
Io, William Adams
Ascoltate, e vi racconterò una storia a cui pochi pochi in Europa potrebbero credere. Una storia di mari in burrasca, di terre sconosciute e di un destino che mi ha trasformato da semplice marinaio inglese a samurai al servizio del più potente sovrano del Giappone. Il mio nome è William Adams. Ma qui, in questa terra remota, mi conoscono come Miura Anjin (三浦按針).
Era l’anno del signore 1598 quando salpammo dall’Olanda. Non eravamo inglesi, non del tutto almeno. Ero pilota di una nave facente parte di un flotta finanziata da mercanti olandesi, uomini ambiziosi con un sogno audace: trovare una nuova rotta per il Giappone, una terra leggendaria di cui si favoleggiava da tempo, e di spezzare il monopolio che, portoghesi e spagnoli detenevano con artigli ferrei sul commercio con l’Oriente. Eravamo cinque navi, piene di speranza e uomini robusti. Poco più di un centinaio, se ben ricordo, a bordo della mia nave, la De Liefde, “L’amore”. Un nome ironico, a pensarci ora, vista la sofferenza che ci attendeva.

Il viaggio fu un inferno. Due anni. Due lunghi, estenuanti anni attraverso due oceani. Le tempeste sembravano voler inghiottirci ad ogni onda. Le malattie si propagavano tra i ponti come un fuoco invisibile, mietendo vite con una ferocia che i cannoni non potevano affrontare. E poi, la fame. Ricordo le facce scavate, gli sguardi vitrei, le ossa che spuntavano sotto la pelle. Una dopo l’altra, le nostre navi sorelle scomparvero, inghiottite dal mare o perse chissà dove. A bordo della De Liefde, delle oltre cento anime che erano partite, ne rimanevano appena una ventina, scheletri animati dalla pura ostinazione di sopravvivere. Il capitano…. il povero capitano non ce l’aveva fatta. Ero io, il pilota, l’uomo con la bussola e le carte nautiche (o almeno quello che ne restava), a tenere la rotta.

Poi, finalmente, era l’aprile del 1600. Terra! Un grido debole ma pieno di disperazione e speranza risuonò tra noi. Una costa verdeggiante, diversa da qualsiasi cosa avessi mai visto. Ormeggiamo nella baia di Usuki, in un luogo che gli abitanti chiamavano Bungo. La nostra nave era una carcassa, l’equipaggio poco più che fantasmi. Per la gente del posto, l’arrivo della De Liefde fu una sorpresa. Non eravamo portoghesi, non spagnoli. La nostra nave aveva una forma strana ai loro occhi. Ci guardarono con stupore misto a paura e curiosità. La notizia del nostro arrivo corse veloce, come un lampo.
Il Giappone, scoprii presto, era un paese in fermento. Anni di guerre intestine, il periodo detto Sengoku, stavano volgendo al termine. Un uomo stava emergendo sopra tutti gli altri, un daimyō astuto e potente: Tokugawa Ieyasu. Stava stringendo le redini del potere, preparandosi a diventare shōgun e a forgiare una pace, anche se con la forza, che avrebbe cambiato per sempre il volto di questa nazione. E questo stesso Ieyasu, diffidente verso gli stranieri – specialmente nei confronti dei gesuiti portoghesi, che vedeva come pedine di potenza straniere – fu subito informato di quella nave “barbara” che era apparsa dal nulla.
Il suo ordine fu rapido e diretto: la nave, il suo prezioso carico (cannoni, moschetti e altra merce che avevamo faticosamente conservato) e noi, i sopravvissuti, fummo posti sotto sequestro. Non fu,come capii poi, un atto di crudeltà, ma di pura cautela. In un paese percorso da intrighi e rivalità, non si poteva rischiare. Eravamo una variabile ignota, potenzialmente pericolosa agli occhi di Ieyasu.
Fu allora che accadde l’impensabile. Tokugawa Ieyasu, incuriosito e sagace, volle vedere il pilota. Volle vedere me. Mi portarono al suo cospetto. Ricordo ancora quel momento, l’aria tesa, la sua figura imponente. Ero esausto, provato da due anni di stenti, ma il mio spirito non era spezzato. Attraverso l’aiuto di interpreti – e, ironia della sorte, il primo fu proprio un gesuita protoghese, un momento che sentii sulla mia pelle, carico di tensione e potenziale pericolo, dato il loro astio verso i protestanti come me – l’interrogatorio ebbe inizio.
Gli raccontai tutto. Del nostro lungo, terribile viaggio. Delle nazioni europee, delle loro guerre, della politica complessa che le legava e le divideva continuamente. E della religione. Spiegai la differenza tra la fede cattolica professata dai portoghesi e dagli spagnoli e la nostra, protestante. Vidi i suoi occhi acuti fissarmi mentre parlavo. Ieyasu non si fidava ciecamente dei gesuiti; capire le sfumature della cristianità, le divisioni al suo interno, era un’informazione che trovava di grande valore strategico.
Ma ciò che lo colpì di più, ne sono certo, fu la mia conoscenza pratica. Conoscevo la navigazione, la matematica e l’astronomia. E, soprattutto, sapevo come si costruivano navi capaci di solcare i grandi oceani. Il Giappone aveva imbarcazioni eccellenti per la navigazione costiera, ma niente che potesse competere con i velieri europei. In me, Ieyasu vide non un semplice naufrago, ma una risorsa inestimabile.
Supplicai, implorai. Volevo tornare a casa. Volevo rivedere la mia Inghilterra, la mia famiglia. Chiesi di poter organizzare il nostro rientro, o almeno di riprendere il viaggio verso le Indie Orientali. Ma Ieyasu fu irremovibile. Ero troppo prezioso. Mi fu proibito di lasciare il Giappone. In cambio, mi fu offerta una nuova vita, una vita al suo servizio.
La De Liefde, la nostra vecchia e fedele compagna di viaggio, fu smantellata. I suoi cannoni, scoprii poi, furono usati nelle campagne militari di Ieyasu. Mentre la nave moriva, il suo pilota rinasce. William Adams cesso di esistere. Divenni Miura Anjin. “Anjin”, mi spiegarono, significava “pilota” in giapponese. “Miura” era il nome della penisola vicino a Edo dove Ieyasu mi concesse una tenuta. Non una capanna da servo, badate bene. Una tenuta con rendita e servitù. E qualcosa di ancora più incredibile: lo status di hatamoto, un samurai al servizio diretto dello shōgun. Mi fu concesso l’onore, il privilegio,di portare due spade. Io, un marinaio inglese, ero diventato il primo samurai occidentale.
La mia vita cambiò radicalmente. Da naufrago sull’orlo della morte, ero ora un consigliere fidato di Tokugawa Ieyasu, e in seguito di suo figlio Hidetada, che gli succedette come Shōgun. Il mio compito principale? Costruire navi. Supervisionai la costruzione delle prime navi giapponesi basate su modelli occidentali. Due in particolare, molto più grandi e robuste delle giunche che usavano comunemente. Non fu una rivoluzione immediata, ma fu un inizio. Gettammo le basi tecniche della cantieristica navale giapponese.
Ma il mio ruolo andava oltre i cantieri navali. Consigliavo Ieyasu su questioni di commercio e diplomazia con l’Occidente. Fui dondamentale nell’aiutare gli Olandesi ad aprire la loro stazione commerciale a Hirado nel 1609. E quando arrivò una nave dei miei connazionali, gli Inglesi, guidati da John Saris, nel 1613, fui io a fare da mediatore e interprete, aiutandoli ad aprire la loro stazione a Hirado. La mia presenza, la mia influenza, contribuirono a creare una fessura nel muro che portoghesi e spagnoli avevano eretto, aprendo il Giappone al commercio con le potenze protestanti del Nord Europa. Ero diventato un ponte tra due mondi così diversi.

Eppure, nonostante l’onore, la ricchezza, una nuova vita e una famiglia giapponese, il desiderio di tornare a casa no mi abbandonò mai. Continuai a chiedere il permesso di partire, anno dopo anno. Ma Ieyasu, che mi stimava enormemente e mi trattava con grande rispetto, non me lo concesse mai. Forse temeva di perdere le mie conoscenze uniche. Forse che potessi rivelare segreti strategici ai suoi rivali europei. Ero prezioso, sì, ma anche una sorta di prigioniero d’oro.
William Adams morì a Hirado nel 1620. La sua vita…che storia incredibile. Da marinaio disperso a samurai. Da straniero sospetto a confidente dello Shōgun. L’arrivo della De Liefde, così tragico e casuale per il suo equipaggio, e il suo strano destino, non solo aprirono una via di comunicazione tra il Giappone e l’Europa del Nord, ma dimostrarono anche al perspicacia di Ieyasu nel saper sfruttare talenti stranieri per i suoi fini. Paradossalmente, forse, il contatto diretto di Ieyasu con William Adams e altri stranieri contribuì anche alla successiva decisione del Giappone di chiudersi quasi completamente al mondo, mantenendo però un piccolo, controllato contatto attraverso gli Olandesi – i compagni di viaggio di William – confinati nell’isola di Dejima, a Nagasaki.


La figura di Anjin, il pilota divenuto samurai, resta un simbolo strano e potente. Un ricordo del primo, difficile, ma affascinante incontro tra l’Inghilterra, e quella terra il Giappone, straordinaria che, contro ogni previsione, era diventata la sua casa.

Oggi, 16 maggio, si ricorda la scomparsa di William Adams e riviviamo la sua straordinaria vicenda. Per chi, come il sottoscritto, risiede a breve distanza – appena trenta minuti da Hirado, luogo che fu testimone degli ultimi anni di Anjin e della sua sepoltura – questa storia assume una risonanza ancor più vivida. La scoperta della sua incredibile esistenza risale per me a circa diciassette anni fa, durante la stesura della mia tesi di laurea specialistica in Lingue e Istituzioni Economico-Giuridiche dell’Asia, il cui fulcro era proprio il commercio marittimo tra Giappone ed Europa. Hirado, dunque, non è semplicemente una tappa geografica, ma un vero e proprio simbolo, un faro che ha illuminato i primi, complessi rapporti tra i nostri due mondi. Se mai vi trovaste a esplorare queste zone, una visita a questa città vi permetterà di toccare con mano l’eredità di quegli scambi e l’eco della storia di Miura Anjin, il samurai venuto dal mare.

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Kyūbi
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