha dato un ordine e una grammatica. Ha offerto gli strumenti per dialogare con l’inconciliabile dualità di megumi e kyōi. Il pantheon si è popolato di divinità marine come watatsumi, che governa gli abissi, e i Sumiyoshi sanjin, protettore dei marinai. Venerare questi kami è diventato il modo per ringraziare i “tesori del mare” e, al contempo, un tentativo disperato di placarne la furia. L’acqua salata stessa è diventata un agente di purificazione, il misogi un rito per lavare le impurità. I maestosi torii che sorgono dall’acqua, come quello immortale di Itsukushima, non sono solo un artificio scenico; ho imparato a vederli come la soglia visibile tra il nostro mondo e un mondo in cui il mare non è sfondo, ma protagonista divino.

    Ma la mia riflessione non poteva fermarsi qui. Se il legame fosse solo religioso, si sarebbe affievolito con il passare del tempo. Invece, la sua eco risuona, potente e trasformata, anche nella cultura moderna. In Mishima, il mare non è più un dio, ma diventa simbolo di un ordine trascendente, di una purezza assoluta e crudele, indifferente alle piccole vicende umane. E rileggendo le parole di un altro straniero che ha amato profondamente questo paese, Donald Richie, ho trovato un’altra conferma: “L’acqua è sempre stata la vera strada maestra del Giappone. È ancora il legame tra le sue parti…Questo senso di connessione attraverso l’acqua e qualcosa che la terraferma non può dare”. Il mare quindi non è ciò che separa le isole che formano il Giappone, ma il tessuto connettivo che le unisce.

    Alla fine, questo viaggio mi ha portato a una conclusione quasi disarmante nella sua semplicità. La relazione tra i giapponesi e il loro mare è una simbiosi nata da una necessità geografica e forgiata nel fuoco di un’eterna contraddizione tra vita e morte. Lo shintoismo offre una grammatica spirituale per articolarla, un vocabolario fatto di riverenza e paura. Ma il legame stesso è più antico e viscerale di qualunque dottrina: è la consapevolezza, che sento ora più vicina, incisa nell’anima di un popolo, di vivere perennemente sull’orlo di un abisso magnifico e terribile.

  • Dove il mare è destino

    Dove il mare è destino

    Nonostante l’enorme volume di lavoro di quest’ultimo periodo, tra nuovi contratti, nuovi progetti e lo studio continuo per non rimanere avvinto dalle pieghe del tempo, ho scelto di concedere a me e alla mia famiglia la quiete di questi giorni a casa. Pur continuando a compulsare documenti da quella che era nata come una gaming room ma si è ormai trasformata nel mio ufficio casalingo, l’atmosfera che si respira è quella di una festività, una pausa nel ritmo sincopato della quotidianità. La ragione di questa tregua risiede in una celebrazione profondamente radicata nell’anima di questa nazione: l’umi no hi, la giornata del mare.

    Questa ricorrenza, che cade il terzo lunedì di luglio, non è un mero pretesto per un fine settimana allungato, bensì un momento di sentita gratitudine verso l’oceano per i suoi doni e un auspicio di prosperità per il Giappone. Per comprendere appieno la portata di tale celebrazione, è necessario spogliarsi della nostra concezione mediterranea del mare, spesso legata alla villeggiatura, al divertimento estivo, a un orizzonte di svago. Qui il mare è vita, nutrimento, via di comunicazione, ma anche forza temibile e indomita. È un’entità con cui il popolo giapponese ha stretto un patto millenario, un legame viscerale che ne ha plasmato la cultura, l’economia e la stessa identità. Essendo il Giappone una nazione insulare, la cui esistenza stessa è intrinsecamente legata alle acque che la cingono, il mare è il fulcro di un retaggio storico e spirituale che pervade ogni aspetto della vita. Io stesso, proveniente da una zona più prossima alle alte vette dolomitiche che alle rive del mare, non ho mai coltivato un simile legame, e forse proprio per questa distanza riesco a cogliere con maggior stupore la profondità della riverenza nipponica.

    Le origini di questa festività ci riportano indietro nel tempo, al 1876. Fu in quell’anno che l’imperatore Meiji, figura cardine della modernizzazione del paese, fece ritorno al porto di Yokohama il 20 Luglio, al termine di un lungo viaggio che lo aveva impegnato nella visita delle regioni settentrionali del Tōhoku e dell’Hokkaidō. L’imbarcazione che lo ricondusse a casa non era una nave qualsiasi, ma la Meiji Maru, un piroscafo di costruzione scozzese che incarnava il progresso tecnologico e la nuova apertura del Giappone al mondo. Quel ritorno divenne il simbolo di un viaggio non solo fisico, ma anche metaforico, verso un futuro prospero guidato dall’innovazione.

    Per commemorare un evento di tale portata simbolica, nel 1941 venne istituita la “Giornata commemorativa del mare”, umi no kinenbi, fissata proprio il 20 luglio. Tuttavia, fu necessario attendere fino al 1996 perché questa giornata assumesse lo status di festa nazionale, specchio di una società in cambiamento, dal 2003 la festività è stata spostata al terzo lunedì del mese di luglio, in accordo con la politica governativa conosciuta come “Happy Monday System”, volta a creare più fine settimana di tre giorni per favorire il riposo e il turismo interno.

    Ed è così, che dalla mia stanza, tra una pila di documenti e l’altra, osservo questa giornata dipanarsi. Il mare poco distante riflette i raggi del sole e credo che sia un’occasione perfetta per riflettere non solo sulla dipendenza di un’intera nazione dall’oceano, ma anche sull’urgenza di preservare l’equilibrio. È un momento in cui il fragore delle onde sembra riecheggiare la storia, la cultura e le speranze di un popolo che, nel mare, ha sempre trovato il proprio destino.

  • Tra cicale e fuochi d’artificio: vivere l’estate giapponese

    Tra cicale e fuochi d’artificio: vivere l’estate giapponese

    Le conversazioni serali sull’arredamento e sulla tipologia di climatizzazione della nostra nuova cassa, un tema ricorrente tra me e mia moglie, ci hanno condotti, non si come, a una riflessione più profonda: quale sia la vera essere dell’estate in Giappone. Contrariamente alla percezione occidentale, dove l’estate sovente si traduce in lunghe interruzioni della routine e nella quiete delle vacanze, qui l’esperienza del periodo estivo è ben più stratificata e complessa. È un mosaico di sensazioni, riti e sinfonie naturali che affonda le proprie radici in un passato remoto e vibrante.

    Per cogliere appieno l’anima dell’estate nipponica, è d’obbligo un’immersione nel tempo in lui la percezione dell’anno era dettata dal calendario lunare. L’estate, o natsu, non era una mera porzione dell’anno, bensì un intervallo cruciale, approssimativamente da maggio a luglio, di vitale importanza per la coltivazione del riso. L’avvento della pioggia, lo tsuyu, che inonda il paese tra giugno e luglio, non era percepito come un inconveniente, bensì come una benedizione celeste, linfa vitale per i campi e garanzia di un raccolto prospero. Questa profonda connessione con la terra, con la crescita rigogliosa e con la gratitudine verso la natura, è un filo ininterrotto che lega il passato al presente.

    Nonostante il passaggio al calendario gregoriano abbia alterato la successione dei mesi, l’anima di questa stagione persiste. Oggi, l’estate è indissolubilmente legata a un calore spesso opprimente e a un’umidità pervasiva, sapientemente descritta dai giapponesi con il termine mushi-atsui. È la stagione del canto assordante e incessante delle cicale, che funge da colonna sonora onnipresente dall’alba al tramonto. Un periodo che mette a dura prova la nostra tempra fisica, tanto da aver generato un’espressione specifica, natsubate, per denotare la spossatezza e la fatica indotte dal rigore estivo.

    Eppure, l’estate giapponese e anche l’attesa febbrile dei fuochi d’artificio, gli hanabi. Lungi dall’essere semplici esibizioni pirotecniche, le hanabi taikai sono sovente eventi grandiosi, vere e proprie competizioni tra maestri artigiani che dipingono il cielo notturno con creazioni effimere di una bellezza mozzafiato. Famiglie, amici, innamorati si radunano lungo le rive dei fiumi o sulle spiagge, stendono un telo e condividono cibi e bevande, con lo sguardo rivolto al cielo, in un silenzio quasi reverenziale, interrotto solo da esclamazioni di meraviglia.

    Il palato estivo è plasmato dai dettami della stagione. Si prediligono spesso piatti rinfrescanti come i sōmen, sottili spaghetti di grano serviti freddi, o l’anguilla (unagi), che secondo la tradizione aiuta a rinvigorire il corpo e a combattere gli effetti del caldo. È il sapore dolce e succoso dell’anguria, spesso consumata in compagnia, magari partecipando al suikawari, un gioco in cui si tenta di rompere il cocomero con un bastone, bendati.

    Vivere l’estate in Giappone significa dunque abbracciare i suoi intrinsechi contrasti. È sopportare un clima difficile, ma trovare immediato sollievo nella maestosità di un fuoco d’artificio che esplode nel cielo. È sentire il peso della fatica fisica ma riscoprire l’energia nella gioia contagiosa di un matsuri di quartiere. È un’esperienza che coinvolge tutti i sensi: il ronzio persistente delle cicale, l’aroma sacro dell’incenso durante l’obon, il sapore rinfrescante di un granita, la visione incantevole di una lanterna di carta che si illumina al crepuscolo. Non è una semplice pausa della vita quotidiana, bensì un periodo in cui la vita stessa si manifesta con un’intensità maggiore, legando indissolubilmente il presente a un passato che non cessa mai di permeare ogni istante.

  • Il gracchiare degli dei

    Il gracchiare degli dei

    Nel cielo del Sol Levante, un’ombra nera danza instancabile, un ritornello visivo che accompagna l’alba e il tramonto. È il corvo, l’onnipresente signore dei cieli urbani, un sovrano pennuto che osserva dall’alto le nostre vite indaffarate con un’intelligenza che a tratti inquieta, a tratti affascina. Non si può sfuggire al suo richiamo roco, “ka-ka-” che è divenuto la colonna sonora non ufficiale delle metropoli giapponesi, un suono così familiare da confondersi con il brusio del traffico e le melodie delle stazioni dei treni.

    Questo volatile, vestito di un piumaggio che ruba la luce, è un maestro di adattamento, un genio incompreso del mondo animale. Lo si osserva con un misto di ammirazione e fastidio mentre risolve complessi problemi per procurarsi il cibo. Lo si vede far cadere noci sulle strisce pedonali, attendendo pazientemente che il semaforo diventi verde e le auto, ignare complici, le schiaccino per lui. Un’astuzia che strappa un sorriso, se non fosse che la sua ingegnosità si applica con la medesima perizia a un’altra, meno nobile, attività.

    Ed è qui che l’ammirazione cede il passo all’esasperazione, trasformando il nostro astuto corvo in un vera e propria piaga sociale. All’alba, prima ancora che la città si desti del tutto, orde di questi becchi affilati si avventano sui punti di raccolta dei rifiuti. Con una precisione chirurgica, lacerano i sacchetti, spargendo in un tripudio di caos i resti della nostra opulenza. L’immondizia, meticolosamente separata la sera prima, diventa un banchetto a cielo aperto, un mosaico desolante di avanzi e confezioni sparse sul selciato. E così, quasi ogni mattina, si rinnova la silenziosa battaglia tra cittadini armati di reti protettive e i corvi, imperterriti e sempre un passo avanti.

    Eppure in questo paese che oggi lo combatte a colpi di reti e dissuasori, il corvo non è sempre stato un paria. È un animale profondamente ambivalente, un essere che cammina sul filo sottile che separa il sacro dal profano. Se da un lato è considerato un “kami no tsukai”, un messaggero divino, dall’altro la sua ombra si allunga su aspetti più oscuri, legandosi a volte all’idea di maledizione. Basta scalfire la superficie del quotidiano per scoprire un’anima antica, un rispetto ancestrale che affonda le radici nella notte dei tempi. Se si lascia la giungla d’asfalto e ci si addentra nel silenzio ovattato di un santuario shintoista, l’immagine del corvo trasfigura.

    Qui, esso abbandona le sue spoglie di razziatore di rifiuti seriale per indossare quelle sacre dello yatagarasu, il corvo a tre zampe, guida celeste e araldo divino. La leggenda narra che fu proprio questo essere mitologico, inviato dalla dea del sole Amaterasu, a guidare il primo imperatore del Giappone, Jimmu, attraverso le impervie montagne, assicurando la fondazione di una nazione. Le sue tre zampe, si dice, rappresentano il cielo, la terra e l’umanità, un simbolo potente di unione e armonia.

    Questa dualità si riflette in usanza popolari quasi sussurrate, come i karasu kanjō (烏勧請), antichi rituali in cui l’uomo cerca di ingraziarsi questa creatura ambigua. Si offrono piccoli doni, come mochi o dango, non per scacciarla, ma per invitarla, per pregarla di farsi tramite con il divino, come suggerisce lo stesso termine kanjō. Si credeva, e in alcune comunità rurali si crede ancora, che dal modo in cui il corvo becca l’offerta si possano trarre presagi, decifrare il futuro, propiziarsi la fortuna. Un gesto di pace, un tentativo di dialogo con l’uccello che è tanto detestato quanto venerato.

    Purtroppo, come molte tradizioni che richiedono tempo e silenzio, anche i karasu kanjō stanno lentamente scomparendo, inghiottiti dalla fretta del mondo moderno. Sopravvivono tenacemente nelle campagne, ultimo baluardo di un passato ricco di significato, un legame con un tempo in cui l’uomo sapeva ancora ascoltare la voce degli dei attraverso il gracchiare di un corvo.

    E così, il Giappone, vive questa sua curiosa dicotomia. Alza gli occhi al cielo con un sospiro di rassegnazione nel vedere l’ennesimo stormo dirigersi verso i cassonetti, ma poi si inchina con riverenza davanti a un’immagine dello stesso uccello incisa su un amuleto. Un ladro sfacciato e un messaggero divino, un fastidio quotidiano e un oracolo alato. In questa duplice natura, forse, risiede il vero fascino del corvo giapponese: un promemoria costante che la bellezza e la seccatura, il sacro e il profano, spesso volano con le stesse ali.

  • Le nozze delle tenebre

    Le nozze delle tenebre

    Nelle pieghe più recondite della tradizione giapponese, lontano dal clamore delle metropoli, sopravvivono usanze che risuonano come echi di un tempo antico, sussurri di fede nati dal più profondo dei terrori.Tra queste, forse nessuna è così straziante e solenne come il meikon (冥婚), il “matrimonio delle tenebre”. Non è una tradizione per le masse, ma un rito intimo e raro, custodito nel cuore di alcune comunità, un estremo atto d’amore che fiorisce dove le dottrine ufficiali del buddismo e dello shintoismo lasciano spazio al silenzio. È un cerimoniale per offrire le nozze a chi la vita ha strappato via prima che potesse conoscere l’unione con un’altra persona.

    Per discendere i meandri di questa pratica, occorre prima soffermarsi su un oggetto umile e onnipresente nei luoghi sacri del Giappone: le tavolette ema (絵馬). Appese in rastrelliere silenziose di speranze, queste piccole tavolette di legno sono il veicolo di preghiere e desideri. Il loro nome, “immagine di cavallo”, ci riporta a un’epoca in cui i nobili destrieri, considerati messaggeri divini, venivano offerti ai santuari per guadagnare il favore dei kami. Con il tempo, il cavallo in carne e ossa, dono per pochi, lasciò lo spazio alla sua effige, evolvendosi infine in queste tavolette su cui chiunque può incidere una speranza da affidare al cielo.

    Ma cosa accade quando la preghiera non è più per una gioia futura, ma per chiudere una ferita insanabile del passato? È qui che il sentiero si fa più oscuro, conducendo nel mondo del meikon. Una morte prematura, prima del matrimonio, è come una lacerazione nell’ordine cosmico. Si annida la terribile credenza che l’anima del defunto, privata del compimento coniugale e della promessa di una discendenza, sia condannata a un’eterna irrequietezza. Questi spiriti, frustati e incompleti, diventano muenbotoke (無縁仏), “anime senza legami”, spettri freddi e soli, incapaci di trovare pace e il cui tormento si crede, possa angosciare anche il mondo dei vivi. Il meikon nasce da questo terrore, dal peso insopportabile di immaginare il proprio figlio vagare nel gelo dell’aldilà. È un rito per offrire, oltre la soglia della morte, quella felicità negata, affidandosi non a spoglie mortali, ma alla potenza evocativa di simboli carichi d’amore.

    Nella prefettura di Yamagata, questo gesto assume la forma del mukasari ema. “Mukasari”, nel dialetto locale, significa proprio “matrimonio”. Le famiglie spezzate dal lutto commissionano una tavoletta ema che non chiede, ma dona. Su di essa non si scrive un desiderio, ma si dipinge un sogno; la scena nuziale del proprio caro, un passato che non è mai stato. L’immagine, spesso dai colori vivaci quasi a voler sfidare il buio della morte, ritrae il defunto in abiti da cerimonia accanto a un consorte immaginario, sereno e finalmente completo. Una regola sacra e inviolabile preserva il confine tra i mondi: la sposa o lo sposo dipinto sull’ema non può mai essere una persona viva.

    Questo dipinto è più di un omaggio; è un kūyō, un servizio commemorativo, disperato e potentissimo. La storia di una donna di Shizuoka ne trasmette la forza. Tormentata da un’inquietudine che non le dava pace dopo la morte improvvisa del fratello diciottenne, una notte lo sognò. La sua voce era un lamento freddo: “Voglio andare in un luogo più luminoso. Qui fa freddo. Il rito non è stato svolto nel modo adeguato”. Stremata dal dolore, la donna scoprì i mukasari ema e, tramite il tempio Wakamatsu, fece dipingere il fratello sorridente, accanto a una sposa radiosa. Dopo la consacrazione della tavoletta, il fratello le apparve un’ultima volta in sogno: non più un’anima gelida, ma il ragazzo che era, che la ringraziò con un sorriso prima di offrirle un congedo sereno e svanire nella pace.

    Risalendo ancora più a nord, nella prefettura di Aomori, il peso del lutto si manifesta nelle hanayome ningyō (花嫁人形), il “rituale della bambola sposa”. Anche questa usanza nacque dall’eco di un dolore collettivo, quello dei genitori che avevano perso i figli sui campi di battaglia. Una coppia, annientata dal dolore, si rivolse a una miko, una sciamana, per udire una parola dal figlio caduto. Il messaggio che giunse nell’oltretomba fu un sussurro che squarciò il loro cuore: “Avrei voluto sposarmi” (kekkon-shitakatta). In risposta a quel desiderio non esaudito, la madre fece creare una bambola vestita da sposa e la consacrò alla memoria del figlio. Oggi, in una sala del tempio Kōbōji, un silenzioso gruppo di quasi mille bambole testimonia questo rito. Per un uomo, si pone una bambola sposa accanto alla sua fotografia; per una donna, un’effige maschile in abiti scuri prende il posto della sua immagine. A volte, il dolore e l’amore dei genitori sono così grandi da spingere ad aggiungere una bambola di un bambino, nel tentativo di costruire per il proprio caro un’intera famiglia felice nell’eternità.

    Sia i dipinti di Yamagata che le bambole di Aomori sono rituali nati da una tragedia, me perpetrati da un bisogno umano universale e fortemente radicato in Giappone: quello di prendersi cura dei propri amati oltre ogni confine.

    Rappresentano un ponte fragile, costruito con le lacrime e la devozione dei sopravvissuti, un modo per completare una vita spezzata, alleviando il proprio fardello e offrendo, con un ultimo, tenerissimo gesto, la pace. In questi atti intimi e potenti, il velo tra il visibile e l’invisibile di assottiglia, e ci ricorda che, anche quando il corpo svanisce, l’anima, e l’amore che la circonda, continuano a vibrare nell’infinito.

  • Dove riposano i morti senza pace

    Dove riposano i morti senza pace

    Il fragore dell’acqua che tutto inghiotte non fa distinzioni. Non si arresta davanti alle case dei vivi, né alle dimore silenziose dei morti. È un’onda nera che cancella la memoria, strappando le fotografie dagli album e i nomi dalla lapidi con la stessa indifferente ferocia. Quando, l’11 marzo 2011, il grande tsunami del Tōhoku si è ritirato, ha lasciato dietro di sé un paesaggio di annientamento che andava ben oltre la rovina materiale. Ha spalancato un abisso non solo nelle vite di chi è sopravvissuto, ma anche nell’ordine sacro del mondo degli spiriti, gettando nel caos il delicato equilibrio tra chi cammina sulla terra e chi vi riposa.

    In occidente, il nostro sguardo si ferma spesso sulla conta dei corpi, al dolore tangibile di chi ha perso un figlio, un coniuge, un genitore o la famiglia intera. La nostra empatia si concentra sulla tragedia dei vivi. Ma in Giappone quella tragedia si è sdoppiata, riflessa in uno specchio invisibile, ma non meno reale: il mondo dei defunti. L’acqua ha spazzato via migliaia di tombe di famiglia, le haka, piccoli monumenti di pietra che per generazioni avevano custodito le ceneri degli antenati, fungendo da ponte tra passato e presente. Interi cimiteri, affacciati lungo le coste colpite dallo tsunami, luoghi di pace e preghiera, sono stati profanati, le loro lapidi divelte e trascinate via come fuscelli, disperdendo le ceneri e cancellando l’identità fisica dell’eterno riposo. Per i sopravvissuti, per i vivi, ciò non ha significato solo perdere un luogo di commemorazione, ma subire la recisione di un legame vitale, la violazione di un dovere filiale che si estende dopo la morte. Come onorare gli antenati, se il loro santuario è stato distrutto? Come parlare con loro, se il punto di contatto e stato inghiottito dal fango?

    A questo si aggiunge l’angoscia più profonda, quella che non trova pace, quella per le anime che vagano senza un corpo. Migliaia di persone sono state dichiarate disperse, mai restituite dalle acque. Per la sensibilità buddista giapponese, questa è una ferita insanabile. Un defunto, per trovare la pace e iniziare il suo viaggio nell’aldilà, necessità di riti precisi: il suo corpo deve essere ritrovato, cremato, e le sue ceneri raccolte con devozione e poste nell’urna funeraria, all’interno della tomba di famiglia. I suoi cari devono poter pregare per lui bruciando l’incenso davanti al butsudan, l’altare domestico, scandendo il nome postumo. Ma come si può pregare per un ombra? Come si può onorare chi non ha un tomba, chi è rimasto prigioniero del mare? Questa assenza non è un vuoto, ma una presenza costante e dolorosa. È uno scompiglio che tormenta i sogni di chi resta, un senso di colpa che attanaglia il cuore: il fallimento nel compiere l’ultimo, fondamentale atto d’amore e di rispetto. I vivi si sentono responsabili per l’inquietudine dei loro morti, immaginandoli persi, confusi, incapaci di attraversare il ponte verso la Terra Pura.

    In questo paesaggio di desolazione fisica e spirituale, sono nate storie di una tenacia straziante, di una devozione che sfida la disperazione. Uomini e donne che per anni hanno continuato a cercare, a camminare lungo spiagge devastate, a setacciare i detriti, aggrappati alla speranza di trovare un frammento, un resto, qualcosa che potesse dare un nome a un’assenza e un luogo alla memoria. Come Takamatsu Yasuo, un uomo che, dopo aver perso la moglie nello tsunami, ha imparato a fare immersioni subacquee. Ogni settimana, per anni, si è immerso nelle acque gelide al largo della costa di Onagawa, cercando il suo corpo. Non cercava la morte, ma un modo per far continuare la vita, quella spirituale di sua moglie. “Sento che potrebbe essere da qualche parte qui vicino”, diceva con una calma carica di dolore. La sua ricerca non era solo un atto personale, ma il simbolo della lotta di un’intera comunità contro l’oblio imposto dalla catastrofe. Era il tentativo di restituire un ordine al caos, di compiere un rito funebre che la natura gli aveva negato.

    In questo abisso, la religione buddista non ha offerto risposte semplici, ma ha fornito strumenti per convivere con un dolore incommensurabile. I monaci buddisti sono diventati figure centrali, non solo come guide spirituali, ma come operatori di un primo soccorso dell’anima. Hanno camminato tra le rovine, ascoltato storie di perdita senza fine, e hanno adattato spesso riti secolari a una tragedia senza precedenti. Sono stata organizzate cerimonie collettive per i “dispersi”, riti funebri senza un corpo presente, dove le preghiere non erano rivolte a un singolo defunto in una bara, ma a migliaia di anime perdute nel mare. Hanno insegnato che, anche in assenza di un corpo, la memoria e l’intenzione del cuore potevano creare un ponte. Hanno consacrato nuovi spazi, eretto monumenti comuni dove i nomi dei dispersi sono incisi sulla pietra, offrendo ai sopravvissuti un luogo fisico dove dirigere il loro lutto, le loro preghiere, le loro lacrime. Hanno aiutato le persone a capire che il legame con i defunti non risiede esclusivamente nelle ceneri o nelle pietra tombale, ma nell’amore incrollabile di chi ricorda.

    La catastrofe del Tōhoku ci ha insegnato che quando la terra trema e il mare si solleva, non distrugge solo il presente, ma minaccia di cancellare anche il passato e di ipotecare il futuro spirituale. Ha mostrato al mondo intero la profondità di una cultura in cui i morti non sono relegati in un lontano passato, ma continuano a vivere accanto ai loro discendenti, in un dialogo silenzioso e costante. I sopravvissuti, con la loro disperata e dignitosa ricerca, con la loro fede tenace, non hanno cercato solo di ricomporre le proprie vite. Hanno combattuto una battaglia più grande: quella di ricomporre il mondo invisibile, per dare la pace ai loro cari e per riaffermare che nemmeno la furia più devastante del mare può spezzare il filo sacro che unisce il mondo dei vivi da quello dei morti.

  • Quella notte appesa alla Via Lattea

    Quella notte appesa alla Via Lattea

    Oggi è il sette luglio. Guardo fuori dalla finestra del mio ufficio, qui a Sasebo, e il cielo è carico di quella classica umidità estiva che conosco fin troppo bene. È una giornata che per molti scorre via come tante, ma non per me. Non oggi. Oggi e il settimo giorno del settimo mese del settimo anno dell’era Reiwa (令和七年七月七日) qui in giappone. Un triplo sette, il lucky seven. E io sono una persona che di carattere non ho mai creduto troppo alle coincidenze.

    La mente torna indietro, a un altro tanabata, non molto tempo fa. Ricordo il fruscio leggero dei rami di bambù carichi di desideri. Io e quella che oggi e mia moglie, in mezzo alla folla festosa, con in mano le nostre striscioline di carta colorata, i tanzaku li chiamano qui in Giappone. C’era un’energia nell’aria, una speranza palpabile che saliva verso il cielo notturno.Tutti scrivevano i loro sogni più intimi, affidandoli a un’antica promessa.

    La promessa di Orihime e Hikoboshi. La principessa tessitrice e il mandriano, separati dalla Via Lattea, a cui era concesso di incontrarsi solo in questa notte. Ho sempre pensato che fosse una storia romantica quanto crudele, ma quella sera ho capito. La loro attesa carica queste notte di una magia speciale, la convinzione che se due stelle possono attraversare un fiume celeste per amore, forse anche i nostri desideri possono trovare una strada per diventare realtà.

    Abbiamo scelto con cura la nostra striscia di carta. Non ricordo bene il colore, ma credo fosse gialla. Ricordo solo le nostre mani unite mentre scrivevano poche, semplici parole. Un desiderio che sembrava, quasi impossibile, ma che in quel momento, appeso a quel ramo di bambù, sembrava un po più vicino, un po più vero.

    In Giappone dicono che il numero sette è un numero fortunato. Non è solo un modo di dire. Lo vedi ovunque. Pensi alle Sette Divinità della fortuna, gli Shichifukujin, che solcano i mari sulla loro nave del tesoro portando prosperità. Pensi alle sette erbe di gennaio o ai riti di passaggio dei bambini. È un numero che porta con sé un’eco di benevolenza, di cose buone che devono accadere. E quel giorno era il sette di luglio. Un doppio sette. Chissà, forse quelle divinità sorridenti stavano passando proprio da quelle parti, sbirciando tra i rami di bambù.

    Il tempo è passato. La vita è andata avanti, con i suoi alti e suoi bassi, e quel desiderio scritto sul tanzaku era diventato un ricordo dolce e un po ‘sbiadito di una calda notte di luglio.

    E poi è successo. È successo davvero.

    Il nostro desiderio si è avverato. Non con fuochi d’artificio o annunci celestiali, ma con la quiete e la meravigliosa concretezza della realtà. È entrato nelle nostre vite in punta di piedi, e un giorno ci siamo guardati e abbiamo capito. Quel sogno, affidato a una stella lontana in una notte d’estate, era lì con noi.

    Oggi, in questo giorno speciale, un sette che si ripete tre volte, non posso fare a meno di sorridere. Sento un senso di gratitudine così profondo da togliere il fiato. Non so se sia stata la magia di Orihime e HIkoboshi, la benevolenza delle Sette Divinità della Fortuna o semplicemente l’aver creduto in qualcosa con tutto il cuore, assieme alla persona che amo. Forse è stato un po ‘di tutto questo.

    Quello che so è che una semplice tradizione, un pezzo di carta colorato legato a un ramo, è diventato per noi il simbolo tangibile che i sogni, a volte, trovano davvero la loro strada. E che il numero sette, per me (sono nato il sette marzo), non sarà mai più solo un numero. Sarà sempre il suono di un desiderio che si avvera.

  • O-chūgen: il filo invisibile della gratitudine giapponese

    O-chūgen: il filo invisibile della gratitudine giapponese

    In ufficio, in questi primi giorni di luglio, si respira un’aria frizzante e quasi febbrile, un’agitazione che non ha nulla a che vedere con le solite scadenze di fine mese. Sulle nostre scrivanie sono comparsi eleganti cataloghi patinati contenenti foto di confezioni di birra pregiata, gelatine colorate e cesti di frutta così perfetti da sembrare finti. Per me, straniero in questa complessa e affascinante realtà aziendale giapponese, è arrivato di nuovo quel momento dell’anno: il tempo degli o-chūgen. E quest’anno più degli altri tocca di nuovo anche a me, con una lista di clienti tra le mani, inoltrarsi nuovamente in questo rito sociale che è tanto radicato quanto, per un occidentale, inizialmente enigmatico.

    Mentre sfoglio le pagine, cercando il regalo giusto che esprima gratitudine senza essere eccessivo, la mia mente vaga. Non posso fare a meno di pensare a quanto sia profonda la storia dietro questo semplice gesto di donare una scatola di dolci o un set di olio da cucina. Non è un’invenzione del marketing moderno, né una semplice cortesia aziendale. È l’eco lontana di storie antiche, un filo che lega il mio gesto di oggi a credenze millenarie.

    Il viaggio degli o-chūgen comincia in un tempo il cui il sacro e il profano danzavano insieme, in una Cina permeata di taoismo. Il nome stesso, chūgen (中元), significa letteralmente “origine di mezzo”, e si riferisce a una delle tre festività taoiste principali. Il quindicesimo giorno del settimo mese del calendario lunare era il momento per pregare la divinità della terra che si credeva avesse il potere di perdonare i peccati degli uomini. In questo giorno, si facevano offerte per chiedere perdono e benedizioni. Era un momento solenne di espiazione e gratitudine verso le forze che governano il mondo.

    Quando queste credenza viaggiarono fino in Giappone, trovarono un terreno fertile e si fusero con una tradizione buddista già esistente e potentissima: l’Obon, la festa per onorare gli spiriti degli antenati. Il periodo coincideva, e così il concetto di offerta di espansione. Non si faceva più solo l’offerta per chiedere il perdono divino, ma anche agli altari di famiglia, le kyōshoku, per accogliere le anime dei propri cari di ritorno per qualche giorno nel mondo dei vivi. Queste offerte, che consistevano in cibi e bevande, dopo essere state presentate agli spiriti, venivano consumate e condivise tra i membri della famiglia e con i vicini. Il gesto si stava già trasformando: da atto puramente religioso a pratica comunitaria, un modo per rafforzare i legami attraverso la condivisione e la gratitudine.

    Furono proprio i mercanti, con il loro acuto intuito, a trasformare questa tradizione. Iniziarono ad inviare doni ai loro clienti più importanti durante il periodo estivo, sovrapponendo un’astuta pratica commerciale al profondo significato di gratitudine dell’ Obon. Il loro messaggio era chiaro: “grazie per gli affari conclusi nella prima metà dell’anno, continuiamo a prosperare insieme”. La coincidenza temporale tra le offerte religiose e questa nuova usanza commerciale fu così forte che le due pratiche si fusero. Lentamente, la parola stessa – chūgen – si spogliò del suo significato puramente calendariale per vestire quello dell’atto stesso del donare.

    Tuttavia, la vera espansione dell’ochūgen come consuetudine nazionale avvenne con l’era Meiji (1869-1912). La modernizzazione del Giappone agì da catalizzatore: la popolazione si concentrò nelle grandi città, allargando a dismisura le cerchie sociali, e l’industrializzazione permetteva per la prima volta la commercializzazione di massa dei regali. L’impatto decisivo venne però dai grandi magazzini, sorti uno dopo l’altro nel boom economico seguito alle guerre sino-giapponese e russo-giapponese. Con le loro imponenti campagne pubblicitarie su giornali e riviste, non solo vendettero prodotti e shōhin-kitte (gli antenati dei buoni regalo), ma radicarono il gesto nella cultura urbana.

    In una società che abbandona le certezze del villaggio per l’anonimato della città, le antiche regole sociali non bastavano più. La gente aveva perso i propri punti di riferimento su cosa fosse appropriato fare. I grandi magazzini colmarono questo vuoto, diventando una sorta di arbitri del buon gusto, le cui proposte funzionavano come guida sicura su cosa, come e a chi donare. Fu così che il gesto su consolidò in un’etichetta sociale indispensabile, un modo per mantenere buone relazioni non solo negli affari, ma anche nella vita privata, esprimendo riconoscenza verso maestri, medici o chiunque ci avesse aiutato in un momento di difficoltà.

    Ed eccomi qui, secoli dopo, un impiegato straniero in un Giappone moderno, che partecipa allo stesso identico rituale. La scelta del regalo è carica di significati. Una confezione di sōmen, i sottili spaghetti di grano da mangiare freddi, non è solo cibo, ma un augurio di freschezza durante la calda e umida estate giapponese. Una confezione di birra è un invito alla convivialità da condividere con la famiglia o i colleghi. Ogni articolo nel catalogo è pensato per essere pratico, di qualità e condivisibile, un’eco diretta di quelle antiche offerte che venivano distribuite nella comunità.

    Domani andrò dal mio primo cliente della lista. Avrò con me un pacco elegante avvolto, con la tradizionale carta noshi che indica un dono formale. E mentre porgerò quel pacco con un leggero inchino, non starò semplicemente consegnando un prodotto. Sarò l’ultimo anello di una catena secolare, un messaggero che porta con sé un sentimento di antica gratitudine, nato da miti taoisti e riti buddisti e levigato dall’uso sociale di generazioni di mercanti e gente comune. In quel momento, il gesto cesserà di essere un dovere lavorativo e diventerà una piccola, personale comprensione di cosa significhi davvero far parte di questa cultura: mantenere l’armonia, onorare i legami e non dare mai nulla per scontato.

  • L’anima del Giappone in una notte di festa

    L’anima del Giappone in una notte di festa

    Immagina di camminare per le strade ordinate di una città giapponese, dove ogni gesto sembra misurato. Poi un giorno, l’aria cambia. Si sente un’eco profonda, un rimbombo che non viene dagli altoparlanti di un negozio, ma dal cuore pulsante di un taiko. Le lanterne di carta rossa si accendono lunghe le vie rubando la scena alle insegne dei negozi, e l’ordine lascia spazio a un’energia vibrante e gioiosa. Questo è l’inizio di un matsuri, un festival giapponese, un evento che è molto più di una semplice festa. È l’anima di una comunità che si risveglia. Per capire un matsuri, non bisogna pensare al carnevale o a una fiera di paese, ma a un filo invisibile che lega il Giappone tecnologico di oggi a un passato ancestrale fatto di risaie, spiriti della natura e gratitudine.

    Ogni matsuri nasce da una preghiera. Centinaia, a volte migliaia di anni fa, la vita dipendeva dal ritmo della terra. Si pregavano i kami, gli spiriti shintoisti che abitano in ogni albero, fiume e montagna, per chiedere un buon raccolto di riso, per ringraziare per la pioggia o per allontanare malattie e catastrofi. Il matsuri era questo: un dialogo diretto e collettivo con le forze della natura. Era un modo per dire “grazie”, “per favore, proteggici”. Ancora oggi, quando vedi un mikoshi ondeggiare pesantemente sulle spalle di dozzine di uomini e donne che sudano e urlano all’unisono “wasshoi! wasshoi!”, non stai guardando solo una sfilata mai stai assistendo al trasporto dello spirito divino attraverso il quartiere, un modo per benedire le case, i negozi e le persone. Il peso sulle spalle di quelle persone è il peso simbolico della comunità stessa, un fardello sacro che portano tutti assieme con orgoglio e fatica.

    E mentre il sacro sfila tra la folla, il profano lo celebra in un tripudio di sensi. L’aria umida della sera si riempie del profumo dolce e salato del cibo della bancarelle: spiedini di carne grigliata, polpette di polpo fumanti, soba saltati sulle piastre. Bambini in leggeri yukata corrono con in mano una mela caramellata, cercando di pescare pesciolini rossi con retini di carta fragilissimi. È in questo momento che vedi la fusione perfetta tra antico e moderno. Un ragazzo si sistema lo yukata mentre controlla lo smartphone, una bambina indossa una maschera di un personaggio dell’anime del momento accanto ad una maschera folkloristica. Il matsuri non è una rievocazione storica; è una tradizione viva, che respira e si adatta, accogliendo il presente senza mai dimenticare il passato.

    Forse, per un occidentale che assiste ad un matsuri, il significato più profondo è questo: il matsuri è il momento culminante in cui il “noi” prevale sull’ “io”. In una società spesso percepita come formale e dai contatti limitati, il festival è un’esplosione di gioia. È il vicino di casa che magari non saluti mai che ora solleva il mikoshi accanto a te. È il legame non scritto tra le generazioni, con i nonni che insegnano ai nipoti canti e ritmi tramandati negli anni. È il battito del cuore di un quartiere, un suono che ricorda a tutti che, nonostante i grattacieli e i treni proiettile, le radici sono ancora li, forti e profonde, nutrite dalla festa, dalle risate e dalla preghiera condivisa. È la prova che, almeno per qualche giorno, si può ancora fermare il tempo per onorare gli spiriti, la comunita e la semplice meravigliosa gioia di stare assieme.

  • Frammenti d’anima

    Frammenti d’anima

    11 Novembre 1939

    Caro Diario,

    Oggi è stata una giornata che mi ha riportato indietro nel tempo, in un modo inaspettato. Ho preso la mia fidata macchina fotografica e mi sono recato nella zona di Higasi-sonogi, poco distante da Sasebo, per incontrare un fornitore di fiducia che potesse produrre alcuni pezzi sostitutivi che le crescenti necessità belliche rendevano di difficile reperibilità attraverso i canali consueti. L’aria era fresca e il cielo terso, come solo il Giappone di questo periodo dell’anno sa essere, perfetto per scattare qualche foto lungo il tragitto, testimonianza di un paesaggio rurale che sembrava resistere immobile al turbinio dei tempi. 

    Una volta arrivato, ho discusso le mie esigenze con Maizuchi-san, il titolare dell’officina. Un uomo affidabile, con le mani segnate dal lavoro e gli occhi acuti di chi conosce il metallo e le sue forme. Dopo aver definito i dettagli, e aver notato la scarsità di certi materiali, un segno evidente delle restrizioni del conflitto in corso, ho chiesto il permesso di scattare qualche foto dell’officina, di quell’ambiente così autentico. Mentre mi muovevo tra gli attrezzi e i macchinari – alcuni dei quali sembrano risalire all’epoca Meiji, testimoni silenziosi di decenni di trasformazioni – cercando l’angolazione giusta, ho notato un omino, forse sulla sessantina, concentrato al tornio. Era l’immagine perfetta della dedizione artigianale. 

    Ho alzato la macchina fotografica, puntata su di lui, pronto a catturare l’istante. Ma proprio mentre stavo per scattare, un urlo improvviso ha lacerato l’aria. L’omino è balzato indietro, il contratto da una paura genuina, quasi ancestrale, e ha gridato: “Non fotografarmi! La fotografia mi ruberà una parte dell’anima!

    Sono rimasto pietrificato. Era un ricordo d’infanzia che riaffiorava, quella vecchia credenza popolare che si diceva fosse in voga ai tempi del Bakumatsu, o forse anche prima, quando le prime tecniche fotografiche giunsero in Giappone, portate dagli stranieri, circondate da un’aura quasi magica e inquietante. “Se ti fanno una foto, ti rubano una parte della tua anima”, “tamashii o nukerareru”, dicevano. L’avevo sentita per la prima volta dalla mia maestra, che l’aveva liquidata in fretta come una superstizione ingenua e di un’epoca passata, spiegandoci come il disagio venisse dalla lunga immobilità richiesta dalla prima tecnologia importata nel paese, e forse anche dalla novita sconvolgente di vedersi ritratti con una precisione che nessuna pittura tradizionale aveva mai offerto. 

    Credevo, nella mia ingenuità, che con la diffusione delle macchine fotografiche avvenuta durante il tardo periodo Taishō e l’inizio di questo Shōwa e con la sempre più diffusa presenza di fotografi ambulanti e l’apertura di molte case di ritratto nelle grande città, che una simile credenza fosse ormai svanita, relegata nei racconti dei nonni. Eppure, lì, in quella piccola officina, in un angolo nascosto di questa penisola, era vivida e terrificante per quell’uomo, che forse aveva vissuto la sua giovinezza in un’epoca in cui il Giappone si apriva al mondo esterno con un misto di fascinazione e timore. 

    È una peculiarità cosi…giapponese. Questo paese in piena corsa per la modernizzazione – iniziata con lo slogan fukoku kyōhei – “paese ricco, esercito forte” – dell’era Meiji e ora tragicamente orientata allo sforzo bellico – che costruisce ferrovie e fabbriche imponenti, che vara navi da guerra poderose e si lancia in conflitti di scala epocale come quello in corso sul continente asiatico, e poi ci sono ancora queste sacche di resistenza, queste profonde, quasi viscerali, incapacità o desideri che dir si volgia, di non cedere il passo, o almeno non completamente, alla modernità. Sembra quasi che una parte di loro si aggrappi disperatamente a ciò che era, a un mondo di certezze più modeste ma forse più umane, per paura di ciò che il progresso, con la sua logica ferrea e talvolta disumanizzante, potrebbe rubare loro. Non un’anima in una foto, ma qualcosa di più profondo, forse l’anima stessa del Giappone, quella che affonda le radici nello shintoismo, nell’animismo e nel rispetto del particolare.  

    Sono rientrato a casa che era già buio, sfiancato dal viaggio. I trasporti nelle campagne giapponesi, nonostante i proclami di efficienza nazionale, sono ancora un odissea, ho dovuto camminare parecchio sotto il sole tagliente ma pur sempre gelido di novembre. Una volta a casa, ho sviluppato la pellicola, con quella strana sensazione di aver compiuto quasi un furto. E lì, tra i negativi, c’era la foto di quell’uomo. Sono riuscito a strappargli quello scatto fugace prima che mi assalisse, terrorizzato dalla macchina fotografica. Ho guardato il suo volto rugoso, segnato dalle fatiche di una vita intera, e ho notato una semplicità disarmante, una dignità che non aveva bisogno di sovrastrutture. Una semplicità che, forse, questo paese, con i suoi discorsi sulla “Grande Asia Orientale” e il sacrificio per l’Imperatore, sta perdendo. 

    In questa rincorsa forsennata al progresso, in questo cammino verso il futuro che, a volte, mi sembra cupo e incerto, soprattutto con le notizie che giungono dal fronte e le crescenti privazioni, mi chiedo cosa stiamo sacrificando veramente. Forse l’anima del Giappone, in effetti, non viene rubata da uno scatto di macchina fotografica, ma da qualcos’altro che noi stessi, collettivamente, stiamo scegliendo, o ci stanno facendo scegliere. 


    Contesto storico

    In questa pagina di diario, pur essendo anch’essa incastonata in un preciso momento storico – il Giappone del 1939 sull’orlo di un conflitto epocale – ho cercato di trascendere la cronaca degli eventi per toccare una corda ben più profonda e universale: la frattura insanabile tra modernità e tradizione. Ho scelto di non soffermarmi per un momento sulla geopolitica, ma di utilizzare un episodio apparentemente semplice come metafora per svelare una dicotomia che lacerava l’anima del paese in quel determinato momento storico.  

    Ho cercato di enfatizzare questa coesistenza stridente. Da un lato, c’è il Giappone proiettato verso il futuro: il protagonista con la sua macchina fotografica, simbolo di progresso tecnico e di un nuovo modo di vedere il mondo; la necessità dei pezzi meccanici per sostenere lo sforzo bellico; la menzione delle ferrovie, delle fabbriche e delle grandi navi da guerra. È il Giappone della logica, dell’acciaio, dell’efficienza nazionale e dell’ambizione imperiale incarnata nello slogan “fukoku kyōhei “.

    Dall’altro emerge un Giappone quasi ancestrale, quasi immutabile. l’urlo di terrore dell’anziano operaio non è un semplice capriccio, ma l’eco di una credenza antica, una paura quasi viscerale che la tecnologia possa “rubare l’anima”. Quest’uomo, segnato dal lavoro e la sua fede radicata in un mondo ancora animista, rappresenta le sacche di resistenza di un Giappone che si aggrappa alla propria essenza spirituale di fronte all’avanzata omologante del progresso. 

    Inizialmente avevo pensato di ambientare questa pagina di diario lungo una strada della città, ma poi ho pensato che il palcoscenico perfetto per questo “dramma” interiore poteva essere meglio rappresentato da un’officina. I macchinari moderni convivono con attrezzi dell’era Meiji, il rumore del tornio di fonde con il silenzio e la calma del paesaggio rurale. È qui che il protagonista comprende come la vera minaccia all’anima del Giappone non proviene dall’obiettivo di una macchina fotografica, ma da una forza ben più grande e impersonale: la marcia inesorabile di una modernizzazione che, inseguendo la potenza, rischia di smarrire la propria umanità e il rispetto per l’individuo. 

    In questo senso, il “frammento d’anima” del titolo non è solo quello che l’aziano lavoratore teme di perdere, ma anche l’anima stessa del Giappone, colta nel momento della sua frammentazione. Il protagonista rimane con un dubbio inquietante: forse la vera anima non viene rubata, ma sacrificata sull’altare di un futuro che, come si intuisce, si preannuncia cupo e incerto. 

  • Un bicchiere di shōchū e l’anima inquieta del Giappone

    Un bicchiere di shōchū e l’anima inquieta del Giappone

    15 Maggio, 1939

    Caro Diario,

    L’aria greve di questo maggio qui a Sasebo si mescola al fumo denso della piccola shokudō di quartiere. Le risate degli altri avventori e il tintinnio dei bicchieri riempiono a tratti il locale, ma stasera sembrano quasi distanti, un sottofondo a una tensione che sento crescere. Sono qui a Sasebo, per supervisionare alcuni aspetti tecnici legati al varo delle nuove unità per la Marina Imperiale. Di fronte a me siede Minomori-san, vecchio amico e ingegnere navale. La sua fronte è solcata da rughe che non ricordavo così profonde, mentre sorseggia il suo shōchū. Anni sono trascorsi dall’ultima volta che ci siamo visti con questa calma, eppure il nostro legame sembra immutato. Come ai vecchi tempi, da quando i miei incarichi mi portano in questa citta fortezza della Marina Imperiale, ci troviamo spesso a conversare, ma stasera il discorso ha preso una piega che mi lascia pensieroso, quasi inquieto. 

    “Sai,” esordisce Minomori-san, la voce più bassa del solito, quasi un sussurro carico di un peso che fatica a scrollarsi di dosso, “questi sono tempi…difficili da decifrare, non trovi? il paese cambia a una velocità che mi sconcerta. E questo kokka Shintō, lo Shintō di stato…ahimè, è diventato una forza che travolge ogni cosa, e non sempre in modi che mi convincono.” Abbassa lo sguardo, quasi a cercare le parole giuste nel fondo del suo bicchiere vuoto. 

    “Sì, lo percepisco ovunque,” rispondo, masticando lentamente una fetta di daikon marinato. La sua presenza è palpabile, nelle scuole, nelle cerimonie, nei discorsi ufficiali. “Ma cosa c’è realmente dietro a questa imponente spinta? Al di là del patriottismo, della lealtà quasi febbrile verso l’Imperatore…” lascio la frase in sospeso, intuendo che la sua risposta non sarà di circostanza.

    Minomori-san si versa dell’altro shōchū, un gesto lento, quasi meditato. I suoi occhi, solitamente vivaci, sembrano velati da un’ombra. “È una domanda che mi pongo spesso, amico mio. E la risposta è complessa, forse scomoda. Ma se vuoi tentare di capire le radici di ciò che vedi, devi fare i conti con un nome: Hirata Atsutane.”

    Annuisco. “Il nome mi è familiare. Uno dei “Quattro grandi del Kokugaku”, se non erro?”. Ho letto qualcosa sui suoi studi, sulla sua influenza. 

    “Proprio lui,” conferma con mezzo sorriso amaro. “Un intelletto formidabile, non c’è dubbio. Un uomo che ha voluto scavare fino a quella che credeva essere l’anima più recondita, l’essenza primigenia del Giappone. Ha tentato, con una foga quasi ossessiva, di “purificare” lo Shintō da quelle che considerava incrostazioni, le influenze buddiste e confuciane accumulate nei secoli. Voleva riportare alla luce la “via degli antichi Dèi”, le nostre credenze originarie. Un’intenzione nobile, forse, ma…” lascia la frase sospesa, e il silenzio è eloquente.

    Mi porge il tokkuri, e mentre il mio bicchiere si riempie, continua con una voce ancora più sommessa, quasi guardandosi intorno: “Atsutane non era il solito filologo, un erudito come altri. Era, nel profondo, un teologo, un costruttore di sistemi. La sua visione dello yūmeikai, dell’aldila…non e un luogo di terrore, come potete immaginarlo voi occidentali, ma un mondo che si sovrappone al nostro, quasi ne fosse il doppio invisibile, l’altra faccia di una moneta. E l’aspetto cruciale, quello che oggi viene tanto…enfatizzato…e che non sarebbe un luogo di impurità. Niente kegare, dimentica quel concetto rituale. Anzi, per lui, quello era il vero mondo, eterno, infinito, mentre il nostro, questo su cui poggiamo i piedi, sarebbe solo un passaggio effimero.”

    Un brivido sottile mi corre lungo la schiena, nonostante il calore del locale e dello shōchū. Ricordo alcuni passaggi dei testi che ho consultato. “Quindi, secondo questa visione, i nostri cari defunti…non sarebbero realmente scomparsi?”

    Minomori-san annuisce lentamente, il suo sguardo fisso nel vuoto. “Così dicono. Ed è su questa leva emotiva, amico mio, che lo Shintō di stato fa presa con la forza. L’idea che gli spiriti degli antenati, di coloro che abbiamo amato e perduto, non siano irrimediabilmente lontani. Che siano ancora qui, “dall’altra parte del velo”, come dicono. Non svaniti, ma viventi, in una forma diversa, che coesiste con la nostra”. 

    Beve un altro sorso, il volto contratto in un’espressione indecifrabile. “Pensa un attimo al sollievo che un simile pensiero può infondere, specialmente di questi tempi, con tanti giovani al fronte”. La sua voce si incrina leggermente. “Sapere, o credere, o essere portati a credere, che il loro spirito non si dissolva nel nulla, ma resti a vegliare…è un conforto potente. Atsutane ha fornito una cornice, una sorta di logica a tutto questo. Ha cercato di definire dove e come gli spiriti dimorino, nel tentativo di rendere lo Shintō una dottrina che offrisse “serenità dopo la morte”. Una serenità che, temo, oggi viene usata per altri scopi.”

    “È…inquietante quanto questa idea stia riemergendo con tanta forza proprio ora”, commento, riflettendo sulla sete di unità e di certezza che sembra pervadere il paese in questo clima di crescente tensione internazionale. “Sembra quasi che le sue teorie siano state dissepolte a lucidate a nuovo, per servire uno scopo preciso”. 

    “Altroché!” la mano di Minomori-san si stringe attorno al bicchiere. “Perché non si tratta solo di teologia, capisci? Atsutane, nel suo fervore nazionalistico, proclamò anche la superiorità intrinseca del Giappone, terra degli dei, e la natura divina del nostro Imperatore. Questa enfasi sulla discendenza diretta dalla dea Amaterasu… è diventata la colonna portante, la giustificazione ultima dell’ideologia del kokka Shintō. La lealtà verso il Trono, il patriottismo, non sono più solo doveri civici, ma atti di fede, un vincolo quasi sacrale.”

    Si china leggermente verso di me, abbassando ulteriormente la voce, nonostante il rumore circostante. “E poi c’è l’aspetto più spinoso. Quello nazionalistico, intendo. Atsutane era un patriota, non c’è dubbio, ma anche profondamente avverso agli stranieri . Le sue idee hanno gettato le basi per quel sonnō jōi – Riverire l’Imperatore, espellere i barbari – che infiammò gli animi alla fine del periodo Tokugawa. E quel “espellere i barbari”… beh, non devo certo spiegare a chi si riferisse.” Un’occhiata eloquente nella mia direzione. “Ora, quello spirito, quella chiusura, quella presunzione di superiorità, sta tornando. Ma non è più come uno slogan che univa samurai ribelli; oggi è organizzato, inculcato, è…dottrina di Stato. E questo amico mio, mi spaventa.”

    Guardo il mio bicchiere, ora vuoto. “Quindi, la rotta che il paese sta seguendo…affonda le sue radici molto più in profondità di quanto un osservatore esterno possa cogliere.

    Minomori-san continua: “È una rotta intrapresa, e le idee di Atsutane, o meglio, l’interpretazione che se ne fa oggi, sono un vento potente che gonfia le vele della propaganda. Ma ho il terrore che questo vento ci stia spingendo verso una tempesta da cui sarà difficile uscire indenni. Il kokka Shintō non è solo un’impalcatura politica; sta cercando di plasmare l’anima stessa della nostra gente, il modo di concepire la vita, la morte, il nostro ruolo nel mondo. Offre una presunta tranquillità, la promessa che non siamo soli, che i nostri antenati vegliano. E di questi tempi, credimi “il suo sguardo si fa sempre più intenso,” molti sono disposti ad aggrapparsi a qualunque cosa pur di avere questa illusione.”

    Mando giù l’ultimo sorso di shōchū. Il suo calore si diffonde, ma non riesce a scacciare un freddo interiore. Mi chiedo, osservando il volto tirato del mio amico, se in questo mondo in ebollizione, la promessa di un “dopo” così tangibile e rassicurante, così intimamente legato al destino della nazione, non possa davvero condurre a una cieca dedizione, a un sacrificio totale sull’altare di un ideale sempre più opprimente. Il sapore dello shōchū mi sembra improvvisamente più amaro. 

    Contesto storico

    Giappone tra restaurazione e nazionalismo

    La pagina di diario che ho scritto ci trasporta ancora una volta nel 1939, un periodo cruciale per il Giappone, che si trovava sull’orlo di un conflitto mondiale. In quegli anni, il paese era percorso da un forte nazionalismo e da una lealtà quasi assoluta all’Imperatore. Questo clima era alimentato da un’ideologia conosciuta come kokka shintō (国家神道), lo shintō di stato, che elevava la “religione” tradizionale giapponese al rango di dottrina ufficiale dello Stato.

    Per capire una delle tante radici di questo fenomeno, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, precisamente alla fine del periodo Tokugawa e all’inizio dell’era Meiji (1868-1912). Per oltre due secoli e mezzo, il Giappone era stato un paese isolato, governato da uno shogunato militare che manteneva l’Imperatore in una posizione di prestigio, ma senza alcun potere effettivo.

    La restaurazione Meiji e il ritorno dell’Imperatore

    Verso la metà del XIX secolo, l’apertura forzata del Giappone all’Occidente e le crescenti pressioni interne portarono alla Restaurazione Meiji. Questo evento segnò la fine dello shogunato e il ritorno dell’Imperatore al centro della vita politica e spirituale del paese. La nuova leadership Meiji cercò di modernizzare il Giappone a ritmi serrati, ma anche di rafforzare nello stesso tempo l’identità nazionale e la coesione sociale. Fu in questo contesto che lo shintō iniziò a essere strumentalizzato per sostenere l’ideologia imperiale. 

    Hirata Atsutane: le radici del nazionalismo shintoista

    È qui che entra in gioco la figura di Hirata Atsutane (1776-1843). Nonostante fosse vissuto prima della Restaurazione Meiji, le sue idee ebbero un influenza enorme sul nazionalismo giapponese e sullo shintō di stato (assieme alla corrente di pensiero e studi storici portati avanti dalla Mitogaku (水戸学), “la scuola di Mito”). Atsutane fu uno dei maggiori esponenti del Kokugaku (国学), una scuola di pensiero che si proponeva di riscoprire e “purificare” l’autentica cultura e spiritualità giapponese, liberandola dalle influenze buddiste e cinesi.

    Atsutane, in particolare, si dedicò allo studio dello shintō, interpretandolo come la vera “religione” originaria del Giappone. Le sue teorie furono considerate rivoluzionarie per quel periodo. 

    “Suprematismo giapponese”: Atsutane sosteneva la “superiorità intrinseca del Giappone” come “terra degli dei”, e la natura divina dell’imperatore, discendente diretto della dea del sole Amaterasu. Questa idea divenne la pietra angolare dell’ideologia imperiale.

    Concetto di aldilà: lo yūmeikai. Contrariamente alle visioni più diffuse all’epoca, influenzate dal buddismo, Atsutane sviluppo un’idea di aldilà, chiamato appunto yūmeikai, come un mondo che coesisteva con il nostro, non un luogo lontano e spaventoso, ma una sorta di altra dimensione in cui gli spiriti degli antenati continuano a vegliare sui vivi. Questa visione offriva conforto e un forte senso di continuità, specialmente in un periodo di guerre e sacrifici.

    Sonnō jōi: le sue idee contribuirono a gettare le basi del movimento sonnō jōi – “riverire l’imperatore, espellere i barbari” – che infiammò gli animi alla fine del periodo Tokugawa e portò al diffondersi di un forte sentimento anti-occidentale. 

    Le teorie di Atsutane, pur nate in un contesto diverso, furono anch’esse interpretate e utilizzate a posteriori per giustificare lo shintō di stato. La sua enfasi sulla natura divina dell’Imperatore, sulla superiorità del Giappone e sulla costante presenza degli spiriti ancestrali, venne sapientemente impiegata per infondere un senso di lealtà sacra, patriottismo e sacrificio nel popolo giapponese, spingendo il paese verso la strada che avrebbe portato ai conflitti del XX secolo.

  • Il cuore del Giappone che si oscura

    Il cuore del Giappone che si oscura

    22 Aprile, 1939

    Caro diario,

    Sono trascorsi quindici lunghi anni dal mio arrivo in Giappone, e devo ammettere che il paese oggi è quasi irriconoscibile. La serenità che un tempo pervadeva ogni angolo, l’arte e le tradizioni che tanto ammiravo, sembrano essere soffocate da una cappa di fervore quasi ossessivo. Ricordo un Giappone che si apriva al mondo con curiosità, ma quello che vedo ora è un paese che si stringe su se stesso, spinto da una forza che non riesco a comprendere appieno. E oggi, in particolare, ho avuto un incontro con le Aikoku Fujinkai, l’associazione patriottica delle donne, o qualcosa di simile, che ha accentuato questa mia preoccupazione. Minomori-san ci teneva particolarmente che le incontrassi.

    Le avevo sentite nominare anche prima, ma il loro ruolo e la loro presenza sono ora amplificati a dismisura. Mi hanno spiegato che furono fondate all’inizio del secolo, nel 1901, da una donna di nome Okumura Ioko, con il sostegno diretto del governo e dell’esercito. All’epoca, il loro scopo primario era nobile, o almeno così appariva: fornire conforto ai soldati feriti e alle loro famiglie, rafforzando lo spirito nazionale. Hanno iniziato reclutando donne dell’alta società, ma ora, mio caro diario, sono ovunque! Mi dicono che si contano milioni di membri, e non solo nelle grandi città, ma anche nei villaggi più sperduti, dove le donne si uniscono con un fervore quasi religioso, una dedizione che rasenta il fanatismo. 

    Ciò che mi ha colpito di più è la loro organizzazione capillare e impeccabile e il loro simbolo distintivo. Indossano una fascia rossa, quella che i giapponesi chiamano tasuki, una sorta di fascia che incrocia la schiena, che normalmente viene indossata per tenere su le larghe maniche degli abiti tradizionali o dei kimono. La loro leader della sezione di Sasebo mi ha spiegato che il modo in cui indossano questo tasuki è intenzionale: in una direzione specifica per distinguersi da un altra grande organizzazione femminile, la Dai Nihon Kokubō Fujinkai. Questo piccolo dettaglio, mi dicono, serve a ribadire la loro identità e il loro ruolo unico nel tessuto sociale. E una sottile distinzione che, tuttavia, rivela un’attenzione quasi militare alla disciplina e all’ordine. Le vedi muoversi con una precisione quasi militare, coordinate, un fiume rosso che attraversa le strade. 

    Il legame tra queste donne e l’esercito è palpabile, quasi viscerale. Sembrano essere il braccio femminile di un militarismo crescente, la loro azione infonde un profondo senso di devozione allo stato e all’Imperatore. Non è più solo il vecchio shintoismo, la via degli dei della natura, ma uno “Shintō di stato” che ha quasi preso il sopravvento, dove l’Imperatore è al centro di tutto, venerato quasi come una divinità. Le Aikoku fujinkai sono una dei tanti veicoli per questa nuova fede, diffondendo il patriottismo, la disciplina, l’idea del sacrificio personale per la nazione. Le vedi raccogliere fondi incessantemente, preparare pacchi per i soldati al fronte in Cina, cucire uniformi, anche in zone rurali dove la vita è già dura di per sé. Sembrano instancabili, animate da una convinzione incrollabile che il loro lavoro sia fondamentale per la vittoria e la grandezza del Giappone.

    Eppure, sotto questa superficie di dedizione e organizzazione, percepisco qualcosa di profondamente inquietante. Ho sentito sussurri, storie che mi turbano. Le loro azioni, sebbene presentate come patriottiche, a volte sfociano in un fanatismo che mi fa quasi rabbrividire. Mi chiedo fino a che punto questo spirito di sacrificio possa spingersi, specialmente ora che il paese ha invaso la Cina. Mi hanno raccontato come la loro influenza si sia spesso estesa ben oltre il supporto morale, arrivando a promuovere una cultura di “sottomissione” femminile al volere dello Stato. La loro promozione di un nazionalismo estremo, e il loro silenzio, o forse anche la loro adesione, a pratiche sempre più disumane, mi fa riflettere. Non posso fare a mano di pensare alle voci che circolano sulle donne dei territori invasi che, in nome dello sforzo bellico, sono costrette a subire trattamenti orribili. Queste associazioni, pur non essendo coinvolte, con la loro enfasi sul sacrificio femminile per la nazione, hanno creato un terreno fertile per l’accettazione di tali abusi. E come se quella fascia rossa, simbolo di devozione, nascondesse anche un’ombra oscura, un lato di questo “nuovo” Giappone che mi riempie di un profondo senso di disagio. 

    Questo paese, caro diario, è un enigma. È moderno, potente, eppure sta imboccando una strada che mi sembra pericolosa, allontanandosi dalle serenità che una volta conoscevo. Le donne delle Aikoku Fujinkai consapevoli o meno, ne sono un simbolo potente, un riflesso del Giappone che e del Giappone che temo diventerà.

    Contesto storico

    Con questo brano ho cercato di cristallizzare uno dei tanti frangenti cruciali disseminati nella storia giapponese del periodo pre-bellico: gli anni ‘30, un decennio contraddistinto da un’escalation del militarismo e del nazionalismo, che avrebbe condotto il paese all’espansione in Asia e, infine, al secondo conflitto mondiale.

    Sulla scia della Restaurazione Meiji del 1868, il Giappone aveva intrapreso una rapida modernizzazione e industrializzazione, affermandosi come potenza regionale. Tuttavia, l’impatto devastante della grande depressione del 1929 esacerbo le tensioni sociali e l’instabilità politica interna. Fu in questo clima che le gerarchie militari consolidarono progressivamente la propria influenza sul governo, propugnando un’ideologia imperniata su l’espansionismo territoriale, volta ad assicurare risorse, e sulla presunta superiorità culturale nipponica. 

    Lo “shintoismo di stato”, di cui faccio cenno nel diario, costituiva un pilastro di tale architettura ideologica. Trascendendo la sua natura di semplice “fede religiosa”, esso si configurava come un sistema di credenza che deificava la figura imperiale, esigendo lealtà incondizionata alla nazione e alla sua vocazione espansionistica. Questa forma di nazionalismo radicale veniva instillata capillarmente nella popolazione tramite il sistema educativo, la propaganda martellante e organizzazioni di massa quali l’Aikoku Fujinkai (愛国婦人会), “associazione patriottica delle donne”, e la Dai Nippon Kokubō Fujinkai (大日本国防婦人会), “grande associazione femminile per la difesa nazionale del Giappone”.

     Queste due associazioni, nel 1942, confluirono assiema alla Dai Nippon Rengō Fujinkai (大日本連合婦人会), nella Dai Nippon Fujinkai (大日本婦人会). I motivi principali di questa unificazione erano strettamente legati alla mobilitazione totale del Giappone e alla necessità del governo giapponese di centralizzare il controllo e massimizzare l’efficienza della gestione delle risorse e del consenso popolare in questo delicato periodo.

    Tali associazioni femminili, nate con finalità caritatevoli, subirono una progressiva “militarizzazione”, venendo strumentalizzate dal governo per mobilitare il sostegno femminile allo sforzo bellico. Il loro contributo divenne cruciale nel sostenere il morale interno, nella raccolta fondi, nella preparazione di materiali per i combattenti e nella capillare promozione dei valori di sacrificio e obbedienza. L’immagine del “cuore del Giappone che si oscura” è voluta per evocare la cupa trasformazione di una società che, sospinta dal cieco fervore militarista, si avviava inesorabilmente verso la guerra totale, un baratro che avrebbe inghiottito il paese e causato sofferenze indicibili a milioni di individui in tutta l’Asia.

  • Kyūbi

    Kyūbi

    Ah, il freddo. Un freddo che non sentivo da mille anni, da quando ero solo una cucciola dal pelo fulvo, rannicchiata contro mia madre nella tana gelida. Ma questo è diverso. Questo è il freddo del ferro che mi morde le carni, due frecce maledette, piantate nel mio fianco, nel mio collo. Il mio sangue, un tempo nettare che faceva impazzire anche gli imperatori, ora cola denso su questa terra di Nasu, questa piana che sarà la mia tomba…o forse no. 

    La vita…un lampo beffardo che mi attraversa la mente ormai annebbiata dalla morte imminente. Vedo foreste sterminate, notte illuminate solo dalla luna e dai miei stessi occhi, che già allora brillavano di un’intelligenza ferina. Ero volpe, sì, ma sentivo crescere in me qualcosa di più. Ogni coda che spuntava era un sigillo di potere, anni di astuzia distillata, di sopravvivenza trasformata in arte pura. Nove code. Kyūbi no kitsune. Un nome che faceva tremare la natura stessa e ammutolire gli altri spiriti minori. 

    Per secoli ho vagato, imparando le lingue degli uomini, i loro desideri, le loro paure. Ah, le loro paure! Così facili da manipolare. Li osservavo nascosta tra le ombre, affinando la mia capacità di mutare forma. Un mercante facoltoso qui, un danzatrice là, ogni maschera che indossavo era un passo più vicino al cuore del potere. Perché era quello che bramavo, più dell’aria, più del sangue caldo delle mie prede. Il potere di plasmare il mondo, di vedere gli imperi tremare al mio passaggio. 

    E poi arrivai in queste isole. Il Giappone, o terra di Yamato. Un gioiello grezzo, pronto per essere incastonato nella mia corona. Scelsi la corte dell’Imperatore Toba. Un uomo…uno come tanti, debole di fronte alla bellezza, affamato di lusinghe. Mi presentai come Tamamo no Mae, un gioiello luminoso. E risplendevo, eccome se risplendevo! La mia pelle era più liscia della seta più pregiata, i miei capelli più neri dell’ala di un corvo, i miei occhi promettevano paradisi e inferni con un solo sguardo.

    La corte cadde a miei piedi. L’Imperatore…ah, l’Imperatore era mio. Ogni sua parola, ogni suo respiro era per me. Lo avvolsi nelle mie spire, sussurrandogli sogni di grandezza che erano, invero, i miei. Il suo corpo si consumava, la sua forza vitale fluiva in me, alimentando il mio potere, avvicinandomi sempre di più al trono. Credevo di averli ingannati tutti, quegli sciocchi pomposi e le loro dame ingioiellate. 

    Ma c’era lui, Abe no Yasuchika. Un Astrologo, un onmyōji con occhi che vedevano oltre il velo. Sentivo il suo sguardo su di me, inquisitore, freddo. Ha iniziato a tessere la sua tela, a bisbigliare sospetti. La malattia dell’imperatore, diceva, non era naturale. E poi, il rituale. Le preghiere che mi colpivano come lame. La maschera umana si sgretola, rivelando la mia magnifica, terrificante verità: la volpe a nove code, uno spirito antico, un terribile yōkai.

    Fuggii. La paura negli occhi dei cortigiani era una vista deliziosa, ma la caccia era iniziata. Kazusa, Miura…nomi che rimarranno per l’eternità. Mi braccarono come una bestia qualunque. Io, che avevo tenuto un impero nel palmo della mia mano! La battaglia fu epica, qui in queste pianure di Nasu. La mia magia contro le loro armi consacrate. Erano forti e la loro fede li rendeva molto forti. Riuscì a far perdere le mie tracce, ma qualche giorno dopo mi trovarono. E poi, le frecce. Queste frecce.

    Il mio corpo si contorce, si trasforma un’ultima volta. Non in cenere, no. In pietra. La chiamate sesshō-seki, la pietra assassina. Il mio odio, la mia malvagità, la mia essenza immortale fuse nella roccia, emanando un miasma letale per chiunque osasse avvicinarsi. Per secoli sono rimasta lì, in prigione. Ho sentito i sussurri dei viaggiatori, le leggende crescono intorno al mio nome. Tamamo no Mae, uno dei tre yōkai più terribili del Giappone. Si, temetemi! pensavo.

    Il tempo scorreva come un fiume lento, ma il mio spirito non dormiva. Ascoltavo. Il mondo cambiava, le dinastie cadevano, nuove paure nascevano. Sentivo la pietra erodersi, il vento sferzarla, il gelo incrinare la sua superficie. E poi, un giorno, un suono diverso. Non il lamento del vento, non il grido di un animale sfortunato. Un suono secco, definitivo. CRACK.

    La sesshō-seki si è spezzata.

    Un fremito percorre ciò che resta di me, un’energia antica che si risveglia. Le frecce…il dolore sta svanendo, sostituito da una fame primordiale. Una fame di vita, di potere, di…vendetta? No, la vendetta è un qualcosa che appartiene a voi mortali. Io bramo di più. 

    Sento i vostri discorsi, anche ora, nel mondo moderno. Parlano di spiriti maligni liberati, di presagi. Che ingenui. Non sanno cosa li aspetta. Il mio spirito, a lungo rinchiuso e compresso all’interno di questa pietra, ora si espande, libero da quella fredda prigione. Il mio spirito si libera. Il mondo ha dimenticato il vero significato della bellezza che cela l’inganno, della saggezza che nasconde il pericolo.

    Forse è tempo che Tamamo no Mae torni a insegnarlo agli uomini. Le frecce…non erano la fine ma solo un nuovo, eccitante inizio. E questa volta…questa volta, sarò più attenta a chi scruta oltre il velo. Il Giappone…il mondo…un palcoscenico più vasto. E io ho ancora fame.


    Il racconto in prima persona che ho scritto per questo post ci immerge direttamente nella leggenda di Tamamo no Mae, culminante nella sua trasformazione nella pietra assassina e nel presagio di un suo inquietante ritorno. Ma la sua storia, così come ci è stata tramandata, affonda le sue radici in una tradizione narrativa ben più antica, gli otogizōshi – racconti popolari di periodo Muromachi (1363-1573) – e in altre forme successive di teatro Nō, bunraku e kabuki. Anche se esistono varie versioni di questa storia (con protagonisti diversi), gli otogizōshi hanno arricchito la narrazione cristallizzando l’immagine di Tamamo no Mae come “Nihon Sandai Aku Yōkai” – I tre terribili Yōkai del Giappone-.

    Le kitsune, le volpi, figure centrali nel folklore giapponese, incarnano una profonda dualità: sono venerate come messaggere della divinità Inari, apportatrici di prosperità e fortuna, ma allo stesso tempo temute per la loro astuzia e la capacità di ingannare. La loro abilità di trasformarsi, in particolare in donne affascinanti, o di possedere gli esseri umani, le rende simboli della fluidità tra il mondo animale e quello spirituale. Più code possiede una kitsune, maggiore è la sua potenza, fino alla volpe a nove code (kyūbi no kitsune), un’entità quasi divina e immensamente potente. Questa ambivalenza riflette la complessità della natura e delle forze invisibili che permeano la cultura giapponese, dove il sacro e il profano spesso si sovrappongono. 

    La superstizione della sesshō-seki, la pietra assassina, esemplifica questa fusione di mito e realtà. Si crede che questa roccia contenesse lo spirito maligno di Tamamo no Mae, la volpe protagonista del mio racconto. La sua rottura, nel marzo del 2022, e stata interpretata da molti non come un semplice evento geologico, ma come un presagio del ritorno dello spirito della volpe, a dimostrazione di come queste antiche credenze continuano spesso a influenzare la percezione della realtà e suscitare timore e meraviglia nelle societa contemporanea.

  • Io, William Adams

    Io, William Adams

    Ascoltate, e vi racconterò una storia a cui pochi pochi in Europa potrebbero credere. Una storia di mari in burrasca, di terre sconosciute e di un destino che mi ha trasformato da semplice marinaio inglese a samurai al servizio del più potente sovrano del Giappone. Il mio nome è William Adams. Ma qui, in questa terra remota, mi conoscono come Miura Anjin (三浦按針).

    Era l’anno del signore 1598 quando salpammo dall’Olanda. Non eravamo inglesi, non del tutto almeno. Ero pilota di una nave facente parte di un flotta finanziata da mercanti olandesi, uomini ambiziosi con un sogno audace: trovare una nuova rotta per il Giappone, una terra leggendaria di cui si favoleggiava da tempo, e di spezzare il monopolio che, portoghesi e spagnoli detenevano con artigli ferrei sul commercio con l’Oriente. Eravamo cinque navi, piene di speranza e uomini robusti. Poco più di un centinaio, se ben ricordo, a bordo della mia nave, la De Liefde, “L’amore”. Un nome ironico, a pensarci ora, vista la sofferenza che ci attendeva.

    Foto dell’autore. Modello della Lifdie conservato presso il muse dell’avamposto commmerciale di Hirado

    Il viaggio fu un inferno. Due anni. Due lunghi, estenuanti anni attraverso due oceani. Le tempeste sembravano voler inghiottirci ad ogni onda. Le malattie si propagavano tra i ponti come un fuoco invisibile, mietendo vite con una ferocia che i cannoni non potevano affrontare. E poi, la fame. Ricordo le facce scavate, gli sguardi vitrei, le ossa che spuntavano sotto la pelle. Una dopo l’altra, le nostre navi sorelle scomparvero, inghiottite dal mare o perse chissà dove. A bordo della De Liefde, delle oltre cento anime che erano partite, ne rimanevano appena una ventina, scheletri animati dalla pura ostinazione di sopravvivere. Il capitano…. il povero capitano non ce l’aveva fatta. Ero io, il pilota, l’uomo con la bussola e le carte nautiche (o almeno quello che ne restava), a tenere la rotta.

    Foto dell’autore scattata presso l’avamposto olandese di Hirado. La mappe riporta il viaggio della De Liefde

    Poi, finalmente, era l’aprile del 1600. Terra! Un grido debole ma pieno di disperazione e speranza risuonò tra noi. Una costa verdeggiante, diversa da qualsiasi cosa avessi mai visto. Ormeggiamo nella baia di Usuki, in un luogo che gli abitanti chiamavano Bungo. La nostra nave era una carcassa, l’equipaggio poco più che fantasmi. Per la gente del posto, l’arrivo della De Liefde fu una sorpresa. Non eravamo portoghesi, non spagnoli. La nostra nave aveva una forma strana ai loro occhi. Ci guardarono con stupore misto a paura e curiosità. La notizia del nostro arrivo corse veloce, come un lampo. 

    Il Giappone, scoprii presto, era un paese in fermento. Anni di guerre intestine, il periodo detto Sengoku, stavano volgendo al termine. Un uomo stava emergendo sopra tutti gli altri, un daimyō astuto e potente: Tokugawa Ieyasu. Stava stringendo le redini del potere, preparandosi a diventare shōgun e a forgiare una pace, anche se con la forza, che avrebbe cambiato per sempre il volto di questa nazione. E questo stesso Ieyasu, diffidente verso gli stranieri – specialmente nei confronti dei gesuiti portoghesi, che vedeva come pedine di potenza straniere – fu subito informato di quella nave “barbara” che era apparsa dal nulla.

    Il suo ordine fu rapido e diretto: la nave, il suo prezioso carico (cannoni, moschetti e altra merce che avevamo faticosamente conservato) e noi, i sopravvissuti, fummo posti sotto sequestro. Non fu,come capii poi, un atto di crudeltà, ma di pura cautela. In un paese percorso da intrighi e rivalità, non si poteva rischiare. Eravamo una variabile ignota, potenzialmente pericolosa agli occhi di Ieyasu.

    Fu allora che accadde l’impensabile. Tokugawa Ieyasu, incuriosito e sagace, volle vedere il pilota. Volle vedere me. Mi portarono al suo cospetto. Ricordo ancora quel momento, l’aria tesa, la sua figura imponente. Ero esausto, provato da due anni di stenti, ma il mio spirito non era spezzato. Attraverso l’aiuto di interpreti – e, ironia della sorte, il primo fu proprio un gesuita protoghese, un momento che sentii sulla mia pelle, carico di tensione e potenziale pericolo, dato il loro astio verso i protestanti come me – l’interrogatorio ebbe inizio. 

    Gli raccontai tutto. Del nostro lungo, terribile viaggio. Delle nazioni europee, delle loro guerre, della politica complessa che le legava e le divideva continuamente. E della religione. Spiegai la differenza tra la fede cattolica professata dai portoghesi e dagli spagnoli e la nostra, protestante. Vidi i suoi occhi acuti fissarmi mentre parlavo. Ieyasu non si fidava ciecamente dei gesuiti; capire le sfumature della cristianità, le divisioni al suo interno, era un’informazione che trovava di grande valore strategico.

    Ma ciò che lo colpì di più, ne sono certo, fu la mia conoscenza pratica. Conoscevo la navigazione, la matematica e l’astronomia. E, soprattutto, sapevo come si costruivano navi capaci di solcare i grandi oceani. Il Giappone aveva imbarcazioni eccellenti per la navigazione costiera, ma niente che potesse competere con i velieri europei. In me, Ieyasu vide non un semplice naufrago, ma una risorsa inestimabile. 

    Supplicai, implorai. Volevo tornare a casa. Volevo rivedere la mia Inghilterra, la mia famiglia. Chiesi di poter organizzare il nostro rientro, o almeno di riprendere il viaggio verso le Indie Orientali. Ma Ieyasu fu irremovibile. Ero troppo prezioso. Mi fu proibito di lasciare il Giappone. In cambio, mi fu offerta una nuova vita, una vita al suo servizio. 

    La De Liefde, la nostra vecchia e fedele compagna di viaggio, fu smantellata. I suoi cannoni, scoprii poi, furono usati nelle campagne militari di Ieyasu. Mentre la nave moriva, il suo pilota rinasce. William Adams cesso di esistere. Divenni Miura Anjin. “Anjin”, mi spiegarono, significava “pilota” in giapponese. “Miura” era il nome della penisola vicino a Edo dove Ieyasu mi concesse una tenuta. Non una capanna da servo, badate bene. Una tenuta con rendita e servitù. E qualcosa di ancora più incredibile: lo status di hatamoto, un samurai al servizio diretto dello shōgun. Mi fu concesso l’onore, il privilegio,di portare due spade. Io, un marinaio inglese, ero diventato il primo samurai occidentale. 

    La mia vita cambiò radicalmente. Da naufrago sull’orlo della morte, ero ora un consigliere fidato di Tokugawa Ieyasu, e in seguito di suo figlio Hidetada, che gli succedette come Shōgun. Il mio compito principale? Costruire navi. Supervisionai la costruzione delle prime navi giapponesi basate su modelli occidentali. Due in particolare, molto più grandi e robuste delle giunche che usavano comunemente. Non fu una rivoluzione immediata, ma fu un inizio. Gettammo le basi tecniche della cantieristica navale giapponese. 

    Ma il mio ruolo andava oltre i cantieri navali. Consigliavo Ieyasu su questioni di commercio e diplomazia con l’Occidente. Fui dondamentale nell’aiutare gli Olandesi ad aprire la loro stazione commerciale a Hirado nel 1609. E quando arrivò una nave dei miei connazionali, gli Inglesi, guidati da John Saris, nel 1613, fui io a fare da mediatore e interprete, aiutandoli ad aprire la loro stazione a Hirado. La mia presenza, la mia influenza, contribuirono a creare una fessura nel muro che portoghesi e spagnoli avevano eretto, aprendo il Giappone al commercio con le potenze protestanti del Nord Europa. Ero diventato un ponte tra due mondi così diversi.

    Foto dell’autore. Avamposto commerciale olandese di Hirado (Hirado-oranda shōkan, 平戸オランダ商館)

    Eppure, nonostante l’onore, la ricchezza, una nuova vita e una famiglia giapponese, il desiderio di tornare a casa no mi abbandonò mai. Continuai a chiedere il permesso di partire, anno dopo anno. Ma Ieyasu, che mi stimava enormemente e mi trattava con grande rispetto, non me lo concesse mai. Forse temeva di perdere le mie conoscenze uniche. Forse che potessi rivelare segreti strategici ai suoi rivali europei. Ero prezioso, sì, ma anche una sorta di prigioniero d’oro.

    William Adams morì a Hirado nel 1620. La sua vita…che storia incredibile. Da marinaio disperso a samurai. Da straniero sospetto a confidente dello Shōgun. L’arrivo della De Liefde, così tragico e casuale per il suo equipaggio, e il suo strano destino, non solo aprirono una via di comunicazione tra il Giappone e l’Europa del Nord, ma dimostrarono anche al perspicacia di Ieyasu nel saper sfruttare talenti stranieri per i suoi fini. Paradossalmente, forse, il contatto diretto di Ieyasu con William Adams e altri stranieri contribuì anche alla successiva decisione del Giappone di chiudersi quasi completamente al mondo, mantenendo però un piccolo, controllato contatto attraverso gli Olandesi – i compagni di viaggio di William – confinati nell’isola di Dejima, a Nagasaki.

    La figura di Anjin, il pilota divenuto samurai, resta un simbolo strano e potente. Un ricordo del primo, difficile, ma affascinante incontro tra l’Inghilterra, e quella terra il Giappone, straordinaria che, contro ogni previsione, era diventata la sua casa.

    Oggi, 16 maggio, si ricorda la scomparsa di William Adams e riviviamo la sua straordinaria vicenda. Per chi, come il sottoscritto, risiede a breve distanza – appena trenta minuti da Hirado, luogo che fu testimone degli ultimi anni di Anjin e della sua sepoltura – questa storia assume una risonanza ancor più vivida. La scoperta della sua incredibile esistenza risale per me a circa diciassette anni fa, durante la stesura della mia tesi di laurea specialistica in Lingue e Istituzioni Economico-Giuridiche dell’Asia, il cui fulcro era proprio il commercio marittimo tra Giappone ed Europa. Hirado, dunque, non è semplicemente una tappa geografica, ma un vero e proprio simbolo, un faro che ha illuminato i primi, complessi rapporti tra i nostri due mondi. Se mai vi trovaste a esplorare queste zone, una visita a questa città vi permetterà di toccare con mano l’eredità di quegli scambi e l’eco della storia di Miura Anjin, il samurai venuto dal mare.

  • Dai fiumi alle sedute hi-tech: un esilarante storia del wc giapponese

    Dai fiumi alle sedute hi-tech: un esilarante storia del wc giapponese

    Ah, il water giapponese. Per la maggior parte dei turisti che si recano qui in vacanza, è un universo di meraviglia, confusione e, ammettiamolo, un pizzico di timore reverenziale. Ti accomodi, la tavoletta è piacevolmente calda (pura beatitudine!), e ti ritrovi davanti a una plancia di comando che farebbe invidia allo Star Destroyers. Pulsanti per lavare, asciugare, oscillare….e che diamine combina quel tasto con la nota musicale?! (Tranquilli, ci arriviamo!)

    Ma mentre ci spelliamo le dita delle mani per queste meraviglie hi-tech, sapevate che il percorso per arrivare fin qui è stato a dir poco rocambolesco? Dimenticate le noiose lezioni di storia: quella del wc giapponese e un’avventura costellata di invenzioni geniali, igiene talvolta discutibile e persino astuzie da campo di battaglia!

    Riavvolgiamo il nastro. Molto, molto tempo fa, nell’antico Giappone, le cose erano….beh, basilari. Del tipo: trova un cespuglio o un fiume e via, senza troppi problemi. Inventarono il “kawa-ya” (川屋), praticamente una semplice struttura di legno, a volte composta solamente da un asse, sospesa sopra un fiume. Smaltimento dei rifiuti eco-sostenibile, diremmo oggi? Speriamo solo che nessuno si lavasse più a valle. Durante il periodo Nara si diffuse la voce che in Cina i maiali venissero usati come – ehm – riciclatori organici, ma il Giappone, declino altezzosamente: “Nah, i maiali non fanno per noi”. Così, per un bel pezzo, se non c’era un fiume nelle vicinanze, si faceva dove capitava….e basta. 

    Balzo in avanti nell’elegante periodo Heian. Mentre i nobili se la spassavano con lussuosi gabinetti provvisti di scarico (che altro non era che un rigolo d’acqua deviato dal canale vicino per poi farvi ritorno), la plebe era ancora…all’aria aperta. Pare che Heian-kyō, l’allora capitale, emanasse un olezzo degno di un vespasiano durante la canicola estiva. E come ci si puliva all’epoca? Con una “kuso-bera”, letteralmente un “bastone per la pupù”. Avete capito bene, una semplice spatola di legno. Meditateci sopra un istante. Di colpo, quei mille pulsati enigmatici dei wc moderni non vi sembrano poi così male, vero?

    Poi, SBAM! Arriva il periodo Sengoku – il periodo degli stati combattenti! Uno penserebbe che l’igiene fosse l’ultima delle preoccupazioni. E invece no! È qui che la faccenda si rivela sorprendentemente sofisticata. Capirono che i rifiuti umani potevano essere un fertilizzante strepitoso – “oro marrone”, se preferite! Iniziarono a compostarli per eliminare i parassiti e migliorare i raccolti. Le latrine a fossa, le “potton benjo” (ポットン便所) presero piede, non solo per la loro comodità, ma per raccogliere quella preziosissima risorsa. I daimyō, astuti, arrivarono a costruire latrine con l’apertura verso l’esterno, per non farsi sorprendere…ehm… con le braghe calate! E sul campo di battaglia? I guerrieri indossavano i classici pantaloni hakama ma con uno spacco strategico all’altezza del cavallo, per rapide….manovre tattiche. La necessità aguzza l’ingegno, persino quando si tratta delle pause bagno mentre si è sotto assedio.

    Finalmente, giunge il “pacifico” periodo Edo. E con esso, udite udite, esplode la tecnologia dei sanitari! Pensate che lo shōgun in persona disponeva di un “goyōsho” (御用所), un “gabinetto d’onore”, talmente sfarzoso da includere un medico addetto al controllo quotidiano del “prodotto finale”, per monitorare lo stato di salute del signore. (E noi che ci lamentiamo delle visite mediche annuali!). In questo periodo iniziò a diffondersi tra la popolazione comune l’utilizzo della carta per le pulizie finali. Fecero la comparsa i primi bagni pubblici. E indovinate un po? Fiori un’interna industria di raccoglitori di feci i “mokkō-ya”! Questi professionisti, trasportavano i rifiuti dalle case di città alle fattorie, rendendo Edo sorprendentemente pulita. Si sono trovati scritti di visitatori stranieri di quel periodo che erano rimasti basiti dall’ordine e dalla pulizia della città, che in parte era dovuto ai mokkō-ya.

    Ora, torniamo a quel pulsante con la nota musicale sul washlet della vostra stanza di albergo nella moderna Tōkyō. Si, proprio quello che se premuto emette un suono di sciacquone o una musichetta discreta. Quella piccola funzione, che spesso viene chiamata “oto-hime” (音姫). Questo l’ho scoperto poco tempo fa mentre leggevo la scheda tecnica dei vari wc per la nostra nuova casa qui in Giappone. Nelle note all’interno del pamphlet di un noto produttore appariva questa spiegazione:

    “Per ovviare allo spreco d’acqua causato dalla pratica diffusa tra molte donne nei bagni pubblici di lasciare scorrere l’acqua per mascherare i suoni ed evitare imbarazzi, è stato sviluppato il dispositivo sonoro “Otohime“. Il nome, coniato dalla sviluppatrice del sistema, unisce “oto” (suono) a “Otohimesama“, che da “bella principessa” è passato a simboleggiare l’antica cultura della riservatezza giapponese”

    Questa funzione non è solo una semplice stramberia adottata da qualche avido produttore di wc ma affonda le radici in un profondo e tanto agognato desiderio di privacy e discrezione, forse quasi un eco modernissima di quei giorni lontani di epoca Heian tra le vie della maleodorante Heian-kyō, o dallo slancio trovato in periodo Edo verso la pulizia urbana e il rispetto altrui. Si tratta di minimizzare qualsiasi suono potenzialmente imbarazzante, garantendo che tutti si sentano a proprio agio.

    Dunque la prossima volta che troverete seduti sulla tiepida tavoletta di un wc in Giappone, mentra contemplate quale getto d’acqua selezionare, ripensate al mio racconto: da un fiume (quando andava bene) e un bastone, passando per i fortificati bagni dei samurai, fino ad approdare a un trono hi-tech degno di un moderno shōgun che diffonde musica. È una storia tutt’altro che di m….!

  • Hakkō ichiu: da mito fondatore a slogan di guerra

    Hakkō ichiu: da mito fondatore a slogan di guerra

    Immagina una frase antica, quasi dimenticata, che affonda le sue radici nel mito stesso della creazione del Giappone. Una frase che, nelle sua origine leggendaria, sembrava sussurrare un sogno di unità universale, di un mondo raccolto sotto un unico grande tetto. Questo rappresentava inizialmente hakkō ichiu (八紘一宇). Eppure, questa espressione, evocativa e quasi poetica, nel giro di pochi decenni si trasformò in qualcosa di molto più oscuro: divenne lo slogan principale che accompagnò l’espansione militare del Giappone imperiale, un grido di battaglia usato per giustificare la conquista e la guerra. Come è potuto accadere? Come può un concetto apparentemente volto all’unificazione trasformarsi in giustificazione per il dominio? Ripercorriamo insieme l’affascinante e terribile percorso di hakkō ichiu, da eco mitologico a strumento di propaganda bellica. 

    Significato

    Prima di addentrarci nella sua storia controversa, è utile scomporre questa espressione per capirne il significato letterale, che già ci da un indizio della sua portata ambiziosa. La prima parte, hakkō (八紘), combina il kanji di “hachi” (八), il numero otto – un numero che nella cosmologia dell’asia orientale spesso simboleggia la totalità o l’infinito – con “” (紘), che si riferisce a corde o fili, ma in senso figurato rappresenta le direzioni cardinali e intermedie (Nord, Sud, Est, Ovest, Nord-est e così via). Il termine “hakkō” diventa così una metafora per indicare “le otto direzioni” o “gli otto angoli del mondo”, rappresentando in pratica il mondo intero o l’ecumene conosciuto. 

    La seconda parte “ichi-u (一宇), unisce “ichi” (一), che significa semplicemente “uno”, con “u” (宇), che significa “tetto” o, per estensione, “casa”, “edificio” e persino “universo” in alcuni contesti. “Ichi-u” evoca quindi l’immagine suggestiva di “un solo tetto” o “una sola casa” implicando un ordine unificato e armonioso.

    Unendo questi elementi, hakkō ichiu si traduce letteralmente come “gli otto angoli del mondo sotto un unico tetto”. L’idea intrinseca è quella di unificare tutti i popoli del mondo come un’unica, grande famiglia, portando pace e ordine sotto un’unica struttura. Tuttavia, come la storia ci insegna, la questione cruciale ad un certo punto divenne: sotto quale tetto? E chi avrebbe definito le regole di questa “casa”? La risposta data dell’interpretazione successiva fu inequivocabilmente: quello giapponese, sotto la guida dell’Imperatore.

    Un’eco del mito

    Hakkō ichiu non è un’invenzione del XX secolo. Le sue origini ci portano indietro fino all’alba della storia giapponese, o almeno alla sua narrazione mitologica ufficiale. Si ritiene che derivi da una frase attribuita al leggendario primo Imperatore del Giappone, Jinmu – figura mitica considerata discendente diretta della dea del sole Amaterasu Ōmikami, la principale divinità dello shintoismo – riportata nel Nihon-shoki (日本書紀, “Annali de Giappone”), un’antica cronaca compilata nel VIII secolo d.C, compilata per legittimare la linea imperiale e consolidare un’identità nazionale. Secondo quanto riportato nel testo, dopo aver consolidato il suo potere nella regione di Yamato (considerata la culla della nazione giapponese), durante la sua ascensione al trono, l’Imperatore Jinmu pronunciò la seguente frase:

    掩八紘而爲宇

    Ame no shita wo ooute ie to nasan

    “Che io possa coprire le otto direzioni e farne la mia dimora”

    Fonte: Wikipedia

    Per secoli, questa frase rimase confinata negli annali storici, un riferimento noto agli studiosi ma privo di rilevanza politica nell’immediato. Fu solo all’inizio del XX secolo, nel 1903, che un influente pensatore della scuola buddista di Nichiren e fervente nazionalista, Tanaka Chigaku (田中智學), la riporto alla luce, coniandola nella forma moderna e coincisa hakkō ichiu. Tanaka, fondatore della Kokuchū-kai (国柱会), un’organizzazione che promuoveva un nazionalismo basato su un’ambigua interpretazione degli insegnamenti di Nichiren, vide in questa antica dichiarazione l’espressione della missione divina del Giappone (国体, l’essenza nazionale incentrata sull’Imperatore): guidare il mondo verso l’armonia e la pace universale, unificando sotto l’egida benevola dell’Imperatore, discendente degli dei e incarnazione vivente della nazione. Forse nelle intenzioni iniziali di Tanaka, c’era un barlume di idealismo, un sogno di una fratellanza universale – seppur dannatamente gerarchico, nippo-centrico – e basato sulla presunta superiorità spirituale e morale del Giappone imperiale. La sua visione, seppur presentata come pacifica, conteneva già i semi di una supremazia giapponese destinata a realizzarsi, se necessario, anche con la forza.

    Quando un ideale diventa slogan di guerra

    Ma come accade spesso con concetti tanto potenti quanto ambigui, anche hakkō ichiu venne presto strappata dal suo contesto filosofico-religioso e gettata nell’arena politica infuocata degli anni ‘30, un decennio segnato dalla grande depressione, dall’instabilità politica interna (il tentato colpo di stato passato alla storia come “l’incidente del 26 Febbraio 1936”), e soprattutto dall’ascesa del militarismo e di un nazionalismo aggressivo ed espansionista. L’economia giapponese necessitava disperatamente di risorse naturali (gas, gomma e metalli) e di mercati sicuri per sostenere la sua industrializzazione e la sua crescente popolazione, e l’ideologia dominante esaltava la presunta superiorità razziale e spirituale del popolo giapponese (la cosiddetta “razza Yamato”).

    In questo clima surriscaldato, i leader militari (in particolare le fazioni più radicali dell’esercito e della marina) e i politici ultranazionalisti videro in questo slogan uno strumento perfetto per diverse ragioni tra loro interconnesse. Innanzitutto, il suo legame con il passato mitico e divino dell’Imperatore Jinmu conferiva alle ambizioni espansionistiche moderne un’aura sacra, fornendo loro una sorta di legittimità storica e spirituale quasi inattaccabile nel quadro ideologico definito del kokka shintō (国家神道), ovvero “lo shintoismo di stato”. 

    In secondo luogo, forniva una giustificazione, a loro detta “nobilitante” e persino “altruistica”: trasformava la brutale realtà della conquista territoriale, dello sfruttamento economico e dell’imposizione politica in una presunta “missione civilizzatrice” per “liberare” il continente asiatico dal colonialismo occidentale e unificarla sotto la guida paterna dell’Imperatore Shōwa, mascherando così l’imperialismo giapponese come un atto volto a portare “ordine”, “armonia” e “prosperità” condivisa. 

    Infine, hakkō ichiu, fungeva come un potente collante interno, uno slogan capace di mobilitare la popolazione, compattare le diverse fazioni nazionaliste e giustificare gli immani sacrifici richiesti dalla guerra totale, sia sul fronte militare che su quello interno. 

    Il punto di non ritorno fu raggiunto nel luglio del 1940. L’allora Primo Ministro, il principe Fumimaro Konoe, in un famoso discorso radiofonico che delineava la “Politica Nazionale Fondamentale” (Kihon Kokusaku Yōkō, 基本国策要綱), dichiaro che la politica nazionale mirava a stabilire un “Nuovo Ordine in Asia Orientale” – che si sarebbe in seguito evoluto nel concetto di “Sfera di Co-prosperità della Grande Asia Orientale” –  basandosi proprio su hakkō ichiu. Da concetto filosofico-religioso riportato in auge da un pensatore nazionalista, era diventato ufficialmente politica di stato e la principale giustificazione ideologica per l’imminente espansione verso il sud-est e asitico e l’area del Pacifico.

    Un esempio tangibile dell’adozione di questo slogan fu la costruzione nel 1940 di una torre dedicata – poi ribattezzata “la torre della pace” – presso la città di Miyazaki, luogo legato al mito della discesa di Niniji no Mikoto (il nonno di Jinmu). La torre, alta 37 metri e dedicata a Jinmu e allo spirito di hakkō ichiu, fu costruita utilizzando pietre provenienti da tutti i territori occupati dai giapponesi, simboleggiano l’unificazione del mondo sotto il Giappone.

    Fonte: Wikipedia. Cerimonia di inaugurazion della torre presso Miyazaki

    La realtà brutale dietro lo slogan

    Dietro la retorica di “unire il mondo sotto un unico tetto” per portare pace e prosperità, la realtà pratica di hakkō ichiu durante la Seconda Guerra Mondiale fu devastante per milioni di persone nei territori occupati. In primo luogo, funzionò come copertura ideologica per l’aggressione militare: l’invasione della Manciuria prima e delle altre zone del Pacifico in seguito, venivano presentate all’opinione pubblica giapponese e internazionale come passi necessari per realizzare questa ipotetica grande unificazione e liberare i popoli asiatici dal giogo occidentale. Il Giappone si auto proclamava “liberatore” dal colonialismo europeo e statunitense, imponendo però a sua volta un dominio altrettanto, se non più, spietato e predatorio.

    Il progetto della “Sfera di Co-prosperità della Grande Asia Orientale”, che sulla carta prometteva collaborazione economica e politica tra le nazioni asiatiche indipendente sotto la guida illuminata del Giappone, si tradusse ovunque in una realtà ben diversa, caratterizzata da: un’occupazione militare brutale, sfruttamento sistematico delle risorse, imposizione culturale e linguistica, repressione di ogni forma di dissenso o resistenza senza dimenticare gli atroci crimini di guerra. 

    Fonte: Wikipedia

    Parallelamente, una propaganda martellante faceva risuonare lo slogan hakkō ichiu in tutto il Giappone – nelle scuole (dove era entrato a far parte dell’educazione morale), sui giornali, alla radio, nei film, nei discorsi pubblici e sui manifesti affissi nelle città. L’obiettivo era chiaramente infiammare il nazionalismo, innalzare lo spirito di sacrificio, convincere il popolo giapponese della correttezza divina della propria causa spingendolo a sopportare privazioni e sacrifici immani in nome dell’Imperatore e della presunta “missione” nazionale di unificare il mondo. Questa propaganda funzionò efficacemente, almeno sul fronte interno per gran parte delle durata del conflitto, perché faceva proprio leva su sentimenti profondi e radicati come l’orgoglio nazionale, una venerazione quasi religiosa della figura dell’Imperatore considerato divino (riprendendo il termine “arahito-gami” , 現人神, usato nel Nihon-shoki), il senso di un destino unico e superiore per il Giappone, e la convinzione, alimentata ad arte, di agire per un bene superiore universale, mascherando in questo modo le più terrene e brutali motivazioni di potere, controllo e espansione territoriale. La percezione al di fuori del Giappone, specialmente nei territori occupati e tra le potenze alleate, era invece nettamente diversa: lo slogan hakkō ichiu era visto come il velo ideologico che copriva la brama imperialista giapponese.

    Fonte: Wikipedia. Moneta da 10 sen con impressa la torre di hakkō ichiu

    Un’eredità scomoda

    Con la resa incondizionata del Giappone nell’agosto del 1945, le forze di occupazione guidate dal Generale MacArthur, identificarono subito lo slogan hakkō ichiu come una dei pilastri ideologici chiave che avevano sostenuto e alimentato il militarismo e l’ultranazionalismo. Di conseguenza, attraverso direttive specifiche volte a smantellare lo shintoismo di stato, promuovere la libertà di pensiero e religione eliminando l’ideologia militarista dall’educazione e dalla vita pubblica, l’uso di hakkō ichiu e di altri slogan fu fortemente scoraggiato e di fatto eliminato dalla sfera pubblica. Non fu tecnicamente bandito con una legge specifica, ma la sua intrinseca tossicità divenne tale che cadde in disuso rapidamente.

    Oggi rimane uno slogan principalmente legato al contesto storico del periodo bellico. Un chiaro esempio di come un’ideologia nazionalista ed espansionista possa essere costruita, manipolata attraverso la propaganda e utilizzata per giustificare qualsiasi voglia aggressione. Ogni sua evocazione, al di fuori di un contesto puramente storico, è rara e controversa, vista la pesante eredità che porta con sé. La stessa torre costruita a Miyazaki ha visto rimosse le iscrizioni originali facenti diretto riferimento allo slogan, nel tentativo di dissociare il monumento dal passato militarista. 

    L’evoluzione di hakkō ichiu rimane secondo me un monito potente, rilevante non solo per il Giappone ma per il mondo intero. Dimostra come un concetto dalle radici antiche, possa essere distorto e trasformato in un’arma ideologica a giustificazione dell’imperialismo più feroce e delle indicibili sofferenze inflitte a milioni di persone. Comprendere il viaggio di hakkō ichiu – da mito fondatore legato all’idea di un ordine cosmico a slogan di guerra usato per mascherare la brutalità della conquista – non solo ci aiuta a capire meglio le tragiche e complesse dinamiche del Giappone del periodo bellico, ma ci ricorda anche una necessità universale di rimanere vigili a qualsiasi ideologia che promette unità e liberazione attraverso la dominazione. 

    La seduzione di molti slogan può essere potente, ma la storia ci insegna a esaminare sempre le implicazioni reali e le possibili conseguenze umane.

  • Kaizan-sai: il rito shintoista che che apre la stagione alpinistica in Giappone

    Kaizan-sai: il rito shintoista che che apre la stagione alpinistica in Giappone

    Prendendo spunto da un recente articolo pubblicato su un quotidiano on-line giapponese riguardo l’apertura della stagione escursionistica sul monte Nantai a Nikkō, mi è sembrato interessante approfondire un aspetto centrale di questo evento per chi non lo conoscesse: il rito shintoista noto come kaizan-sai (開山祭).

    Il kaizan-sai, traducibile letteralmente come “festa dell’apertura della montagna”, è una cerimonia tradizionale shintoista che segna l’inizio ufficiale della stagione in cui è consentito o considerato sicuro scalare e compiere escursioni in una determinata montagna in Giappone. Non è solo una data pratica fissata sul calendario per gli escursionisti, ma un rito profondamente radicato nella cultura e nella spiritualità giapponese.

    Le origini di questo rituale affondano le radici nell’antico culto della montagna, che considera le catene montuose come le dimore dei kami, vere e proprie porte verso il mondo spirituale. Questa credenza si è intrecciata nel corso del tempo con elementi appartenenti al buddismo esoterico, dando vita a pratiche ascetiche come lo shugendō. Aprire una montagna al passaggio delle persone non rappresentava un atto banale, ma richiedeva l’esecuzione di precisi riti di purificazione dei sentieri. Era un modo per chiedere il permesso al kami di una determinata montagna implorando la sua protezione per coloro che si sarebbero dovuti avventurare lungo i suoi pendii. In passato questi riti miravano a garantire la sicurezza di coloro che si spostavano, per necessità, da una regione ad un’altra del paese.

    Oggi il kaizan-sai mantiene la sua importanza come un’importante tradizione culturale e un appuntamento annuale per gli amanti della montagna. Le cerimonie, tenute presso i santuari alla base o suoi fianchi della montagna, vedono la partecipazione di sacerdoti shintoisti, autorità locali, associazioni di alpinismo e gente comune che offrono preghiere per propiziare la sicurezza di tutti gli escursionisti durante la stagione alla porte.

    L’articolo pubblicato sul quotidiano on-line descriveva proprio una di questa cerimonie celebrata presso il monte Nantai, dove i sacerdoti del Nikkō Futarasan Jinja Chūgūshi (日光二荒山神社中宮祠) hanno simbolicamente rimosso il fermo del cancello d’ingresso al sentiero, dando il via alla stagione delle escursioni dopo la chiusura dovuta alla stagione invernale. Viene sottolineata l’importanza di essere adeguatamente equipaggiati, specialmente considerando la neve ancora presente in alta quota, dimostrando come la consepevolezza dei rischi naturali si fonda con il rito tradizionale.

    Foto: shimonutsuke-shinbun. Rimozione del sigillo della porta di ingresso al sentiero del monte Nantai

    Il kaizan-sai rappresenta un affascinante esempio di come antiche credenze, rispetto per la natura e la prevenzione si fondano in una cerimonia che segna un momento atteso da molti, ovvero l’opportunità di riconnettersi con la maestosità delle montagne.

    L’articolo riguardante la cerimonia tenutasi a Nikkō potete trovarlo sul sito del Tokyō Shinbun al seguente link:

    https://www.tokyo-np.co.jp/article/401172


  • Ricordo della memoria dei piloti dei kaiten

    Ricordo della memoria dei piloti dei kaiten

    Il 25 aprile si è svolta a Hiji, nella prefettura di Ōita (Kyūshū), una cerimonia commemorativa presso il santuario Kaiten (Kaiten jinja, 回天神社), in memoria dei caduti nelle operazioni “kaiten“, i siluri umani utilizzati dalla Marina Imperiale Giapponese durante le fasi finali della Seconda Guerra Mondiale.

    I partecipanti erano circa una sessantina, tra cui autorità locali e familiari che hanno osservato un minuto di silenzio in onore dei caduti. La cerimonia assume un significato particolare poiché cade nell’anno che segna l’80° anniversario della fine del conflitto nel Pacifico.

    Fonte: kaiten jinja web-site

    Sviluppati nelle fasi finali della guerra del pacifico, quando la sconfitta del Giappone appariva ormai inevitabile, i kaiten (回転), conosciuti anche come ningen-gyorai (人間魚雷, siluro umano), erano un’arma d’attacco speciale: siluri modificati per essere guidati da un pilota destinato a schiantarsi contro le navi nemiche, sacrificando la propria vita in missioni suicide, proprio come facevano i piloti tokkōtai a bordo dei loro aerei.

    Fonte: oeandictionary

    Nella cittadina di Hiji si trovava la base di Ōga, una delle quattro basi dedicate all’addestramento e alle operazioni dei kaiten. Sul sito di questa ex base sorge oggi il santuario kaiten, che custodisce la memoria dei 1.073 militari morti in operazioni o durante addestramenti legati ai kaiten in tutto il paese.

    La data del 25 aprile è stata scelta perché ricorda il giorno del 1945 in cui fu costituita l’unità kaiten proprio nella base di Ōga. Uno dei partecipanti, il cui padre (morto di recente) fu addestrato come pilota di kaiten ma sopravvisse alla guerra, lo ricorda come una “una persona che parlava poco della sua esperienza durante la guerra” e riporta un racconto terribile, legato all’addestramento con i kaiten a cui fu sottoposto il padre. “Durante un’esercitazione si incagliò su una spiaggia sabbiosa, rimanendo bloccato all’interno del siluro per diversi giorni.” L’uomo poi conclude: “Fortunatamente, la guerra finì prima che partisse per una missione. Credo che ogni anno fosse profondamente grato di essere sopravvissuto e ricordasse con rispetto i 1.073 caduti che oggi ricordiamo presso questo santuario.”

    Nonostante la sua importanza storica, moltissimi giapponesi, compresi anche gli abitanti della zona, conoscono poco la storia della base di Ōga e dei suoi addestramenti. Per mantenere viva la memoria di questo complesso capitolo della storia giapponese, in un parco è stato installato un modello in scala reale del siluro kaiten, assieme a fotografie e reperti storici.

    Fonte: kaiten jinja

    La cerimonia presso il santuario kaiten e l’esistenza del parco commemorativo a Hiji sono fondamentali per contrastare l’oblio che minaccia queste pagine dolorose di storia, specialmente considerando la limitata conoscenza attuale persino tra i residenti locali. Ricordare il sacrificio estremo dei 1.073 giovani piloti dei kaiten non è solo un dovere verso la loro memoria individuale e collettiva, ma anche un potente invito a riflettere profondamente sulle tragiche conseguenze dei conflitti e sulla disperazione che può generare la guerra. Il suono del silenzio osservato durante la commemorazione e la muta testimonianza del siluro esposto nel parco riecheggiano come un monito perenne, riaffermando con forza l’inestimabile valore della pace, un bene da coltivare e difendere strenuamente, oggi più che mai.

  • Energia nucleare in Giappone

    Energia nucleare in Giappone

    Situazione attuale, piani futuri e il ruolo cruciale delle rinnovabili

    Introduzione: il contesto post-Fukushima

    Contrariamente a una percezione talvolta diffusa all’estero, il fabbisogno elettrico del Giappone non è, allo stato attuale, sostenuto in maniera predominante dall’energia nucleare. L’incidente alla centrale di Fukushima Daiichi, conseguenza del terribile terremoto che ha colpito il Tōhoku nel marzo 2011, ha rappresentato uno spartiacque fondamentale. A seguito di quell’evento, tutte le centrali nucleari del paese sono state progressivamente fermate per verifiche di sicurezza e per l’implementazione di standard molto più stringenti.

    Questi nuovi requisiti sono stati definiti e sono supervisionati dalla Nuclear Regulation Authority (NRA – 原子力規制委員会, Genshiryoku Kisei Iinkai), l’autorità di regolamentazione nucleare indipendente istituita nel 2012 proprio per rafforzare la vigilanza sulla sicurezza. Da allora, la riattivazione dei reattori è un processo lento, complesso e soggetto a rigorose valutazioni tecniche e, spesso, al consenso delle comunità locali.

    Situazione Attuale

    Secondo i dati più recenti disponibili dall’Agenzia per le Risorse Naturali e l’Energia (ANRE – 資源エネルギー庁), che fa capo al Ministero dell’Economia, del Commercio e dell’Industria (METI – 経済産業省), la quota di energia elettrica prodotta da fonte nucleare nel mix energetico giapponese si è attestata intorno al 7-9% negli ultimi anni fiscali (ad esempio, circa il 7.9% nell’anno fiscale 2022). Questo dato sottolinea come, attualmente, il Giappone dipenda in larga misura da altre fonti, principalmente combustibili fossili importati (gas naturale liquefatto, carbone, petrolio) e, in misura crescente, dalle rinnovabili.

    Ad oggi (Aprile 2025), solo un numero limitato di reattori ha ottenuto l’approvazione definitiva dalla NRA per riprendere l’operatività commerciale e sono effettivamente in funzione. Il numero esatto fluttua a causa di arresti per manutenzione programmata o ispezioni, ma si aggira tipicamente attorno ai 10-12 reattori attivi. Questo a fronte di circa 33 reattori considerati tecnicamente operabili nel paese (escludendo i sei reattori di Fukushima Daiichi, quelli di Fukushima Daini e altri impianti già destinati allo smantellamento).

    È possibile monitorare lo stato operativo aggiornato di ciascun reattore sul sito della NRA (di seguito il link alla pagina in lingua inglese)

    https://www.nra.go.jp/english/nuclearfacilities/operation.html

    Ogni processo di riavvio richiede il superamento di controlli di sicurezza estremamente severi introdotti dopo Fukushima, che includono misure rafforzate contro terremoti, tsunami, attacchi terroristici e guasti multipli (come la perdita totale di alimentazione elettrica). Inoltre, ottenere il consenso formale o informale delle prefetture e dei comuni ospitanti è spesso un passaggio politicamente cruciale e talvolta complesso.

    Le principali compagnie elettriche, come Kansai Electric Power (KEPCO), Kyūshū Electric Power, Shikoku Electric Power e, potenzialmente in futuro, Tōkyō Electric Power Company (TEPCO) per i suoi impianti di Kashiwazaki-Kariwa (attualmente non ancora riavviati), forniscono aggiornamenti sullo stato dei loro impianti nucleari.

    Fonte: Sesto piano strategico per l’energia” – 第6次エネルギー基本計画 –

    L’immagine precendente illustra la posizione e la situazione operativa delle centrali nucleari in Giappone aggiornata al 15 novembre 2024. Ogni centrale è indicata con il suo nome, seguito dal numero dei reattori presenti in quella centrale, colorati in base al loro stato operativo.

    La legenda in basso a sinistra spiega il significato dei colori, da sinistra:

    • Grigio chiaro: il riavvio del reattore non è stato richiesto
    • Azzurro: il reattore è in fase di revisione
    • Verde: il reattore ha ottenuto il permesso per il riavvio
    • Giallo: il reattore è attualmente in funzione
    • Grigio: il reattore è dismesso

    Piani governativi e prospettive future: il sesto piano strategico per l’energia

    Il quadro di riferimento attuale per la politica energetica giapponese è il “Sesto Piano Strategico per l’Energia” (第6次エネルギー基本計画), approvato dal governo nell’ottobre 2021. Le discussioni per il Settimo Piano sono in corso (2024-2025), ma gli obiettivi del sesto piano rimangono quelli ufficiali. Questo piano delinea una visione strategica fino al 2030 (e oltre) con i seguenti obiettivi principali:

    1. Sicurezze energetica: ridurre drasticamente la forte dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili (che coprono ancora circa l’85% del fabbisogno di energia primaria del Giappone), mitigando i rischi geopolitici e di volatilità dei prezzi.
    2. Lotta al cambiamento climatico: raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra (-46% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2013) e conseguire la neutralità carbonica entro il 2050.
    3. Efficienza economica: garantire un approvvigionamento energetico stabile e a costi competitivi per sostenere l’economia giapponese.

    In questo contesto, il Sesto Piano Strategico mira a portare la quota di energia nucleare nel mix di generazione elettrica al 20-22% entro l’anno fiscale 2030. Questo obiettivo ambizioso si basa principalmente sulla riattivazione sicura e tempestiva del maggior numero possibile di reattori esistenti che otterranno l’approvazione della NRA e il consenso locale.

    Non prevede la costruzione massiccia di nuovi impianti convenzionali nel breve termine, sebbene il governo sostenga la ricerca e lo sviluppo di tecnologie nucleari avanzate, come i piccoli reattori modulari (SMR) e i reattori veloci, considerandoli opzioni per il futuro a lungo termine. Il governo ribadisce costantemente che la sicurezza è la “precondizione non negoziabile” per qualsiasi operazione nucleare.

    Fonte: Japanese Agency for Natural Resources and Energy

    Una nazione divisa

    Parte della popolazione giapponese è ancora profondamente segnata dall’incidente di Fukushima e continua ad essere divisa riguardo al ruolo dell’energia nucleare. Numerosi sondaggi condotti da media e istituti di ricerca mostrano costantemente che:

    • Una parte significativa della popolazione nutre forti preoccupazioni sulla sicurezza degli impianti nucleari e preferirebbe una riduzione progressiva o l’abbandono completo del nucleare.
    • Un’altra porzione dell’opinione pubblica, spesso influenzata da considerazioni economiche e di sicurezza energetica, riconosce l’utilità del nucleare per garantire stabilità all’approvvigionamento elettrico (specialmente alla luce delle crisi energetiche globali) e per contribuire al raggiungimento degli obiettivi climatici, data la sua natura a basse emissioni di carbonio.
    • Il supporto per la riattivazione dei singoli reattori è spesso condizionato alla dimostrazione di standard di sicurezza elevatissimi, alla massima trasparenza informativa da parte degli operatori e delle autorità, e a piani credibili per la gestione delle scorie radioattive. L’opposizione delle comunità che sorgono nei pressi dei reattori rimane comunque un fattore determinante.

    Il ruolo crescente delle energie rinnovabili

    Parallelamente alla complessa gestione del nucleare, il Giappone sta compiendo sforzi significativi e investimenti massicci nello sviluppo delle energie rinnovabili. Politiche di incentivazione rivolte a queste energie, hanno stimolato una crescita notevole, in particolare del fotovoltaico, dove il Giappone è uno dei leader mondiali per capacità installata.

    Il sesto piano strategico per l’energia è molto ambizioso anche su questo fronte: punta a portare la quota complessiva delle energie rinnovabili (solare, eolico – onshore e offshore, idroelettrico, geotermico, biomasse) al 36-38% del mix di generazione elettrica entro il 2030. Già oggi, le rinnovabili contribuiscono per oltre il 20% alla produzione elettrica nazionale.

    L’espansione delle rinnovabili è considerata un pilastro irrinunciabile della strategia energetica giapponese per la decarbonizzazione. Tuttavia, affronta anche sfide significative, tra cui:

    • Integrazione nella rete elettrica: gestire l’intermittenza di solare ed eolico richiede investimenti in reti intelligenti, sistemi di accumulo (batterie) e flessibilità del sistema.
    • Disponibilità di terreni: Il giappone è un paese densamente popolato e montuoso, il che limita lo spazio per grandi impianti solari ed eolici onshore. Ciò spiega il forte interesse per lo sviluppo dell’eolico offshore.
    • Costi: sebbene i costi delle rinnovabili stiano diminuendo, l’integrazione e gli investimenti infrastrutturali necessari comportano spese significative.

    Conclusione

    La situazione energetica del Giappone è in una fase di profonda trasformazione e si presenta complessa e sfaccettata. L’energia nucleare, che attualmente fornisce una frazione minoritaria dell’elettricità, è vista dal governo come una componente necessaria per raggiungere gli obiettivi futuri, principalmente attraverso la riattivazione di impianti esistenti secondo rigorosi standard di sicurezza post-Fukushima. Questa politica mira a rafforzare la sicurezza energetica e a contribuire alla decarbonizzazione, ma si scontra con le persistenti preoccupazioni di una parte significativa dell’opinione pubblica e con le difficoltà operative e politiche dei riavvii.

    Allo stesso tempo, il Giappone sta investendo in modo deciso nelle energie rinnovabili, con l’obiettivo di farle diventare la principale fonte di energia pulita. Il futuro energetico del paese sarà quindi caratterizzato da un mix diversificato, dove il successo nel raggiungere gli ambiziosi obiettivi di sicurezza, sostenibilità e competitività economica dipenderà dalla capacità di bilanciare il ruolo del nucleare, massimizzare il potenziale delle rinnovabili e migliorare l’efficienza energetica, riducendo al contempo la dipendenza dai combustibili fossili importati.







  • Kasumi – la foschia primaverile

    Kasumi – la foschia primaverile

    Ogni mattina, alle cinque, quando l’aria è ancora fresca e il mondo è ancora sospeso tra il sonno e la veglia, la mia corsa mi porta tra le risaie. E lì, quasi ogni giorno in questa stagione primaverile, si manifesta uno spettacolo silenzioso: una striscia densa di nebbia, un fiume bianco e ovattato che galleggia compatto sopra le risaie, come un segreto custodito appena sopra il livello della terra ancora a riposo.

    Non è una foschia diffusa, ma una presenza definita, quasi solida nella sua evanescenza. È come se la terra stessa esalasse un respiro visibile nel fresco dell’alba. Questo velo basso non nasconde il paesaggio, ma crea una divisione netta: sotto, il mondo concreto della terra, sopra, questo strato impalpabile che sembra appartenere a un’altra dimensione.

    Vedere questa scena ogni mattina è diventato quasi un rito, un incontro con qualcosa profondamente radicato nello spirito giapponese. La nebbia (霧, kiri) e la foschia primaverile (霞, kasumi) non sono semplici fenomeni meteorologici in Giappone; ma sono considerate come manifestazioni con propri significati estetici e spirituali.

    Nella cultura giapponese, la nebbia e la foschia sono spesso associate all’impermanenza delle cose, alla bellezza fugace e malinconica descritta dal concetto di mono no aware. È un elemento che sfuma i contorni, che nasconde e rivela allo stesso tempo, invitando alla contemplazione di ciò che non è immediatamente visibile. Rappresenta l’ambiguità, il mistero, lo spazio tra il reale e l’immaginario.

    Pensando alla storia e agli aneddoti, la nebbia ha spesso giocato ruoli cruciali, sia reali che simbolici. Nelle antiche cronache e leggende, montagne avvolte nella nebbia sono spesso considerate dimore dei kami, luoghi sacri dove il mondo umano e quello divino si toccano. La nebbia può essere un passaggio, un portale verso l’ignoto o il soprannaturale. Non sorprende che nell’arte tradizionale, come nel sumi-e (pittura a inchiostro), la nebbia sia resa magistralmente con spazi vuoti e sfumature delicate, suggerendo profondità e atmosfera, lasciando all’osservatore il compito di riempire quegli spazi con la propria immaginazione. Questo richiama il concetto estetico di yūgen, una bellezza profonda e misteriosa, suggerita più che mostrata.

    La foschia primaverile, kasumi, è un kigo (parola stagionale) classico nella poesia haiku e waka, evocando la dolcezza e la transitorietà della primavera, un velo leggero che ammorbidisce il paesaggio e i sentimenti.

    Storicamente, la nebbia ha avuto anche implicazioni pratiche e talvolta decisive. Si narra di battaglie in cui la nebbia ha nascosto eserciti, creato confusione o permesso ritirate strategiche, diventando quasi un attore invisibile sul campo. 

    Quella striscia di nebbia che vedo non è solo vapore acqueo condensato a causa della differenza di temperatura tra la terra umida delle risaie e l’aria più fredda sovrastante. È un confine impalpabile tra notte e giorno, tra il visibile e l’invisibile. È il respiro della terra che si prepara a un nuovo ciclo vitale, avvolto in un mistero che la cultura giapponese ha sempre saputo osservare, rispettare e trasformare in arte e poesia. Correre lì, in quel momento, è come attraversare brevemente un dipinto vivente, un haiku visivo che racchiude l’essenza fugace e profonda della natura e dello spirito giapponese. È un promemoria silenzioso che le cose più belle sono spesso quelle sospese tra la chiarezza e l’oscurità, proprio come quella nebbia sospesa sulle risaie all’alba.

  • Zekken

    Zekken

    Il primo zekken di mio figlio è pronto!

    Di sicuro vi sarà capitato di vedere foto, video, manga o anime che avevano come oggetto le feste sportive che si svolgono durante l’anno scolastico in Giappone, i famosi undōkai (運動会)? Tra le corse sfrenate, il tifo da stadio dei genitori e i giochi di squadra, avrere forse notato un dettaglio particolare sulle divise da ginnastica degli studenti: un pezzo di stoffa bianca, di solito rettangolare, cucito sul petto e sulla schiena, con sopra delle scritte fatte a mano con il pennarello nero. Ecco, quello è lo zekken (ゼッケン)!

    Ma cos’è esattamente e a cosa serve?

    Immagina di essere un insegnante durante l’ora di educazione fisica o, peggio ancora, durante il caos colorato e festoso dell’undōkai, con centinaia di studenti che corrono in ogni direzione. Come fai a riconoscere subito chi è chi? Semplice: guardi lo zekken!

    Lo zekken è fondamentalmente un’etichetta di riconoscimento in tessuto. Solitamente riporta informazioni essenziali come:

    Il cognome dello studente: scritto bello grande, spesso in caratteri katakana o hiragana per facilitare la lettura.

    La classe e la sezione: ad esempio mio figlio  “1年1組” (1-nen 1-gumi), che significa “Classe 1 del 1° anno”.

    A volte, viene scritto anche il nome della scuola.

    Viene attaccato (spesso cucito con pazienza dai genitori all’inizio dell’anno scolastico, o talvolta fissato con spille di sicurezza) sulla divisa da ginnastica, la taisō-fuku (体操服). La sua funzione principale è proprio questa: identificare lo studente in modo rapido ed efficace. È utilissimo per gli insegnanti per chiamare gli studenti, per l’organizzazione delle squadre durante i giochi, per segnare i punteggi e, non meno importante, per questioni di sicurezza. È un po’ come il numero che gli atleti portano sulla schiena durante una gara, ma personalizzato con il nome e la classe.

    Un po’ di storia

    La sua introduzione e diffusione nelle scuole giapponesi è legata principalmente al periodo del dopoguerra. Con la standardizzazione del sistema educativo e la costruzione di nuove scuole, si rese necessario un metodo pratico ed economico per gestire e identificare un gran numero di studenti durante le attività fisiche di massa. Lo zekken si rivelò una soluzione semplice ed efficiente per mantenere l’ordine e garantire che ogni studente fosse riconoscibile. Permetteva agli insegnanti di avere un controllo migliore e facilitava l’organizzazione di eventi su larga scala come l’undokai.

    Oggi, lo zekken è una parte integrante e quasi scontata dell’esperienza scolastica giapponese legata all’attività fisica. Anche se può sembrare un dettaglio minore, svolge un ruolo pratico fondamentale. È un piccolo pezzo di stoffa che racchiude una grande necessità organizzativa, testimone silenzioso di innumerevoli lezioni di ginnastica, corse nei sacchi, staffette e giornate di sport sotto il sole!

  • Primo giorno di scuola

    Primo giorno di scuola

    Capita spesso, vivendo qui in Giappone, di imbattersi in situazioni o momenti che ti permettono di aprire la mente verso una comprensione più profonda della cultura di questo paese. Oggi, accompagnando mio figlio alla cerimonia di ingresso alla scuola elementare, ho sentito di nuovo quella sensazione. Non era solo l’emozione di vedere il proprio figlio varcare una nuova soglia, era qualcosa di più vasto, che andava dritto al significato collettivo di questi eventi tipici della società giapponese.

    Queste cerimonie, che si tratti dell’ingresso ad un nuovo ciclo scolastico (dall’asilo all’università) o dell’inizio di un nuovo lavoro, non sono semplici eventi formali o un modo un po’ più strutturato di iniziare ma sono veri e propri riti di passaggio, momenti carichi di simbolismo che segnano in modo indelebile l’inizio di una nuova fase della vita, non solo per l’individuo ma anche per la sua collocazione all’interno della comunità.

    In una cultura dove il gruppo e l’armonia collettiva rivestono un’importanza cruciale, queste cerimonie rappresentano l’accoglienza ufficiale dell’individuo in una nuova collettività: la classe, la scuola, l’azienda. È un momento in cui si viene formalmente presentati e accettati, e allo stesso tempo, si accetta implicitamente di aderire alle regole, ai valori e agli obiettivi di quel determinato gruppo. La formalità stessa dell’evento – gli abiti dei genitori e dei nuovi studenti o  impiegati, i discorsi del preside o dell’amministratore delegato, l’inno della scuola o dell’azienda, la disposizione ordinata dei partecipanti – sottolinea la serietà di questo ingresso. Non è un atto casuale, ma un impegno reciproco.

    Per un bambino che inizia le elementari, la cerimonia di ingresso è il momento in cui smette di essere solo un bambino e diventa ufficialmente uno studente, con le responsabilità che ne derivano: ascoltare l’insegnante, rispettare le regole della scuola, impegnarsi nello studio, far parte di una classe. È un messaggio potente, comunicato attraverso il rituale della cerimonia di ingresso, che prepara mentalmente non solo il bambino ma anche la sua famiglia a questo cambiamento di status. Allo stesso modo, per un neolaureato che partecipa alla la cerimonia di ingresso in un’azienda, sancisce la fine del suo percorso formativo e l’ingresso nel mondo del lavoro come membro della società (社会人, shakaijin), con l’aspettativa di contribuire attivamente all’azienda e, più in generale, alla società stessa.

    Questi eventi servono anche a creare un forte senso di appartenenza e di inizio condiviso. Tutti i bambini della classe di mio figlio, tutti i nuovi assunti nella mia azienda, iniziano insieme quel giorno, segnato dalla stessa cerimonia. Questo crea un legame, un punto di partenza comune che rafforza l’identità del gruppo. I discorsi che vengono pronunciati non sono solo parole di benvenuto; spesso contengono esortazioni all’impegno, alla perseveranza, alla collaborazione, ribadendo i valori fondamentali che la scuola o l’azienda intendono promuovere.

    Vedere oggi mio figlio seduto composto tra i suoi nuovi compagni, ascoltare le parole del preside, mi ha fatto pensare a quanto questi rituali siano profondamente radicati nel tessuto sociale giapponese. Non sono solo tradizioni, ma meccanismi culturali che servono a scandire il tempo della vita, a dare struttura ai passaggi importanti, a rafforzare il senso di comunità e a preparare psicologicamente gli individui ai loro nuovi ruoli. È un modo solenne e collettivo per dire “Benvenuto, ora fai parte di noi, questo è un nuovo inizio, ed è una cosa importante”. E in quella solennità, c’è tutto il peso e il valore che la cultura giapponese attribuisce a ogni nuova tappa del cammino.

  • Ushinawareta Sedai: la generazione perduta

    Ushinawareta Sedai: la generazione perduta

    Introduzione

    Il Giappone, un tempo simbolo di inarrestabile progresso, si trovò improvvisamente a fronteggiare una realtà inaspettata: la stagnazione economica. Gli anni ’90 segnarono l’inizio di un’era di incertezza, in cui il sogno di una prosperità eterna si infranse contro il muro della recessione. Ma al di là delle cifre e dei grafici, questa crisi ebbe un volto umano, quello di una generazione intera costretta a fare i conti con un futuro precario. Questo articolo prova ad esplorare le cause e le conseguenze della stagnazione economica giapponese, concentrandosi in particolare sull’impatto devastante sulla cosiddetta “generazione perduta” e sulla cosidetta “era glaciale della ricerca di lavoro”

    Introduzione alla stagnazione economica giapponese

    ll miracolo economico giapponese del dopoguerra, che catapultò la nazione a un ruolo di primo piano sulla scena mondiale, si interruppe bruscamente nei primi anni ’90. Questo periodo, noto come il “decennio perduto” (失われた十年, Ushinawareta Jūnen), fu segnato da una prolungata stagnazione economica e da profondi mutamenti sociali. In tale contesto emersero due fenomeni interconnessi che lasciarono un’impronta indelebile su un’intera generazione: la ushinawareta sedai (失われた世代, “generazione perduta”) e la shūshoku hyōgaki (就職氷河期, “era glaciale della ricerca di lavoro”). Per comprendere appieno questi concetti, è essenziale analizzarne il contesto storico, le cause scatenanti e le conseguenze a lungo termine.

    Contesto storico: lo scoppio della bolla speculativa

    Il “decennio perduto” ebbe origine dal collasso della bolla speculativa dei prezzi degli asset all’inizio degli anni ’90. Sul finire degli anni ’80, il Giappone attraversò un boom economico senza precedenti, alimentato da investimenti speculativi nel settore immobiliare e nel mercato azionario. Tassi di interesse bassi e una deregolamentazione finanziaria favorirono un ricorso eccessivo al credito, gonfiando i valori degli asset a livelli insostenibili. Quando la bolla scoppiò, le conseguenze furono devastanti, segnando l’inizio di una crisi economica dalle profonde ripercussioni.

    La generazione perduta

    Il termine ushinawareta sedai, o “generazione perduta”, identifica coloro che raggiunsero l’età adulta ed entrarono nel mercato del lavoro durante questa recessione. Il crollo della bolla provocò una brusca contrazione economica, con fallimenti aziendali a catena e una drastica riduzione delle opportunità di impiego. Le imprese, tradizionalmente legate al sistema dello shūshin koyō (終身雇用, “impiego a vita”), si trovarono costrette a ristrutturarsi, tagliare i costi e limitare fortemente le assunzioni. Nacque così una generazione che si affacciò al mondo del lavoro nel momento più sfavorevole della storia recente giapponese.

    L’era glaciale della ricerca di lavoro

    Il concetto di shūshoku hyōgaki descrive in modo più specifico le condizioni eccezionalmente difficili affrontate dai neolaureati tra gli anni ’90 e i primi 2000. Il tradizionale sistema di assunzione primaverile, noto come shūshoku katsudō (就職活動), attraverso il quale le aziende reclutano ancora oggi in massa dalle università, subì un duro colpo. Le imprese ridussero significativamente il numero di neolaureati assunti, innescando una competizione feroce per le poche posizioni disponibili. Questo scenario rese estremamente arduo per i giovani trovare un impiego stabile e a tempo pieno.

    La cosiddetta “generazione shūshoku hyōgaki” (就職氷河期世代) si riferisce agli individui, nati prevalentemente tra il 1970 e il 1982 (e in alcuni casi fino al 1984), che cercarono lavoro come neolaureati in quel periodo. Nel 2021, questi individui avevano tra i 37 e i 51 anni. Spesso identificati anche come “generazione perduta”, essi affrontarono sfide occupazionali senza precedenti. La shūshoku hyōgaki si protrasse per circa un decennio, dal 1993 al 2005, caratterizzata da un mercato del lavoro ostile.

    Dopo il crollo economico del 1990, le aziende che negli anni del boom avevano assunto su larga scala adottarono strategie di contenimento dei costi. Con una riduzione drastica delle quote di assunzione, i neolaureati di questa generazione si scontrarono con ostacoli enormi. Il termine shūshoku hyōgaki, coniato da Recruit Co., Ltd., emerse come un problema sociale rilevante, tanto da essere candidato al premio “Buzzword of the Year” nel 1994.

    La situazione peggiorò ulteriormente tra la fine degli anni ’90 e il 2000, con l’instabilità finanziaria e il crollo della bolla informatica, trasformando la ricerca di lavoro in una “super crisi occupazionale”. Secondo i dati del Ministero della Salute, del Lavoro e del Welfare, il rapporto tra posti di lavoro e candidati crollò dal 2,77% nel 1990 allo 0,99% nel 2000, una diminuzione di circa due terzi. Anche i tassi di assunzione scesero dal 94,5% nel 1997 al 91,1% nel 2000, riflettendo la riluttanza delle aziende ad assumere neolaureati dopo lo scoppio della bolla.

    Di conseguenza, molti giovani non solo non riuscirono a ottenere i lavori desiderati, ma spesso accettarono ruoli ben diversi dai loro interessi o ambizioni. Questa mancata corrispondenza compromise il loro potenziale e, anche quando assunti come dipendenti permanenti, alcuni furono licenziati dopo poco tempo. Molti si ritrovarono relegati a posizioni non regolari, come lavoratori temporanei (haken shain, 派遣社員) o part-time (furītā, フリーター), segnando un distacco dal modello tradizionale di stabilità lavorativa.

    La disoccupazione giovanile post-crisi

    Fonte: Naikakufu – Uffico di Ganinetto

    Il grafico mostra l’andamento andamento del tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) dopo gravi crisi economiche evidenzia uno schema ricorrente. Intitolato “Andamento del tasso di disoccupazione giovanile dopo una grande crisi economica”, il grafico mostra come, in vari paesi, la disoccupazione tra i giovani aumenti significativamente dopo una crisi e rimanga elevata per anni. Le linee rappresentano nazioni come Finlandia, Spagna, Svezia, Norvegia, Stati Uniti e Giappone, ciascuna associata all’anno d’inizio della rispettiva crisi (per il Giappone, il 1992). L’asse orizzontale misura gli anni trascorsi dalla crisi, mentre quello verticale indica la variazione del tasso di disoccupazione in punti percentuali rispetto al pre-crisi.

    La cosa che salta subito all’occhio è che, per tutti i paesi, c’è una sorta di “impennata” iniziale. Appena la crisi colpisce (siamo all’anno “0”), il tasso di disoccupazione giovanile comincia a salire, come se fosse una reazione immediata al trauma economico. Poi, questo tasso continua a crescere per un po’, raggiungendo un picco, un punto massimo. E qui viene il punto cruciale: non è un aumento temporaneo, una fiammata che si spegne subito. No, il grafico ci dice che, una volta raggiunto il picco, il tasso di disoccupazione giovanile rimane lì, su livelli elevati, per diversi anni. È come se l’economia facesse fatica a riassorbire i giovani che hanno perso il lavoro o che non riescono ad entrare nel mondo del lavoro.

    Ora, se ci concentriamo sul Giappone, che è quella linea tratteggiata più in basso, vediamo che anche lì c’è questo schema: la crisi del 1992 porta con sé un aumento della disoccupazione giovanile. Però, se confrontiamo la linea giapponese con quelle di altri paesi, soprattutto quelle più “alte” come Spagna, Finlandia e Stati Uniti (le linee continue più spesse), notiamo subito una differenza importante. L’aumento del tasso di disoccupazione in Giappone sembra essere stato meno pronunciato, meno forte. Il picco raggiunto dalla linea giapponese è più basso, meno accentuato rispetto a quello di altri paesi. E anche se la disoccupazione giovanile in Giappone rimane elevata per un certo periodo, come succede un po’ ovunque, i livelli che raggiunge sono comunque inferiori rispetto a quelli che vediamo in altri paesi.

    Verso la fine del periodo che il grafico ci mostra, notiamo che la linea giapponese comincia a scendere leggermente, suggerendo che finalmente l’economia si sta riprendendo e la disoccupazione giovanile sta diminuendo. Ma anche qui, questa discesa sembra essere più lenta, più graduale rispetto a quella che vediamo, ad esempio, per gli Stati Uniti. È come se la ripresa in Giappone fosse un processo un po’ più faticoso, un po’ più lento.

    Fonte: Naikakufu – Uffico di Ganinetto

    Il grafico illustra l’andamento del tasso di occupazione dei neolaureati in Giappone dal 1985 al 2019, evidenziando il periodo critico della “generazione perduta” (1993-2004). Durante questa fase, il tasso di occupazione dei laureati universitari è crollato di oltre 10 punti percentuali rispetto alla media, mentre quello dei diplomati delle scuole superiori ha subito una diminuzione di circa 7 punti. Questo calo drastico riflette l’impatto devastante della recessione economica degli anni ’90 sulle opportunità di lavoro per i giovani, segnando un’epoca di precarietà e difficoltà nell’inserimento nel mondo del lavoro.

    Cause principali: deflazione, ristrutturazione aziendale e globalizzazione

    Il crollo della bolla speculativa fu il catalizzatore principale, innescando un lungo periodo di deflazione che frenò gli investimenti e alimentò la stagnazione economica. Le aziende, alle prese con crediti inesigibili e un clima di incertezza, avviarono profonde ristrutturazioni, abbandonando gradualmente i pilastri tradizionali come l’impiego a vita e i sistemi salariali basati sull’anzianità. Si orientarono invece verso strategie più flessibili e orientate al risparmio, riducendo drasticamente l’assunzione di neolaureati.

    Questa riorganizzazione aziendale comportò un allontanamento dai pilastri tradizionali giapponesi dell’impiego a vita e dei sistemi salariali basati sull’anzianità. Al contrario, le aziende iniziarono ad adottare strategie di impiego più adattabili e orientate alla riduzione dei costi, in particolare riducendo l’assunzione di neo-laureati.

    Fattori amplificatori

    Inoltre, l’intensificarsi della globalizzazione e l’aumento della concorrenza internazionale esercitarono un’immensa pressione sulle imprese giapponesi affinché migliorassero l’efficienza e riducessero le spese per la manodopera. Pur non essendo un fattore scatenante diretto della crisi iniziale, l’evoluzione demografica del Giappone, caratterizzata da una popolazione che invecchia e da un calo del tasso di natalità, amplificò le sfide economiche esistenti e favorì un senso pervasivo di inquietudine riguardo al futuro della nazione.

    Precarietà e impatto sociale

    La shūshoku hyōgaki e la “generazione perduta” ebbero effetti profondi e duraturi, sia a livello individuale che sociale. Per molti, questo periodo segnò l’inizio di una precarietà occupazionale cronica. Relegati a lavori part-time, temporanei o a contratto, definiti come “impieghi non regolari”, questi individui godevano di salari più bassi, scarsi benefit e una sicurezza lavorativa minima rispetto al modello tradizionale. La difficoltà a trovare stabilità ritardò tutte quelle tappe ritenute fondamentali come il matrimonio, l’acquisto di una casa o la formazione di una famiglia, costringendo molte persone a didendere dai genitori ben oltre l’età adulta.

    La stagnazione salariale e l’instabilità lavorativa acuirono la disuguaglianza economica e sociale, rendendo arduo accumulare ricchezza. Sul piano psicologico, la competizione feroce nel mercato del lavoro generò frustrazione, disillusione e ansia, con casi estremi di isolamento sociale e problemi di salute mentale.

    Infine, un mercato del lavoro così ferocemente competitivo ha avuto un notevole impatto psicologico, portando a diffusi sentimenti di frustrazione, disillusione e ansia. Tragicamente, alcuni individui hanno anche sperimentato isolamento sociale e problemi di salute mentale come conseguenza.

    Ripercussioni a lungo termine

    Le conseguenze di questi eventi si fanno sentire ancora oggi. Nonostante una parziale ripresa economica, la crescita salariale in Giappone è rimasta stagnante per decenni, penalizzando in particolare questa generazione. Il mercato del lavoro continua a mostrare una netta divisione tra dipendenti regolari e non regolari, con differenze significative in termini di retribuzione, benefit e sicurezza.

    Molti della “generazione perduta” sono rimasti intrappolati in lavori precari, incapaci di sfuggire a un ciclo di instabilità. Inoltre, il basso tasso di natalità, in parte legato all’insicurezza economica di questa cohorte, aggrava le sfide demografiche del paese, mettendo sotto pressione il sistema di welfare e sollevando interrogativi sulla sostenibilità futura.

    Conclusione

    Sebbene i termini “generazione perduta” e shūshoku hyōgaki siano oggi meno usati, i problemi di precarietà occupazionale e disuguaglianza economica restano attuali per le giovani generazioni giapponesi. Le vicende di questo periodo rappresentano un monito sulle conseguenze durature delle crisi economiche e sull’importanza di reti di sicurezza sociale e politiche mirate a sostenere i giovani nel mercato del lavoro.

  • La fine di un’era per i bukatsu delle scuole medie giapponesi?

    La fine di un’era per i bukatsu delle scuole medie giapponesi?

    In Giappone, i club scolastici, noti come “bukatsu” (部活), sono da tempo un caposaldo della vita studentesca. Queste attività extracurricolari offrono agli studenti preziose opportunità per sviluppare competenze, costruire amicizie e apprendere importanti lezioni di vita.

    Sono spesso divise in club sportivi e club culturali (calligrafia o cultura tradizionale), ma il numero specifico e il tipo di offerte variano a seconda della regione e della scuola.

    Tuttavia, negli ultimi anni, un vento di cambiamento sta soffiando sui bukatsu delle scuole medie giapponesi. Si è verificato un notevole calo del numero di studenti partecipanti, portando alla chiusura di alcuni circoli e aprendo un dibattito sul futuro di questa istituzione.

    Per affrontare questa sfida, il governo giapponese sta promuovendo una transizione epocale: il passaggio di questi club dalla gestione delle scuole medie alla gestione regionale. Ma cosa significa concretamente questo cambiamento? E quali saranno le conseguenze per gli studenti, gli insegnanti e la comunità?

    Una nuova era per le attività extracurricolari?

    La “transizione regionale” dei bukatsu è un’iniziativa ambiziosa che mira a trasferire la guida e la gestione di queste attività, tradizionalmente svolte dagli insegnanti scolastici, a organizzazioni esterne alla scuola come circoli sportivi locali, club privati con istruttori e organizzazioni non profit.

    Questo cambiamento epocale ha un duplice obiettivo. Da un lato, alleggerire il carico di lavoro degli insegnanti, spesso oberati dalla gestione delle attività extracurriculari oltre alle loro mansioni didattiche. Dall’altro, garantire agli studenti un accesso a un’istruzione di qualità superiore, guidata da esperti nei rispettivi settori. Il governo punta a completare questa transizione entro il 2026, con la speranza di rivitalizzare i bukatsu e renderli più accessibili e attrattivi per le nuove generazioni.

    Impatto sociale

    La possibile scomparsa di questi club ha generato preoccupazioni diffuse tra educatori e genitori. I bukatsu sono molto più di semplici attività extracurricolari: sono considerati un pilastro del sistema educativo giapponese, un ambiente unico che promuove il lavoro di squadra, la disciplina, il rispetto delle regole e un profondo senso di appartenenza.

    “Il mio club di basket è come una seconda famiglia,” racconta una studentessa di scuola media. “Abbiamo imparato a sostenerci a vicenda, a superare le difficoltà insieme. Non riesco a immaginare la scuola media senza il bukatsu.”

    Molti temono che l’eliminazione di questi circoli dalle scuole possa avere conseguenze negative sullo sviluppo sociale ed emotivo degli studenti. I bukatsu, infatti, non sono solo attività extracurricolari, ma veri e propri laboratori di vita. Attraverso la partecipazione a un club sportivo o culturale, gli studenti imparano a lavorare in squadra, a rispettare le regole, a gestire la competizione e la sconfitta, a sviluppare la perseveranza e la disciplina.

    Per molti studenti, il bukatsu rappresenta un importante senso di appartenenza e un luogo dove costruire amicizie durature, elementi cruciali per la loro crescita personale. La loro scomparsa dalle scuole potrebbe privare gli studenti di queste preziose opportunità di crescita.

    Rivitalizzare i bukatsu: iniziative e speranze

    In risposta al calo di partecipazione e alla crescente consapevolezza del valore dei bukatsu, alcune scuole e comunità si sono mobilitate per rivitalizzare questi circoli. Le iniziative sono diverse: dall’offerta di una gamma più ampia di attività, per intercettare i nuovi interessi degli studenti, alla promozione dei benefici dei bukatsu attraverso campagne informative, fino al supporto concreto ai responsabili dei circoli, spesso insegnanti volontari.

    “Speriamo che la transizione regionale sia un’opportunità per rendere i bukatsu ancora più forti,” afferma in un’intervista rilasciata ad un quotidiano un’insegnante di matematica che da anni dedica il suo tempo libero al club di baseball della scuola. “Se riusciamo a collaborare con esperti esterni e a ridurre il carico burocratico per noi insegnanti, potremmo concentrarci di più sull’aspetto educativo e sulla crescita dei ragazzi.”

    Questi sforzi, uniti alla spinta per la gestione regionale, alimentano la speranza di invertire la tendenza negativa e garantire che le future generazioni di studenti possano continuare a beneficiare della ricca esperienza dei bukatsu.

    Una transizione graduale

    L’abolizione delle attività dei circoli scolastici gestiti direttamente dalle scuole medie è già iniziata gradualmente nel 2024. Mentre le attività durante la settimana continueranno a svolgersi all’interno delle scuole, a partire dal 2024, le attività dei circoli nel weekend stanno passando progressivamente sotto il controllo di organizzazioni regionali.

    Ogni ente locale sta pianificando questa transizione in modo autonomo, ma la direzione è chiara: entro la fine del 2025, si prevede che le attività dei circoli del fine settimana saranno completamente abolite in molte scuole, lasciando spazio ad attività gestite a livello locale o regionale come nuova pressi. Nelle principali città, gli standard per le attività sono già stati rivisti dal 2024, con un calendario preciso per l’abolizione dei bukatsu scolastici nel fine settimana entro la fine del 2025. L’obiettivo è chiaro: incentivare gli studenti a partecipare alle attività offerte dai circoli regionali durante il weekend, piuttosto che rimanere legati ai club scolastici.

    Questa tendenza inesorabile punta a una transizione completa delle attività dei bukatsu verso i circoli regionali entro il 2026, con una drastica riduzione delle attività gestite direttamente dalle singole scuole. Ma dietro questa riforma si celano domande cruciali: “Perché i bukatsu scolastici stanno scomparendo?” e “Quando avverrà la loro abolizione definitiva?”. Analizziamo nel dettaglio le ragioni di questa trasformazione, soppesando vantaggi e svantaggi.

    Riduzione del carico di lavoro del corpo insegnanti

    La riduzione del carico di lavoro eccessivo gravante sugli insegnanti sono tra le principali motivazioni dietro la decisione di abolire i bukatsu tradizionali. La gestione dei circoli è diventata un onere insostenibile per molti docenti, con l’impegno al di fuori dell’orario di lavoro che è diventato la norma. Un rapporto del 2023 ha rivelato che un allarmante 42,5% degli insegnanti delle scuole medie pubbliche ha superato il limite legale di ore straordinarie, e un preoccupante 8,1% ha varcato la soglia delle ore che possono condurre al “karoshi“, la tragica morte per eccesso di lavoro.

    La transizione regionale dei bukatsu è una risposta concreta a questa emergenza. Esternalizzandone la gestione a club privati e organizzazioni culturali, si intende creare un ambiente in cui gli insegnanti possano finalmente concentrarsi sulle lezioni quotidiane, alleggerendo il carico di lavoro e potenzialmente migliorando la qualità dell’insegnamento in classe.

    Pressione scolastica e calo demografico

    Un’altra ragione fondamentale è la crescente pressione accademica che grava sugli studenti giapponesi. In un sistema educativo estremamente competitivo, molti ragazzi si sentono costretti a dedicare sempre più tempo allo studio, sacrificando le attività extracurricolari. A questo si aggiunge la complessa sfida demografica del calo del tasso di natalità in Giappone. La diminuzione degli studenti iscritti alle scuole medie rende sempre più difficile sostenere i bukatsu scolastici, soprattutto nelle scuole più piccole.

    In molte scuole con pochi iscritti, i circoli faticano a raggiungere il numero minimo di membri per operare in modo efficace. In questo contesto, diventa sempre più arduo mantenere i bukatsu tradizionali gestiti dalle scuole, spingendo verso la transizione regionale come soluzione pragmatica. La collaborazione con circoli sportivi regionali, privati e organizzazioni culturali rappresenta un tentativo di mitigare l’impatto del calo demografico e offrire agli studenti nuove opportunità di partecipazione.

    Il grafico illustra chiaramente i motivi per cui è in corso una riforma delle attività sportive nelle scuole medie giapponesi, evidenziando i cambiamenti demografici e le problematiche emergenti nel contesto delle attività extracurriculari.

    Linea blu (中学校の在学者数 – Numero di studenti delle scuole medie): mostra un andamento in calo nel tempo, riflettendo il declino demografico. I valori diminuiscono da circa 124.000 (2007) a circa 116.000 (2021).

    Linea arancione (1運動部あたりの人数 – Numero di studenti per club sportivo): Anche questa linea mostra un trend discendente, passando da circa 19,3 studenti per club (2007) a circa 16,4 studenti per club (2021). Questo indica che, in media, ogni club sportivo ha sempre meno membri.

    Barre grigie (一運動部活動数 – Numero di attività di club sportivi): mostrano una diminuzione nel numero totale di attività di club sportivi nel tempo, passando da circa 118.000 (2007) a circa 11.600 (2021). Questo suggerisce che, oltre alla diminuzione dei membri per club, sta diminuendo anche il numero totale di club attivi.

    In sintesi, il grafico evidenzia come il calo demografico in Giappone stia impattando negativamente sulle attività sportive scolastiche nelle scuole medie, portando a una riduzione del numero di studenti, del numero di membri per club e del numero totale di club attivi. Questi fattori sono alla base della necessità di una riforma delle attività di club (部活動改革 – bukatsudō kaikaku) per garantire che le attività sportive scolastiche rimangano vitali e accessibili per gli studenti.

    Fonte dei dati

    中学校在学者数:「学校基本調査」/1運動部あたりの人数・運動部活動数:日本中学校体育連盟による調査

    “Numero di studenti delle scuole medie: “Indagine fondamentale sulle scuole” / Numero di studenti per club sportivo, Numero di attività di club sportivi: Indagine condotta dalla Federazione sportiva delle scuole medie giapponesi”

    Fonti

    日本中学校体育連盟 / Federazione sportiva delle scuole medie giapponesi

    文部科学省 / Ministero dell’Istruzione e della Ricerca

    Meno lavoro per gli insegnanti, più qualità per gli studenti

    La transizione regionale dei bukatsu promette diversi vantaggi. Il primo e più evidente è la riduzione del carico di lavoro degli insegnanti, liberandoli da un impegno gravoso e permettendo loro di concentrarsi sulla didattica. Questo cambiamento mira a promuovere una vera e propria “riforma degli stili di lavoro” per la categoria degli insegnanti.

    Un secondo, grande vantaggio è rappresentato dalla maggiore opportunità per gli studenti di ricevere un’istruzione specializzata e di alta qualità nelle attività dei circoli. Affidando la formazione a club privati e organizzazioni culturali, si garantisce l’intervento di istruttori esperti e qualificati, consentendo agli studenti di sviluppare al meglio il proprio talento e le proprie capacità individuali. Inoltre, il coinvolgimento dell’intera comunità locale nello sviluppo sociale dei giovani studenti potrebbe innescare una rivitalizzazione del tessuto comunitario stesso.

    Svantaggi e sfide

    Nonostante i potenziali benefici, la transizione regionale presenta anche degli svantaggi. La difficoltà maggiore è il reperimento di istruttori qualificati, soprattutto nelle aree rurali. La carenza di personale specializzato potrebbe creare disparità regionali, con studenti in aree urbane avvantaggiati rispetto a quelli in zone rurali nell’accesso a un’istruzione di alta qualità. Si teme, quindi, un ampliamento del divario educativo tra città e campagna.

    Un altro svantaggio è l’aumento potenziale dei costi per le famiglie. La partecipazione a club privati o associazioni culturali spesso comporta quote di iscrizione mensili e spese di trasporto, che potrebbero rappresentare un nuovo onere finanziario per i bilanci familiari, soprattutto per quelli meno abbienti. Infine, con l’aumento delle attività svolte al di fuori della scuola, la gestione della sicurezza degli studenti diventa più complessa e richiede nuove strategie e attenzioni.

    Verso il 2026

    La transizione regionale dei bukatsu delle scuole medie è un processo complesso e in divenire, destinato a completarsi a livello nazionale entro il 2026, quando si prevede che la maggior parte delle scuole avrà trasferito completamente le attività, riducendo drasticamente o annullando i bukatsu gestiti internamente.

    Il futuro dei bukatsu potrebbe essere ibrido, ovvero gestiti dalle scuole durante la settimana e attività extracurriculari regionali nel fine settimana. Con questa transizione, si mira a creare un sistema in cui circoli sportivi regionali e organizzazioni culturali assumano un ruolo guida nell’istruzione degli studenti, garantendo al contempo una maggiore specializzazione e un minor carico di lavoro per gli insegnanti. Per affrontare le sfide specifiche di ogni territorio, gli enti locali avranno un ruolo chiave nell’attuazione di misure di sostegno personalizzate, mirando a eliminare le disparità regionali e a rafforzare la sicurezza degli studenti.

    Se la transizione avrà successo, si spera di offrire agli studenti un ambiente di attività più gratificante e stimolante, e di permettere agli insegnanti di concentrarsi con rinnovato impegno sulla loro missione educativa primaria. Il futuro dei bukatsu è in movimento, e il 2026 sarà un anno cruciale per capire se questa trasformazione epocale porterà i frutti sperati.

  • Funadama-sama: la protrettrice delle imbarcazioni

    Funadama-sama: la protrettrice delle imbarcazioni

    Immergiamoci oggi in un universo affascinante e misterioso: quello delle credenze popolari giapponesi legate al mare. Qui, un kami speciale, Funadama-sama (船玉様), si erge a protettore delle imbarcazioni e dei loro equipaggi. Conosciuto con nomi diversi a seconda delle regioni, questo spirito è venerato come il guardiano delle navi, colui che assicura traversate sicure e propizia una pesca generosa. Funadama-sama, letteralmente “spirito della nave”, è l’incarnazione della protezione divina per chiunque solchi le acque, un concetto profondamente radicato nella cultura marinara giapponese, dove il mare è da sempre fonte di vita e, al tempo stesso, un luogo insidioso.

    Chi è Funadama-sama?

    Nel cuore del folklore marinaro giapponese, si narra che Funadama-sama risieda nelle stesse imbarcazioni. La sua figura si intreccia con antiche tradizioni e superstizioni, tra cui un tabù ormai in declino che interdiva alle donne l’accesso ai pescherecci. Questa usanza, oggi meno diffusa, affondava le radici in arcaiche credenze popolari legate a concetti di purezza e impurità, alimentate dal timore dell’invidia che la divinità femminile poteva nutrire verso la bellezza delle donne.

    Il concetto di kegare e Funadama-sama

    Nel pensiero tradizionale giapponese, il concetto di kegare (穢れ) indica uno stato di impurità o contaminazione, spesso associato a eventi cruciali come la morte, il parto e, in particolare, le mestruazioni. Queste ultime, un tempo, erano percepite come una forma di kegare capace di influenzare negativamente la comunità e l’ambiente circostante.

    Antiche superstizioni

    Nel contesto della pesca, si riteneva che la presenza di una donna durante il ciclo mestruale a bordo potesse attirare la sfortuna, compromettere il pescato e persino scatenare violente tempeste. Questa credenza nasceva dalla paura che il kegare mestruale potesse offendere Funadama-sama, provocando la sua collera.

    Un’ulteriore superstizione dipingeva Funadama-sama, spesso immaginata come una divinità femminile gelosa, pronta a infuriarsi contro la nave per la presenza di altre donne, soprattutto se giovani e belle.

    Fortunatamente, queste credenze stanno gradualmente svanendo. L’evoluzione della società e la trasformazione dei ruoli di genere hanno contribuito a mettere in discussione queste antiche superstizioni. Sebbene in alcune comunità di pescatori più legate alle tradizioni il tabù persista, in molte altre zone del Giappone le donne sono attivamente coinvolte nel settore della pesca, pur rimanendo una minoranza. La presenza femminile a bordo è diventata più frequente, specialmente nelle attività di acquacoltura e pesca costiera.

    Rappresentazione di Funadama-sama

    La rappresentazione di Funadama-sama, il goshintai (御神体), ovvero l’oggetto che incarna il suo spirito, varia a seconda delle usanze locali. La forma più comune, diffusa in tutto il Giappone, è quella di una coppia di bambole di carta, una maschile e una femminile, simbolo di equilibrio e protezione. Altre raffigurazioni includono oggetti simbolici come cereali, monete, dadi e persino ciocche di capelli femminili. A volte, vengono offerti anche cosmetici come cipria e rossetto, un omaggio alla natura femminile di Funadama.

    Coppia di bambole appartenente al Museo della prefettura di Tokushima

    Si dice anche che coppia di bambole viene inclusa come sostituto della vita dei marinai in caso di incidenti.

    Tradizionalmente, i carpentieri navali, i funadaiku (船大工), erano incaricati di installare il goshintai nelle nuove imbarcazioni durante la cerimonia di varo, il fune oroshi (船下ろし). Questo rito sottolineava il profondo legame tra l’arte della costruzione navale e la protezione divina. Il goshintai trovava posto in un’area specifica della barca: nelle piccole imbarcazioni in legno senza ponte, veniva ricavato un incavo nella trave di prua, la hesaki (舳先), per accoglierlo; nelle navi di maggiori dimensioni e dotate di cabina di pilotaggio, invece, veniva allestito un piccolo altare, un kami-dana, o in alternativa un hokora (祠, un piccolo santuario) all’interno della cabina stessa.

    Intorno alla figura di Funadama-sama sono nate leggende e tradizioni affascinanti. Si racconta, ad esempio, che la divinità possa manifestarsi attraverso suoni misteriosi, come un tintinnio, per preannunciare tempeste imminenti o una pesca particolarmente abbondante. Questa credenza consolida il legame tra i pescatori e la divinità, percepita come una presenza benevola e protettiva.

    Funadama-sama è oggetto di venerazione durante le festività del Nuovo Anno, con offerte votive di mochi, sakè, riso e sale. In questo periodo, le navi si adornano di rami di pino e corde shimenawa, e vengono issate grandi bandiere in suo onore.

    I dadi

    Un aneddoto curioso, narratomi da un capitano della marina militare giapponese che incontro spesso per lavoro, riguarda l’usanza di disporre i dadi sul kamidana secondo un ordine preciso, utilizzando una frase mnemonica e prendendo come riferimento la poppa della nave:

    天一地六五東西二南三北四

    Questa frase indica che i dadi devono essere posizionati con la faccia “1” rivolta verso il cielo e la “6” verso la terra. Il numero “3” è orientato verso la prua e il “4” verso la poppa, mentre il “5” si trova su entrambi i lati esterni e il “2” all’interno.

    Utilizzando comuni dadi da gioco, questa combinazione risulta impossibile. Il segreto risiede nell’esistenza di dadi “maschi” e “femmina”. Mentre i dadi “femmina”, di uso comune, presentano una specifica disposizione dei numeri, i dadi “maschi” hanno una configurazione differente, essenziale per completare la “coppia sacra” durante il rituale. Questa usanza evidenzia l’importanza della dualità e del simbolismo nei rituali tradizionali giapponesi, dove anche gli oggetti più semplici, come i dadi, possono celare significati profondi.

    In conclusione, Funadama-sama incarna un aspetto fondamentale della cultura marinara giapponese, intrecciando devozione religiosa e complesse credenze popolari. La sua figura testimonia il profondo rispetto e la secolare dipendenza dell’uomo dal mare.

  • Le ombre cangianti del crisantemo: uno sguardo alla prostituzione in Giappone

    Le ombre cangianti del crisantemo: uno sguardo alla prostituzione in Giappone

    Introduzione

    Il Giappone, una nazione immersa in antiche tradizioni e al contempo sempre proiettata verso la modernizzazione, vive una relazione complessa e spesso paradossale con la sua industria del sesso. Sebbene le forme manifeste di prostituzione siano legalmente proibite, una fiorente “industria dell’acqua” (水商売, mizushōbai) persiste, destreggiandosi abilmente tra le scappatoie legali e in continua evoluzione per riflettere i cambiamenti sociali contemporanei. Questo articolo si propone di approfondire il contesto storico, il quadro giuridico e le espressioni moderne della prostituzione in Giappone, esplorando le intricate dinamiche che operano sotto la superficie di questo complesso fenomeno sociale.

    Uno sguardo storico sulla prostituzione in giappone

    La storia della prostituzione in Giappone abbraccia molti secoli.

    Il periodo Edo e gli yūkaku

    Durante il periodo Edo (1603-1868), quartieri di piacere ufficialmente sanciti, noti come yūkaku (遊廓), prosperarono nei principali centri urbani come Edo (l’odierna Tōkyō), Kyōto e Ōsaka. Questi distretti designati ospitavano cortigiane, tra cui le molto venerate oiran (花魁), donne di raffinato talento artistico che intrattenevano una clientela d’élite. Questo sistema, pur essendo strettamente regolato dallo shogunato, conferiva un certo grado di legittimità sociale ad alcune forme di lavoro sessuale.

    Dopoguerra e l’influenza americana

    Le conseguenze della seconda guerra mondiale, segnate dall’occupazione alleata, innescarono profondi cambiamenti. La presenza di soldati americani aumentò significativamente la domanda di servizi sessuali, portando alla creazione di “stazioni di conforto” e altre forme organizzate di prostituzione. Questa era lasciò un segno indelebile sul tessuto sociale del Giappone e giocò un ruolo significativo nell’attuazione della legge anti-prostituzione.

    La legge anti-prostituzione e le sue scappatoie

    Nel 1956, il Giappone promulgò la legge anti-prostituzione (売春防止法, Baishun Bōshi Hō), entrata in vigore nel 1958. Questa legislazione proibisce esplicitamente “sollecitare o accettare sollecitazioni alla prostituzione”, definendo la prostituzione come “avere rapporti sessuali con una persona non specificata in cambio di una remunerazione”. Tuttavia, questa definizione si concentra strettamente sul sesso penetrativo, creando così un’ambiguità legale che ha permesso ad altre forme di servizi sessuali di prosperare.

    Ambiguità legali e l’industria fūzoku

    Questa ambiguità ha facilitato l’espansione dell’industria fūzoku (風俗), un termine ampio che comprende una vasta gamma di attività che offrono servizi che vanno dal massaggio e compagnia ad atti più esplicitamente sessuali che si fermano prima della penetrazione. Questi stabilimenti, che operano spesso sotto la copertura di “soapland” (ソープランド) o “image club” (イメージクラブ), sfruttano queste zone grigie legali per soddisfare una domanda sostanziale e costante.

    Panorama moderno della prostituzione in Giappone

    Il vocabolario utilizzato in giapponese per descrivere la prostituzione e le attività correlate offre una visione delle sfumature di questo settore. Il termine per “prostituzione” stesso è baishun (売春 ). Una “persona che esercita la prostituzione” potrebbe essere indicata come baishunfu (売春婦), sebbene questo termine sia spesso considerato dispregiativo e il più eufemistico fūzokujō (風俗嬢) sia più comunemente usato. Un “cliente” è semplicemente indicato come kyaku (客 ), come per tutte le attività economiche.

    Soapland e gli image club

    Il panorama contemporaneo della prostituzione in Giappone è multiforme e comprende una varietà di forme. Le “soapland” forniscono servizi di bagno che spesso includono servizi sessuali che evitano la penetrazione diretta. Gli “image club” offrono una gamma più ampia di servizi, inclusi atti sessuali simulati e sesso telefonico.

    Delivery health e tachinbo

    Il “delivery health” (deriberi herusu) prevede che le persone che esercitano la prostituzione si rechino presso le residenze o le camere d’albergo dei clienti. “Tachinbo” (立ちん坊) si riferisce alla prostituzione di strada, che spesso coinvolge giovani donne nei centri urbani.

    Il controverso JK business

    Infine, il “JK Business” (JKビジネス), una pratica molto controversa, coinvolge giovani donne, spesso studentesse delle scuole superiori (joshikōsei 女子高生), che offrono “incontri previo compenso” o altri servizi che possono potenzialmente portare allo sfruttamento.

    Prostituzione Giovanile, il papa-katsu

    La prostituzione giovanile in Giappone presenta una questione sociale complessa e profondamente preoccupante, radicata in una confluenza di dinamiche sociali ed economiche. Sebbene le cifre precise rimangano elusive a causa della natura clandestina di queste attività, è evidente che un numero significativo di giovani, spesso studentesse delle scuole superiori, viene coinvolto in varie forme di lavoro sessuale.

    Enjo kōsai e l’evoluzione nel papa-katsu

    Tradizionalmente, il termine enjo kōsai (援助交際), letteralmente “frequentazione assistita”, era usato per descrivere eufemisticamente le relazioni in cui le ragazze ricevevano denaro o regali da uomini più anziani in cambio di compagnia, appuntamenti o, in alcuni casi, rapporti sessuali. Questo fenomeno si è evoluto nel tempo, assumendo nuove forme e sfumature, in particolare il papa-katsu (パパ活) o p-katsu, lo “sugar daddy“.

    Il papa-katsu si distingue dall’enjo kōsai per una maggiore enfasi sul presunto consenso reciproco e una definizione più esplicita dei termini dell’accordo. Piuttosto che una relazione continuativa, il papa-katsu spesso prevede una serie di incontri distinti in cui la giovane e l’uomo più anziano (il “papà”) predeterminano ciò che è incluso nell’accordo, che può variare da semplici cene o gite di shopping ad atti sessuali espliciti. L’elemento cruciale è lo scambio di denaro o beni materiali in cambio di compagnia e, potenzialmente, sesso.

    È legale?

    Si tratta di una zona grigia, che naturalmente dipende dall’età della giovane donna e dal fatto che la relazione con il suo “papà” preveda rapporti sessuali in cambio di denaro. Se una ragazza ha meno di 18 anni, è considerata una vittima di sfruttamento minorile, in base alla Legge nazionale sul benessere dei minori del 1947. Questa legge definisce come reato punibile il “provocare” una persona di età inferiore ai 18 anni, di entrambi i sessi, a compiere “atti osceni”. La giurisprudenza ha successivamente stabilito che il concetto di “provocare” può includere contatti fisici diretti, pressioni indirette o stress psicologico. Gli “atti osceni” non si limitano quindi ai soli rapporti sessuali.

    Fattori contribuenti e conseguenze

    Diversi fattori contribuiscono alla prevalenza di queste pratiche: difficoltà economiche, pressioni sociali, problemi familiari e l’influenza dei social media e di internet.

    Il papa-katsu si inserisce in un contesto socio-economico giapponese che ne favorisce l’attrattiva, soprattutto per le giovani donne. Questo fenomeno non è semplicemente una ricerca di guadagno facile, ma spesso una risposta a difficoltà economiche concrete e alla mancanza di alternative lavorative soddisfacenti.

    Molte giovani donne si trovano a fronteggiare la necessità di sostenere uno stile di vita che include spese per intrattenimento, abbigliamento, cosmetici e, talvolta, interventi di chirurgia estetica, spesso implicitamente richiesti o incentivati dagli stessi “papà”. Questo crea un circolo vizioso in cui le spese aumentano parallelamente alle aspettative.

    In questo scenario, le opportunità lavorative tradizionali appaiono poco allettanti. I lavori part-time a bassa specializzazione, spesso caratterizzati da orari lunghi e stipendi bassi, non offrono un’alternativa economicamente valida. Il salario minimo in Giappone, che si attesta in media intorno ai 1.114 yen (circa 6,80 Euro) all’ora, impallidisce di fronte alle somme che si possono ottenere attraverso il papa-katsu. Questo divario economico rende il papa-katsu una fonte di reddito significativamente più redditizia, almeno nel breve termine.

    La situazione è stata ulteriormente aggravata dalla pandemia di COVID-19. La crisi economica conseguente ha colpito duramente l’occupazione femminile, con un impatto sproporzionato rispetto a quello subito dagli uomini. Secondo un’inchiesta condotta dalla NHK, nel periodo successivo all’inizio della pandemia, una donna su quattro ha subito conseguenze negative sul lavoro, tra cui perdita del posto, richieste di congedo non retribuito e riduzione delle ore lavorative. La difficoltà di trovare o mantenere un impiego, unita alla necessità di far fronte alle spese quotidiane, ha spinto molte donne a ricorrere al papa-katsu come unica soluzione per la propria sussistenza.

    Le conseguenze per le giovani donne coinvolte in queste pratiche possono essere significative, tra cui sfruttamento e abuso, rischi per la salute, impatto psicologico e coinvolgimento in attività illegali.

    Il governo giapponese e varie organizzazioni non governative stanno lavorando per affrontare il problema della prostituzione giovanile attraverso diverse iniziative, tra cui campagne di sensibilizzazione pubblica, servizi di supporto e consulenza, monitoraggio online e offline e programmi di reinserimento sociale.

    Prostituzione all’estero

    Il fenomeno delle donne giapponesi che viaggiano all’estero per prostituirsi, in particolare in altri paesi asiatici, è un motivo di preoccupazione da diversi decenni. Questo movimento è spesso indicato come “Japayuki-san” (ジャパゆきさん), un termine che ha guadagnato importanza negli anni ’80 e ’90. È un gioco di parole sul termine “Karayuki-san” (からゆきさん), che storicamente si riferiva alle donne giapponesi che viaggiavano all’estero, in particolare nell’Asia orientale e sud-orientale, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo per lavorare come prostitute o in altre forme di lavoro di servizio. Il termine ha una connotazione complessa, che comprende sia motivazioni economiche sia dinamiche di sfruttamento.

    Le motivazioni e il ruolo della yakuza

    Diversi fattori hanno contribuito a questa tendenza. Durante la bolla economica giapponese degli anni ’80, la domanda di hostess e prostitute giapponesi in altre nazioni asiatiche, soprattutto nel sud-est asiatico e in Australia, crebbe significativamente. La prospettiva di guadagni più elevati all’estero era un forte incentivo. Alcune donne cercavano anche di sfuggire alle pressioni sociali o a difficili situazioni personali in Giappone. Gruppi criminali organizzati, come la yakuza, hanno svolto un ruolo significativo in questo fenomeno, facilitando e gestendo le operazioni di prostituzione all’estero. Hanno creato reti per reclutare donne, organizzare viaggi e alloggi e supervisionare le loro attività in paesi stranieri.

    Destinazioni e gestione delle operazioni

    Tra le destinazioni più comuni c’erano il sud-est asiatico, con paesi come Thailandia, Filippine e Singapore, mete popolari a causa delle industrie del turismo sessuale preesistenti, e l’Australia, con un afflusso di prostitute giapponesi in grandi città come Sydney e Melbourne.

    La gestione delle operazioni di prostituzione all’estero variava. Alcune donne lavoravano in modo indipendente, mentre altre erano impiegate in club, bar o bordelli, spesso controllati o collegati alla yakuza. Lo sfruttamento era una seria preoccupazione. Le donne venivano a volte attirate con promesse di alti guadagni, ma poi costrette a una forma di servitù per debiti per coprire viaggi, alloggi e altre spese.

    Il fenomeno sollevò complesse questioni legali e sociali. Lo sfruttamento di donne giapponesi all’estero spesso costituiva tratta di esseri umani, un grave crimine internazionale. Affrontare questo problema richiese cooperazione internazionale tra le forze dell’ordine giapponesi e quelle dei paesi di destinazione. Le donne che tornavano in Giappone spesso si trovavano ad affrontare stigma sociale e difficoltà di reintegrazione nella società.

    Sebbene il movimento su larga scala, come visto negli anni ’80 e ’90, sia diminuito, la questione delle donne giapponesi che si dedicano al lavoro sessuale all’estero persiste in varie forme, spesso facilitata da internet e dai social media. Questo contesto moderno può coinvolgere piattaforme online che collegano individui o operazioni più piccole e discrete.

    L’aumento della prostituzione in Giappone

    Le conseguenze economiche e sociali della pandemia di COVID-19 hanno avuto ripercussioni di vasta portata a livello globale, e il Giappone non fa eccezione. Sebbene il paese abbia gestito la pandemia con tassi di infezione relativamente bassi rispetto ad altre nazioni, le ripercussioni economiche sono state significative, contribuendo a un percepito aumento della prostituzione. Questo fenomeno è complesso e multiforme, radicato in problematiche sociali preesistenti esacerbate dalla pandemia.

    Difficoltà economiche e vulnerabilità

    Uno dei principali fattori trainanti di questa tendenza è l’aumentata vulnerabilità finanziaria di molti individui, in particolare delle donne. La perdita di posti di lavoro, la riduzione delle ore lavorative hanno spinto alcune verso la prostituzione come mezzo di sopravvivenza. Ciò è particolarmente vero per le donne che lavorano nei settori dell’intrattenimento, che sono stati gravemente colpiti da lockdown e restrizioni. Rapporti di organizzazioni che assistono le prostitute evidenziano un’impennata di “nuove arrivate”, molte delle quali citano la disperazione finanziaria come motivazione principale.

    Diversi organi di stampa e inchieste giornalistiche hanno evidenziato la crescente visibilità della prostituzione in alcune aree, come il quartiere Kabukicho di Tōkyō. Questi reportage citano spesso racconti di prostitute, assistenti sociali e residenti locali, dipingendo un quadro di un problema in crescita. Ad esempio, articoli sul Japan Times e sull’Asahi Shimbun hanno discusso le difficoltà delle donne costrette alla prostituzione a causa delle difficoltà finanziarie causate dalla pandemia. Sebbene questi reportage non forniscano dati statistici concreti, offrono preziose informazioni sulle esperienze vissute dalle persone coinvolte e sul contesto sociale che circonda questo problema.

    Tendenze sulla prostituzione in Giappone

    La raccolta di dati statistici accurati sulla prostituzione in Giappone è difficile a causa della natura clandestina del settore. Le statistiche ufficiali del governo si concentrano principalmente su arresti e violazioni della legge anti-prostituzione. Dati completi sulla prevalenza di diverse forme di lavoro sessuale o sul numero totale di individui coinvolti sono scarsi. Tutti i dati raccolti sono consultabili all’interno dei rapporti pubblicati dall’Agenzia Nazionale di Polizia del Giappone (警察庁, Keisatsu-chō) e dal Ministero della Salute, del Lavoro e del Welfare (厚生労働省, Kōsei Rōdō-shō).

    Conclusione

    La prostituzione in Giappone rimane una questione complessa e multiforme. Sebbene legalmente proibito, il settore ha dimostrato una notevole capacità di adattamento, evolvendosi continuamente per aggirare le scappatoie legali e rispondere alle mutevoli realtà sociali ed economiche. Il dibattito in corso sul quadro giuridico, unito alle persistenti sfide nell’affrontare la prostituzione e lo sfruttamento minorile, sottolinea la necessità critica di un dialogo continuo e dello sviluppo di politiche sociali efficaci per affrontare le varie dimensioni di questo duraturo fenomeno sociale.










  • Toshigami: il kami del nuovo anno in Giappone

    Toshigami: il kami del nuovo anno in Giappone

    Mentre l’anno volge al termine, molte culture in tutto il mondo si impegnano in tradizioni uniche per accogliere il nuovo anno. In Giappone, una figura centrale in queste celebrazioni è toshigami (年神), il kami, o spirito del nuovo anno. Più che una semplice figura simbolica, toshigami incarna le speranze di prosperità, salute e felicità per l’anno a venire, profondamente intrecciate con la venerazione degli antenati e il mondo naturale. Questo articolo approfondisce le ricche tradizioni legate al toshigami, esplorandone le origini, il significato e la rilevanza nel Giappone moderno.

    Si crede che toshigami, noto anche come shōgatsu-sama (正月様) o toshitokujin (歳徳神), discenda dalle montagne il giorno di Capodanno, portando benedizioni a ogni famiglia. Questa discesa collega toshigami agli spiriti degli antenati che, secondo antiche credenze, divennero divinità dei campi e delle montagne dopo la morte. Durante il nuovo anno, questi spiriti ancestrali ritornano sotto forma di toshigami per vegliare sui loro discendenti e donare buona fortuna.

    Il nome stesso offre una comprensione del suo significato. Il termine “toshi” in toshigami è collegato al termine “minori” (稔り), che fa riferimento ai frutti del raccolto. Si narra che accogliere toshigami protegga il raccolto dell’anno e porti prosperità in generale. Un tempo, “Minori” evocava l’immagine di ricchi raccolti di cereali, ma oggi il suo significato si estende anche alla fortuna di un reddito sicuro, che garantisce il sostentamento della famiglia durante l’anno.

    Kami” (神) significa semplicemente dio o spirito. Pertanto, toshigami può essere inteso come il “Dio dell’Anno del Raccolto” o lo “Spirito dell’Anno Abbondante”. Questa etimologia sottolinea il ruolo della divinità nel garantire prosperità e sostentamento.

    Questo profondo legame con gli antenati spiega il rispetto e la riverenza tributati a toshigami. Le famiglie si preparano all’arrivo di questa importante divinità attraverso varie usanze e tradizioni, trasformando le loro case in spazi accoglienti. Questa tradizione è radicata nella credenza shintoista della venerazione degli antenati, dove si ritiene che gli spiriti dei familiari defunti continuino a influenzare la vita dei vivi. Accogliendo toshigami, le famiglie non solo celebrano l’inizio di un nuovo anno, ma onorano anche il loro lignaggio e cercano la loro continua protezione e guida.

    Diversi elementi chiave caratterizzano i preparativi per l’accoglienza di Toshigami durante lo shōgatsu:

    Queste elaborate decorazioni, composte da pino, bambù e talvolta rami di prugno, vengono collocate all’ingresso delle case. Il pino (matsu) rappresenta la longevità, il bambù (take) simboleggia la resilienza e il prugno (ume) significa perseveranza. Insieme, sono un faro di benvenuto per toshigami, fungendo da dimora temporanea per la divinità.

    Kadomatsu

    Queste decorazioni tradizionali, veri e propri portali simbolici, sono composte principalmente da bambù tagliato diagonalmente e rami di pino, a cui spesso si aggiungono rami di prugno o felci, arricchendo ulteriormente il loro significato.

    Come due guardiani all’ingresso, i kadomatsu si ergono in coppia, uno su ciascun lato della porta principale, invitando il toshigami, la divinità dell’anno nuovo, a entrare e portare le sue benedizioni tra le mura domestiche.

    La tradizione vuole che i kadomatsu esposti siano almeno della stessa grandezza di quelli dell’anno precedente, se non addirittura maggiori. Si pensa infatti che utilizzare decorazioni più piccole presagisca un declino della fortuna, un’ombra che nessuno desidera proiettare sul nuovo inizio.

    Ma qual è il significato di quel taglio obliquo che caratterizza il bambù?

    La storia narra che questa usanza risalga all’epoca di Tokugawa Ieyasu. Una teoria, avvolta da un alone di leggenda, suggerisce che il taglio diagonale fosse un monito, un perenne ricordo della sconfitta subita contro Takeda Shingen nella famosa battaglia di Mitakagahara, un invito costante alla cautela e alla vigilanza. Tuttavia, oggi, questa interpretazione è quasi del tutto scomparsa.

    Il taglio angolato, invece, è visto come un sorriso beneaugurante, un simbolo di gioia che attrae buona fortuna, felicità e prosperità per l’anno che comincia. Così, i kadomatsu, con il loro sorriso di bambù e il profumo di pino, diventano non solo decorazioni, ma veri e propri custodi della buona sorte, pronti ad accogliere il nuovo anno con ottimismo e speranza.

    Corde di paglia sacre, spesso adornate con strisce di carta bianca dette shide, vengono appese sopra le porte. Queste corde, chiamate shimekazari, hanno un duplice scopo: allontanare gli spiriti maligni e creare uno spazio purificato in cui toshigami possa entrare. Segnano il confine tra il sacro e il profano, garantendo un ambiente pulito e di buon auspicio per l’arrivo della divinità.

    Shimekazari sulla porta di ingresso

    Queste torte di riso rotonde e piatte, spesso impilate su due livelli, vengono offerte a toshigami. La forma rotonda simboleggia lo specchio (kagami), che rappresenta l’anima della divinità. I due livelli possono rappresentare l’anno passato e quello che arriva o il sole e la luna. Dopo un determinato periodo, il kagami-mochi viene rotto e mangiato in un rituale chiamato kagami biraki (鏡開き), che simboleggia la condivisione del potere e delle benedizioni della divinità tra i componenti della famiglia.

    Questa tipica cucina di Capodanno consiste in piatti splendidamente disposti e simbolicamente significativi. Ogni piatto porta con sé un significato specifico, come buona salute, prosperità o felicità. Questi piatti vengono condivisi con la famiglia e offerti al toshigami. La presentazione intricata e gli ingredienti simbolici dell’osechi ryori riflettono l’importanza di questa tradizione nell’accogliere il nuovo anno e onorare Toshigami.

    Osechi ryori

    Toshigami rappresenta più di una singola divinità; incarna le speranze e i desideri collettivi per il futuro. Le tradizioni che circondano toshigami servono a rafforzare i legami familiari, rafforzare i valori culturali e connettere le persone alle loro radici ancestrali e al mondo naturale. Accogliendolo, le famiglie esprimono la loro gratitudine per l’anno passato e le loro speranze per un nuovo anno prospero e appagante.

    Toshigami è anche strettamente legato al concetto di ehō (恵方), la direzione fortunata dell’anno. Il toshitokujin (歳徳神), spesso identificato con toshigami, risiede in questa direzione e si ritiene che compiere azioni rivolti in questa direzione porti fortuna. Questa connessione sottolinea ulteriormente l’importanza del toshigami nel portare benessere e prosperità generale. Per il 2025, l’ehō è ovest-sud-ovest leggermente ovest (in giapponese sei-nan-sei 西南西, yaya-seihō やや西方), una direzione da tenere a mente durante le celebrazioni.

    Nel mondo odierno in rapida evoluzione, le tradizioni che circondano il toshigami offrono un prezioso legame con il passato, ricordandoci l’importanza della famiglia, della comunità e del rispetto per il mondo naturale. Mentre alcuni dei preparativi più elaborati potrebbero essere semplificati o adattati nelle case moderne, i valori fondamentali di accogliere la buona fortuna e onorare gli antenati rimangono.

    Per le giovani generazioni, queste tradizioni possono offrire un senso di identità culturale e di connessione con il loro patrimonio. Anche se il Giappone abbraccia la modernità, lo spirito del toshigami continua a ispirare speranza e rinnovamento, ricordandoci il potere duraturo della tradizione e l’importanza di guardare al futuro con ottimismo.

  • Shimekazari: una decorazione giapponese per un felice anno nuovo

    Shimekazari: una decorazione giapponese per un felice anno nuovo

    Mentre l’aria frizzante dell’inverno annuncia l’arrivo di un nuovo anno, il Giappone si prepara per un periodo di rinnovamento e speranza. Come abbiamo discusso nel nostro recente articolo del blog, il Capodanno in Giappone, o shōgatsu (正月), è un momento in cui le famiglie si riuniscono, gustano cibi speciali come l’osechi-ryori (お節料理) e visitano santuari e templi per l’hatsumōde (初詣), la prima visita al santuario dell’anno. Tra queste tradizioni, un simbolo onnipresente spicca: le shimekazari (しめ飾り), una decorazione di corda sacra appesa sopra gli ingressi per allontanare il male e invitare la buona fortuna.

    Shimekazari tradizionale appeso all’ingresso di una casa giapponese durante il Capodanno

    Essenza delle shimekazari: significato e origini

    Un simbolo di sacralità

    Il termine shimekazari racchiude un profondo significato simbolico. “Shime” (しめ) si riferisce a una corda o un cordone che delimita uno spazio sacro, separandolo dal profano. Questo concetto è strettamente legato alle shimenawa (注連縄), le spesse corde di paglia di riso utilizzate nei rituali shintoisti per delimitare aree sacre come santuari e oggetti di culto. “Kazari” (飾り) significa semplicemente decorazione. Pertanto, shimekazari si traduce letteralmente in “decorazione di corda sacra”, evidenziando il suo ruolo di confine purificato per l’anno nuovo. A differenza delle shimenawa, utilizzate in contesti più ampi, le shimekazari sono specificamente legate alle celebrazioni del Capodanno, assumendo forme più elaborate e simboliche

    Foto dell’ autore: shimenawa presso un santuario locale

    Radici mitologiche e tradizioni shintoiste

    Le origini delle shimekazari affondano nelle antiche credenze shintoiste. Le corde, soprattutto quelle di paglia di riso, erano utilizzate per tracciare confini sacri, proteggendo gli spazi rituali dalle impurità nota come kegare (穢れ). Il kegare rappresentava uno stato di contaminazione rituale associato a eventi come la morte e la malattia, considerati perturbatori dell’ordine naturale e portatori di sfortuna. Le shimekazari fungono quindi da barriera protettiva contro il kegare, purificando lo spazio domestico. Questa pratica trae ispirazione dal mito di Amaterasu, la dea del sole, che si ritirò in una grotta, avvolgendo il mondo nell’oscurità. Al suo ritorno, gli altri dei sigillarono l’ingresso della grotta con una corda sacra, impedendole di tornare indietro. Questo mito consacrò la corda come simbolo di purificazione e protezione. Durante il periodo Heian (794-1185), l’uso delle shimekazari per accogliere il Toshigami (年神), la divinità del Capodanno, e garantire prosperità divenne una consuetudine diffusa.

    Il significato simbolico delle shimekazari

    Duplice ruolo: purificazione e buon auspicio

    Le shimekazari svolgono una duplice funzione: purificano la casa e invocano la buona fortuna. Appendendole all’ingresso, le famiglie creano uno spazio sacro, accogliendo il toshigami e allontanando gli spiriti maligni e la sfortuna. Le decorazioni sono arricchite da simboli di buon auspicio, tra cui:

    • Daidai (橙): un tipo di arancia dal gusto amarognolo che simboleggia la continuità familiare e la prosperità per le generazioni future.
    • Urajiro (裏白): una felce con la parte inferiore bianca rappresenta la purezza e un cuore sincero.
    • Yuzuriha (譲葉): un albero sempreverde le cui vecchie foglie non cadono finché non ne crescono di nuove, simboleggia la continuità delle generazioni.

    Quando e come esporre le shimekazari

    Periodo propizio per esporre la decorazione

    Tradizionalmente, il 13 dicembre, giorno conosciuto anche con il nome di “shōgatsu koto hajime” (正月事始め) o susuharai (煤払い), segna l’inizio dei preparativi per il nuovo anno e il momento in cui si può iniziare ad appendere le shimekazari. Molti giapponesi scelgono di decorare dopo il 25 dicembre, per godere appieno delle decorazioni natalizie. Il 28 dicembre è considerato particolarmente fortunato, poiché il numero “otto” (八) è associato al concetto di suehirogari (末広がり), la prosperità crescente.

    Date da evitare

    Tuttavia, sebbene si dica che sia possibile iniziare a decorare in qualsiasi momento dopo il 13 dicembre, ci sono alcune date che vengono spesso evitate perché considerate sfortunate. Queste sono il 29 e il 31 dicembre.

    È consuetudine evitare il 29 dicembre, poiché la lettura del numero “29” (nijūku, 二十九) ricorda l’omofono nijūku, (二重苦) che letteralmente significa “doppia sofferenza”, e il 31 dicembre, poiché decorare all’ultimo momento è chiamato “ichiya-kazari” (一夜飾り, decorazione di una notte), che è associato alle preparazioni dei riti funebri che normalmente avvengono la sera precedente.

    Shimekazari oggi: tra tradizione e modernità

    Sebbene le credenze tradizionali, inclusa la forte enfasi sul kegare, possano essere diminuite un po’ tra le giovani generazioni, le shimekazari rimangono una visione comune durante il periodo del Capodanno. Nel Giappone contemporaneo, il concetto di kegare è meno rigorosamente osservato, soprattutto negli ambienti urbani. Le giovani generazioni spesso considerano le shimekazari più come una tradizione culturale e un simbolo di buona fortuna piuttosto che una diretta protezione contro l’impurità rituale. Molte famiglie, anche nelle aree urbane, le appendono ancora sopra le loro porte come tradizione culturale, un modo per connettersi con la loro eredità ed esprimere speranza per un buon anno.

    Oggi, troverete una varietà di shimekazari, dai design semplici e tradizionali a creazioni più moderne ed elaborate. Alcuni incorporano persino elementi contemporanei pur mantenendo il simbolismo di base. Questa adattabilità assicura che le shimekazari continuino a svolgere un ruolo nelle celebrazioni del Capodanno giapponese, collegando il passato e il presente.

    Le shimekazari sono più che semplici decorazioni; sono legami tangibili con la ricca storia e le credenze spirituali del Giappone. Come simbolo di purificazione, protezione e buona fortuna, incarnano le speranze e le aspirazioni del popolo giapponese mentre accoglie ogni nuovo anno.





  • Shōgatsu

    Shōgatsu

    Il Capodanno giapponese

    Il Giappone è un paese dove il passaggio al nuovo anno non è solo una notte di festeggiamenti, ma un periodo sacro di rinnovamento spirituale e familiare, ricamato nel tessuto stesso della sua cultura. Questo è lo shōgatsu (正月), il Capodanno giapponese, la festività più importante dell’anno. A differenza dell’enfasi occidentale sulle feste di Capodanno, in Giappone l’attenzione si concentra sui primi giorni del nuovo anno, ricchi di usanze tradizionali e visite a templi e santuari. Questo periodo è profondamente radicato nella cultura giapponese, fondendo credenze shintoiste e buddiste con antiche usanze.

    Etimologia

    Il termine giapponese per Capodanno, shōgatsu, offre uno sguardo al significato centrale della festività. È composto da due kanji:

    正 (shō): Questo carattere significa “corretto”, “giusto”, “principale”. Implica l’idea di rettificare o mettere le cose a posto, segnando un nuovo inizio.

    月 (gatsu): Questo carattere significa semplicemente “mese” o “luna”. Pertanto, shōgatsu si traduce letteralmente in “mese principale”, che significa l’inizio dell’anno e il mese più importante. Questa etimologia evidenzia il significato del Capodanno come momento di rinnovamento e di definizione del tono per l’anno a venire.

    Origini Storiche

    La celebrazione del Capodanno in Giappone ha una lunga storia, influenzata dai cicli agricoli e da antiche credenze. Sebbene sia difficile stabilire con precisione le sue origini, le prime testimonianze di rituali legati al Capodanno risalgono a molti secoli fa, con chiare influenze dalle tradizioni cinesi.

    Le origini del Capodanno in Giappone

    Prima dell’era Meiji (1868-1912), il Giappone utilizzava un calendario lunisolare basato sul calendario cinese. Di conseguenza, il Capodanno giapponese era celebrato in concomitanza con il Capodanno cinese, coreano e vietnamita, generalmente tra fine gennaio e inizio febbraio, a seconda delle fasi lunari. Questo periodo era profondamente legato all’agricoltura, segnando un momento cruciale per le comunità rurali: un momento per pregare per un raccolto abbondante e prosperità nell’anno a venire.

    I rituali di purificazione e di buon auspicio erano quindi strettamente connessi al ciclo delle stagioni e alla vita agricola. Questo periodo di festività non si limitava a un singolo giorno, ma si estendeva per diverse settimane, con una serie di cerimonie e pratiche che culminavano con il koshōgatsu (小正月), letteralmente “Piccolo Capodanno”, celebrato intorno al 15 gennaio del calendario lunare.

    Il koshōgatsu segnava la fine delle celebrazioni principali e aveva un’enfasi particolare sulla preghiera per un buon raccolto e sulla preparazione dei campi per la nuova stagione agricola.

    La riforma Meiji e il calendario gregoriano

    Una svolta significativa avvenne durante la Restaurazione Meiji, un periodo di rapida modernizzazione e occidentalizzazione del Giappone. Nel 1873, il governo decise di adottare il calendario gregoriano, il calendario solare utilizzato in Occidente. Questa decisione ebbe un impatto diretto sulla data del Capodanno, che fu ufficialmente spostata al 1° gennaio. Le motivazioni dietro questo cambiamento furono principalmente di natura pratica ed economica.

    L’adozione del calendario gregoriano era vista come un passo necessario per allineare il Giappone con le potenze occidentali, facilitando il commercio, le relazioni internazionali e l’amministrazione pubblica. Mantenere un calendario diverso avrebbe creato difficoltà nelle transazioni commerciali e nella comunicazione con il resto del mondo.

    Conseguenze e persistenza delle tradizioni

    Nonostante il cambio di data, molte tradizioni e usanze legate al Capodanno pre-Meiji sono state conservate e continuano a essere praticate ancora oggi. Questo dimostra la profonda radicazione culturale di questa festività nella società giapponese. Sebbene la data sia stata uniformata al calendario occidentale, lo spirito e il significato dello shōgatsu come momento di rinnovamento, di unione familiare e di buon auspicio per il futuro sono rimasti intatti.

    Oggi, il Giappone celebra il Capodanno il 1° gennaio, ma le tracce del suo passato lunisolare sono ancora visibili in alcune pratiche e festività regionali, specialmente nelle zone rurali e nelle isole di Okinawa, dove in alcune comunità si continua a celebrare il Capodanno secondo il calendario lunare tradizionale.

    Shintoismo e buddismo

    Shōgatsu è profondamente intrecciato con le credenze sia shintoiste che buddiste, conferendogli una forte connotazione religiosa in Giappone. Lo Shintoismo, la religione indigena del Giappone, enfatizza la connessione con la natura e gli spiriti ancestrali (kami). Durante lo shōgatsu, le persone visitano i santuari shintoisti (jinja) per rendere omaggio ai kami, pregare per buona fortuna (hatsumōde) e ricevere benedizioni. Possono anche acquistare omamori (amuleti) per protezione e buona sorte. Il concetto di purificazione è centrale nello Shintoismo e il Capodanno è visto come un momento per purificarsi dal kegare, ovvero dalle impurità dell’anno precedente.

    Anche i templi buddisti svolgono un ruolo nelle celebrazioni del Capodanno. Alla vigilia di Capodanno, molti templi suonano le loro campane 108 volte (joya no kane) per simboleggiare i 108 desideri terreni nella credenza buddista. Questo rituale ha lo scopo di purificare le menti delle persone e prepararle per il nuovo anno. La fusione di queste due religioni ha creato un paesaggio culturale unico in Giappone, dove molte persone partecipano sia alle pratiche shintoiste che a quelle buddiste, specialmente durante eventi importanti come shōgatsu.

    Preparativi e Celebrazioni dello Shōgatsu

    I preparativi per lo shōgatsu iniziano con largo anticipo, con le famiglie che puliscono le loro case (susuharai) per spazzare via simbolicamente le sfortune dell’anno vecchio. Altri preparativi comuni includono:

    Kadomatsu (門松): decorazioni di pino e bambù poste all’ingresso delle case per accogliere il toshigami, divinità del nuovo anno.

    Shimekazari (注連飾り): corde di paglia sacre usate per allontanare gli spiriti maligni e segnare spazi sacri.

    Mochi (餅) e kagami-mochi (鏡餅): torte di riso, spesso pestate e preparate in vari modi, sono una parte essenziale delle celebrazioni di Capodanno. Il kagami-mochi, in particolare, è una decorazione composta da due dischi di mochi sovrapposti, con un’arancia daidai in cima.

    Osechi ryōri (おせち料理): un elemento imprescindibile del Capodanno giapponese, consiste in una serie di piatti speciali, ognuno con un preciso significato simbolico, disposti con cura in eleganti scatole laccate chiamate jūbako. Questi piatti non sono solo deliziosi, ma rappresentano anche un augurio di salute, prosperità e felicità per il nuovo anno. Ad esempio, il kuromame (黒豆), fagioli neri dolciastri, simboleggiano la buona salute, mentre il kazunoko (数の子), uova di aringa, auspicano fertilità e abbondanza di figli. Il tazukuri (田作り), piccole sardine essiccate e candite, erano tradizionalmente usate per fertilizzare i campi di riso e quindi simboleggiano un buon raccolto.

    Il periodo del Capodanno stesso viene tipicamente trascorso con la famiglia. Le attività comuni includono: hatsumōde, la prima visita a un santuario o tempio dell’anno; otoshidama, dare denaro in buste decorate ai bambini; giocare a giochi tradizionali, come karuta (giochi di carte) e hanetsuki (volano giapponese); guardare la prima alba dell’anno (hatsuhinode), che simboleggia nuovi inizi e speranza.

    Le famose cartoline di Capodanno, nengajō, vengono inviate ad amici e familiari, in modo simile ai biglietti di auguri occidentali. Queste cartoline spesso presentano immagini dell’animale zodiacale dell’anno successivo.

    Tradizionalmente, si crede che il contenuto del primo sogno del nuovo anno, hatsuyume, predica la propria fortuna per l’anno a venire. Un sogno particolarmente di buon auspicio si dice che includa il Monte Fuji, un falco o una melanzana. Lo zodiaco giapponese, basato sullo zodiaco cinese, assegna un animale a ogni anno in un ciclo di 12 anni. Questi animali sono spesso presenti su nengajō e altre decorazioni di Capodanno. Conoscere l’animale dell’anno corrente è una parte importante dell’alfabetizzazione culturale giapponese.

    Un aspetto significativo dello shōgatsu è il ritorno alla propria città natale per visitare i parenti, in giapponese si usa il termine kitaku (帰宅). Questa usanza rafforza i legami familiari e consente alle giovani generazioni di connettersi con le proprie radici.

    Shōgatsu è più di un semplice cambio di calendario; è un momento di profondo significato culturale e spirituale in Giappone. È un periodo di riflessione, rinnovamento e speranza per il futuro, profondamente radicato nella storia e nelle tradizioni religiose del paese. Offre una visione unica dei valori e delle usanze giapponesi, rendendola un’esperienza culturale affascinante.

  • Jōge kankei: un viaggio nella gerarchia giapponese

    Jōge kankei: un viaggio nella gerarchia giapponese

    Dall’antica tradizione al mondo del lavoro moderno

    Essere occidentale in Giappone significa immergersi in una cultura profondamente radicata in concetti come il rispetto, l’ordine e la gerarchia. Il jōge kankei (上下関係), letteralmente relazione superiore-inferiore, è uno di questi pilastri fondamentali della società giapponese. Le sue origini affondano nel Confucianesimo e nelle antiche tradizioni dei samurai, plasmando da secoli la visione del mondo e le interazioni sociali del popolo giapponese.

    Le radici storiche del jōge kankei

    Il Confucianesimo, filosofia che pone l’accento sulla famiglia, sulla società e sull’etica, ha avuto un’influenza profonda sulla cultura giapponese. Durante il periodo Edo, lo shogunato Tokugawa promosse attivamente lo shushigaku (朱子学), o neo-confucianesimo, rafforzando ulteriormente il concetto di gerarchia e sottomissione all’autorità. Questa visione gerarchica si adattava perfettamente alle esigenze di un governo centralizzato che cercava di consolidare il proprio potere e mantenere l’ordine sociale cercando di porre fine ai conflitti endemici del periodo Sengoku.

    Jōge kankei nella vita quotidiana

    Il jōge kankei si manifesta in ogni aspetto della vita giapponese. In ambito lavorativo, le decisioni scendono dall’alto e il rispetto per i superiori, in particolare per quelli più anziani, è fondamentale. L’età e l’anzianità di servizio conferiscono un’autorevolezza intrinseca. Anche al di fuori del lavoro, le relazioni sociali sono influenzate da questa gerarchia: si presta attenzione all’età, al ruolo sociale e all’appartenenza a un gruppo.

    Un confronto culturale

    Mentre in Occidente tendiamo a valorizzare l’uguaglianza e la mobilità sociale, in Giappone la gerarchia è percepita come un elemento stabilizzante. Questo sistema, se da un lato può sembrare rigido, dall’altro offre un senso di appartenenza e di ordine. Tuttavia, per un occidentale, adattarsi a questa struttura può essere una sfida.

    Il jōge kankei nel mondo del lavoro

    Nelle aziende giapponesi, la gerarchia è particolarmente evidente. Le decisioni sono spesso centralizzate e i subordinati sono tenuti a seguire le istruzioni senza discutere. Le riunioni sono spesso formali e il rispetto per l’opinione dei superiori è fondamentale. Tuttavia, è importante notare che anche in Giappone la società sta cambiando, e molte aziende, come quella in cui lavoro, hanno adottato da anni approcci più flessibili e collaborativi.

    Comunicazione e relazioni interpersonali

    La comunicazione in Giappone è fortemente influenzata dal jōge kankei. L’uso di un linguaggio formale e rispettoso è fondamentale, soprattutto quando ci si rivolge a superiori o a persone più anziane. Inoltre, le sfumature culturali e le implicazioni non verbali possono rendere la comunicazione complessa per gli stranieri. Costruire relazioni solide con i colleghi giapponesi richiede tempo, pazienza e una profonda comprensione della loro cultura.

    Adattarsi al jōge kankei

    Per vivere e lavorare con successo in Giappone, è fondamentale comprendere e rispettare il jōge kankei. Osservando come i giapponesi interagiscono tra loro, si possono acquisire preziose intuizioni sulle sottigliezze di questo sistema. Alcuni consigli secondo me utili per adattarsi includono:

    Mostrare rispetto: utilizzare le forme di cortesia appropriate e rivolgersi ai superiori con deferenza.

    Essere pazienti: costruire relazioni solide richiede tempo e pazienza.

    Ascoltare attentamente: cercare di comprendere le sfumature della comunicazione giapponese.

    Adattarsi alle regole non scritte: osservare e imparare dai colleghi giapponesi.

    Essere aperti al cambiamento: il Giappone, anche se con i suoi tempi, sta cambiando, e il jōge kankei si sta evolvendo.

    Comprendere il jōge kankei è fondamentale per vivere e lavorare in Giappone. Sebbene questo sistema possa sembrare inizialmente complesso e rigido, può offrire anche grandi opportunità per costruire relazioni significative e arricchire la propria esperienza culturale. Adattandosi a questa norma sociale, si può vivere un’esperienza più autentica e gratificante in Giappone.

    Questo articolo nasce dalla mia esperienza diretta come manager in un’azienda giapponese. Lavorando a stretto contatto con colleghi giapponesi, ho avuto l’opportunità di immergermi profondamente nella loro cultura e di sperimentare in prima persona l’importanza del jōge kankei. Questo articolo vuole condividere le mie riflessioni su come questa dinamica relazionale, se da un lato può rappresentare una sfida, dall’altro arricchisce la comprensione della società giapponese e facilita l’integrazione nel mondo del lavoro.

  • 小満 – Shōman

    小満 – Shōman

    Mentre sistemavo gli appuntamenti di lavoro sul calendario ho visto riportata la seguente frase:

    「万物盈満すれば草木枝葉繁る」

    Banbutsu eiman sureba kusaki edaha shigeru

    Il significato di questa frase è che quando il clima diventa mite le piante e gli altri esseri viventi crescono e prosperano.

    La frase è ripresa dal koyomi binran (暦便覧), un manuale di approfondimento del calendario pubblicato durante il periodo Edo (1603-1868) da Taigensai (太玄斎).

    Oltre a fornire informazioni dettagliate sul calendario, il koyomi binran include anche spiegazioni complete sui nijūshisekki (二十四節気), i ventiquattro periodi solari, rimanendo un punto di riferimento importante per la loro comprensione anche ai giorni nostri.

    La frase precedente è stata riportata sul calendario per segnare la fine di uno questi ventiquattro periodi solari. Sto parlando del periodo conosciuto come shōman (小満), terminato il 4 Giugno.

    Shōman è la fase in cui ogni essere vivente cresce gradualmente, riempiendo cielo e terra. Coincide con la maturazione delle spighe del grano seminato in autunno, e si dice porti un po’ di soddisfazione e rassicurazione per il futuro raccolto. Questa fase rappresenta un momento di transizione, con il clima che diventa caldo e umido.

    Shōman, l’ottavo dei ventiquattro periodi solari, quest’anno è iniziato il 20 Maggio, con una durata che si estende fino al 4 Giugno. Sebbene generalmente si collochi tra il 21 Maggio e il 4 Giugno circa, la data esatta non è mai fissa. I ventiquattro periodi solari dividono l’anno in 24 segmenti di circa 15 giorni ciascuno, allo scopo di comprendere il cambio delle stagioni. Tuttavia, poiché la loro determinazione si basa sulla divisione dell’anno in 24 parti uguali in base al movimento del sole, non sono fissi e possono variare di circa un giorno. Di conseguenza, il termine shōman può riferirsi sia al giorno specifico dell’inizio del periodo, sia all’intero lasso di circa 15 giorni che va da shōman a bōshu (芒種), il nono dei ventiquattro periodi solari.

    Lo shōman porta con sé il momento dell’ inizio del raccolto del grano, ormai pronto per essere mietuto. Seminato durante l’inverno, il grano attende questo periodo per essere finalmente raccolto. Questa fase è conosciuta come bakushū (麦秋) o mugiaki (麦秋), termini che figurano come parole stagionali legate all’ estate. Nonostante si tratti della stagione estiva, il kanji di “autunno” (秋) viene utilizzato in entrambe le parole in paragone con l’autunno, e il periodo di maturazione del riso. La doratura delle spighe di grano crea un suggestivo scenario simile a quello delle dorate spighe di riso autunnali.

    Anche i fenomeni atmosferici di questo periodo hanno dei nomi riconducibili alla coltura del grano come ad esempio la pioggia, è chiamata bakū (麦雨, pioggia di grano). Il vento che soffia sui campi di grano è chiamato mugi no akikaze (麦の秋風vento autunnale del grano) o mugiarashi (麦嵐, tempesta di grano), mentre le spighe ondeggianti nei campi sono chiamate mugi no nami (麦の波, onde del grano).

    Lo shōman come gli altri periodi solari, si suddivide a sua volta in 3 fasi.

    蚕起食桑 – Kaiko okite kuwa wo hamu

    Durante questa prima fase, che segna l’inizio dello shōman, l’appetito dei bachi da seta cresce e divorano voracemente le foglie di gelso che usano come cibo. Alla fine, i bozzoli filati dai bachi da seta si trasformano in splendidi fili di seta.

    Fonte: note.com

    紅花栄 – Benibana sakae

    È il periodo in cui il cartamo sboccia in splendidi fiori color arancio-giallastro. Il cartamo o zafferone, benibana in giapponese, è giallo brillante nel momento della fioritura, ma diventa gradualmente rosso man mano che cresce. Dalla corolla del suo fiore sin dall’ antichità si estraggono due colori (il cremisi ed il giallo) utilizzati, dalle persone di corte, come coloranti per stoffe e tessuti e veniva utilizzato per tingere seta.

    麦秋至 – Mugi no toki itaru

    Letteralmente, “l’arrivo dell’autunno del grano”. È il periodo in cui le spighe di grano raggiungono la maturazione.

    Durante lo shōman, per alcuni giorni, il cielo rimane coperto e piove a tratti. Questo fenomeno meteorologico, che precede l’inizio della vera e propria stagione delle piogge (梅雨, tsuyu), è chiamato hashiri zuyu (走り梅雨) o tsuyu no hashiri (梅雨の走り) ed è considerato un termine stagionale. Al termine di questa fase, il tempo si apre e torna sereno, ma subito dopo inizia la vera stagione delle piogge.

    Un mio collega, che ha vissuto molto tempo ad Okinawa, mi ha spiegato che in quella zona la stagione delle piogge inizia prima rispetto al Kyūshū dove mi trovo ora. Lo tsuyu iniziai spesso a cavallo tra lo shōman e il periodo successivo, il bōshu (芒種) e si usa spesso l’espressione “shōman-bōshu“, che viene spesso pronunciata “sūman-bōsu” per indicare la stagione delle piogge stessa.


    Oltre ad essere un momento di abbondanza per la natura, shōman assume anche un significato simbolico. Il grano dorato che matura nei campi rappresenta il frutto del duro lavoro e della dedizione, un monito a perseverare per raccogliere i frutti dei propri sforzi.

    La suddivisione in tre fasi, ognuna caratterizzata da eventi naturali e fenomeni atmosferici peculiari, offre un ulteriore spunto di riflessione sulla ciclicità della vita e l’armonia che regna nel mondo naturale.

    In definitiva, shōman è un periodo ricco di significato che ci invita ad apprezzare la bellezza della natura, a celebrare i frutti del lavoro e a riflettere sulla ciclicità della vita. Un momento per rallentare, osservare il mondo che ci circonda e trarne ispirazione.

JapanItalyUSAUnknown