
Dai fiumi alle sedute hi-tech: un esilarante storia del wc giapponese
Ah, il water giapponese. Per la maggior parte dei turisti che si recano qui in vacanza, è un universo di meraviglia, confusione e, ammettiamolo, un pizzico di timore reverenziale. Ti accomodi, la tavoletta è piacevolmente calda (pura beatitudine!), e ti ritrovi davanti a una plancia di comando che farebbe invidia allo Star Destroyers. Pulsanti per lavare, asciugare, oscillare….e che diamine combina quel tasto con la nota musicale?! (Tranquilli, ci arriviamo!)
Ma mentre ci spelliamo le dita delle mani per queste meraviglie hi-tech, sapevate che il percorso per arrivare fin qui è stato a dir poco rocambolesco? Dimenticate le noiose lezioni di storia: quella del wc giapponese e un’avventura costellata di invenzioni geniali, igiene talvolta discutibile e persino astuzie da campo di battaglia!
Riavvolgiamo il nastro. Molto, molto tempo fa, nell’antico Giappone, le cose erano….beh, basilari. Del tipo: trova un cespuglio o un fiume e via, senza troppi problemi. Inventarono il “kawa-ya” (川屋), praticamente una semplice struttura di legno, a volte composta solamente da un asse, sospesa sopra un fiume. Smaltimento dei rifiuti eco-sostenibile, diremmo oggi? Speriamo solo che nessuno si lavasse più a valle. Durante il periodo Nara si diffuse la voce che in Cina i maiali venissero usati come – ehm – riciclatori organici, ma il Giappone, declino altezzosamente: “Nah, i maiali non fanno per noi”. Così, per un bel pezzo, se non c’era un fiume nelle vicinanze, si faceva dove capitava….e basta.
Balzo in avanti nell’elegante periodo Heian. Mentre i nobili se la spassavano con lussuosi gabinetti provvisti di scarico (che altro non era che un rigolo d’acqua deviato dal canale vicino per poi farvi ritorno), la plebe era ancora…all’aria aperta. Pare che Heian-kyō, l’allora capitale, emanasse un olezzo degno di un vespasiano durante la canicola estiva. E come ci si puliva all’epoca? Con una “kuso-bera”, letteralmente un “bastone per la pupù”. Avete capito bene, una semplice spatola di legno. Meditateci sopra un istante. Di colpo, quei mille pulsati enigmatici dei wc moderni non vi sembrano poi così male, vero?
Poi, SBAM! Arriva il periodo Sengoku – il periodo degli stati combattenti! Uno penserebbe che l’igiene fosse l’ultima delle preoccupazioni. E invece no! È qui che la faccenda si rivela sorprendentemente sofisticata. Capirono che i rifiuti umani potevano essere un fertilizzante strepitoso – “oro marrone”, se preferite! Iniziarono a compostarli per eliminare i parassiti e migliorare i raccolti. Le latrine a fossa, le “potton benjo” (ポットン便所) presero piede, non solo per la loro comodità, ma per raccogliere quella preziosissima risorsa. I daimyō, astuti, arrivarono a costruire latrine con l’apertura verso l’esterno, per non farsi sorprendere…ehm… con le braghe calate! E sul campo di battaglia? I guerrieri indossavano i classici pantaloni hakama ma con uno spacco strategico all’altezza del cavallo, per rapide….manovre tattiche. La necessità aguzza l’ingegno, persino quando si tratta delle pause bagno mentre si è sotto assedio.
Finalmente, giunge il “pacifico” periodo Edo. E con esso, udite udite, esplode la tecnologia dei sanitari! Pensate che lo shōgun in persona disponeva di un “goyōsho” (御用所), un “gabinetto d’onore”, talmente sfarzoso da includere un medico addetto al controllo quotidiano del “prodotto finale”, per monitorare lo stato di salute del signore. (E noi che ci lamentiamo delle visite mediche annuali!). In questo periodo iniziò a diffondersi tra la popolazione comune l’utilizzo della carta per le pulizie finali. Fecero la comparsa i primi bagni pubblici. E indovinate un po? Fiori un’interna industria di raccoglitori di feci i “mokkō-ya”! Questi professionisti, trasportavano i rifiuti dalle case di città alle fattorie, rendendo Edo sorprendentemente pulita. Si sono trovati scritti di visitatori stranieri di quel periodo che erano rimasti basiti dall’ordine e dalla pulizia della città, che in parte era dovuto ai mokkō-ya.
Ora, torniamo a quel pulsante con la nota musicale sul washlet della vostra stanza di albergo nella moderna Tōkyō. Si, proprio quello che se premuto emette un suono di sciacquone o una musichetta discreta. Quella piccola funzione, che spesso viene chiamata “oto-hime” (音姫). Questo l’ho scoperto poco tempo fa mentre leggevo la scheda tecnica dei vari wc per la nostra nuova casa qui in Giappone. Nelle note all’interno del pamphlet di un noto produttore appariva questa spiegazione:
“Per ovviare allo spreco d’acqua causato dalla pratica diffusa tra molte donne nei bagni pubblici di lasciare scorrere l’acqua per mascherare i suoni ed evitare imbarazzi, è stato sviluppato il dispositivo sonoro “Otohime“. Il nome, coniato dalla sviluppatrice del sistema, unisce “oto” (suono) a “Otohime–sama“, che da “bella principessa” è passato a simboleggiare l’antica cultura della riservatezza giapponese”
Questa funzione non è solo una semplice stramberia adottata da qualche avido produttore di wc ma affonda le radici in un profondo e tanto agognato desiderio di privacy e discrezione, forse quasi un eco modernissima di quei giorni lontani di epoca Heian tra le vie della maleodorante Heian-kyō, o dallo slancio trovato in periodo Edo verso la pulizia urbana e il rispetto altrui. Si tratta di minimizzare qualsiasi suono potenzialmente imbarazzante, garantendo che tutti si sentano a proprio agio.
Dunque la prossima volta che troverete seduti sulla tiepida tavoletta di un wc in Giappone, mentra contemplate quale getto d’acqua selezionare, ripensate al mio racconto: da un fiume (quando andava bene) e un bastone, passando per i fortificati bagni dei samurai, fino ad approdare a un trono hi-tech degno di un moderno shōgun che diffonde musica. È una storia tutt’altro che di m….!

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