Tag: Storia del Giappone

  • Il martirio di Paulo Uchibori

    Il martirio di Paulo Uchibori

    Il vulcano Unzen, Unzen-dake (雲仙岳) per i giapponesi, mio vicino di casa, è un gigante in costante evoluzione. La sua attività vulcanica ha plasmato nel tempo il paesaggio della penisola di Shimabara, lasciando un segno indelebile sulla regione. Nel 1990, dopo un lungo sonno di quasi due secoli, Unzen si è risvegliato con una potente eruzione, formando una cupola di lava che ha ulteriormente trasformato l’area. Ma la storia di questo vulcano affonda radici ancora più profonde. Nel XVII secolo, i suoi inferni furono teatro di una drammatica prova di fede per i cattolici di Shimabara e della regione di Nagasaki. Unzen, dunque, è molto più di un semplice vulcano: è un testimone silenzioso della storia e della fede di queste terre e dei suoi abitanti.

    Fonte: NHK

    Arima

    Come già raccontato in un mio precedente articolo, Arima Harunobu (有馬晴信), conosciuto anche come il daimyō cristiano, era un noto protettore dei cristiani che vivevano nell’omonimo dominio che oggi corrisponde alle zone della penisola di Shimabara, nel Kyūshū. Tuttavia, un tragico inganno lo condannò a morte per ordine di Tokugawa Ieyasu e segnò l’inizio di un oscuro capitolo per la sua famiglia e per i cristiani del suo dominio. Il figlio, Naozumi Naozuni (有馬直純ま, battezzato con il nome Miguel), inizialmente seguì le orme del padre, ma ben presto abiurò la fede e si trasformò in un feroce persecutore. Nonostante la sua crudeltà, che lo portò persino a uccidere i propri fratellastri, i cristiani di Arima resistettero con tenacia, dimostrando una fede incrollabile.

    Nel 1619, Papa Paolo V inviò un raggio di speranza ai fedeli giapponesi, perseguitati e isolati. La sua lettera, un faro in un mare di sofferenza, giunse ai cristiani del Giappone, tra cui quelli della regione di Shimabara.

    Shimabara (島原), un tempo fiorente centro del cristianesimo in Giappone, era ormai un’isola di fede in un arcipelago di persecuzione. I suoi abitanti, tra cui figure di spicco come Paulo Uchibori Sakuemon (パウロ内堀右衛門), risposero al Papa con una lettera intrisa di gratitudine e determinazione.

    In quella missiva, datata 1620 e firmata da dodici coraggiosi testimoni, i cristiani di Shimabara esprimevano la loro profonda devozione alla Chiesa e la loro incrollabile fede in Cristo. Nonostante le prove e le tribolazioni, affermarono di essere pronti a sacrificare tutto per la loro religione, dimostrando così un coraggio che ha segnato la storia del cristianesimo in Giappone. Le loro parole, cariche di emozione, riecheggiavano nella seguente frase:

    “Con la grazia divina, bruciamo del desiderio di dedicare le nostre vite come testimonianza a Cristo e alla Santa Chiesa Romana”. (Questa è una mia traduzione, del testo della missiva che riporto di seguito)

    ガラサ(恩恵)を以て、キリストとローマのサンタ・エケレジヤ(教会)の御證據に、身命を捧げ奉らむと、燃え立つばかり存じ奉り候。

    Un toccante dettaglio emerge alla fine della lettera: il ricordo di un’udienza con Papa Gregorio XIII. Questo particolare suggerisce fortemente il coinvolgimento di Padre Julian Nakaura (ジュリアン中浦神父) nella stesura del documento. In quanto uno dei giovani ambasciatori inviati a Roma e, all’epoca, sacerdote a Kuchinotsu (口之津, una città ubicata a sud di Nagasaki ora assorbita da Minami-Shimabara), Nakaura possedeva le conoscenze e le relazioni necessarie per redigere una missiva così importante.

    Foto dell’ autore: statua di padre Nakaura presso la chiesa cattolica di Shimabara

    La lettera, inoltre, rivela un destino tragico per molti dei suoi firmatari: ben sei di loro, tra cui Paulo Uchibori, subirono il martirio. Dopo aver espresso la loro fede con tanta forza e determinazione, furono sottoposti alle più atroci torture negli inferni di Unzen.

    Questo documento, quindi, va ben oltre una semplice comunicazione. È una testimonianza viva della fede incrollabile dei cristiani giapponesi, della loro profonda connessione con la Chiesa di Roma e del coraggio di coloro che scelsero di morire piuttosto che rinnegare la loro fede. La menzione di Papa Gregorio XIII, figura di riferimento per i cattolici dell’epoca, sottolinea ulteriormente il legame tra la comunità cristiana giapponese e il cuore della Chiesa universale.

    Il martirio di questi fedeli, tra cui il coraggioso Paulo Uchibori e i suoi tre figli, rappresenta un capitolo cruciale nella storia del cristianesimo in Giappone. Le loro vite, consacrate a Cristo, sono un esempio luminoso di fede e di resistenza, un faro che continua a guidare i credenti di ogni tempo e luogo.

    La tragedia di Shimabara: fede, potere e rivolta

    Arima Naozuni si vide costretto ad abbandonare la sua terra natale e a rifugiarsi a Hyūga (odierna prefettura di Miyazaki). Al suo posto, salì al potere Matsukura Shigemasa (松倉重政), governatore noto per la sua crudeltà e la sua intolleranza religiosa. Sotto il suo dominio, i contadini di Shimabara e Amakusa, già provati da carestie e tasse esorbitanti, subirono una feroce persecuzione.

    La scintilla che innescò la rivolta fu l’oppressione religiosa. I cristiani, una comunità numerosa e radicata nella regione, si trovarono sempre più schiacciati tra le maglie della repressione. Nel 1637, esasperati dalle sofferenze e dalle ingiustizie, i contadini si ribellarono, dando vita a una delle più grandi rivolte popolari della storia giapponese.

    In questo contesto di violenza e caos, Arima si ritrovò in una posizione paradossale. Conoscitore profondo del territorio, fu chiamato a reprimere la rivolta che era scoppiata nella sua ex terra. Guidando un esercito di quasi quattromila uomini, si ritrovò a combattere contro coloro che un tempo erano stati i suoi sudditi. Una tragedia personale che lo segnò indelebilmente.

    Mentre fuori infuriava la rivolta, all’interno della comunità cristiana si consumava un’altra tragedia. Padre Sora, un missionario che aveva dedicato la sua vita alla diffusione del cristianesimo, si trovava a Shimabara. Per sfuggire alla persecuzione, cercò rifugio a casa di Joan Nagai Naizen. Ma la loro speranza di salvezza fu di breve durata: un tradimento li condusse tra le mani dei soldati.

    Paulo Uchibori, un’altra importante figura della comunità cristiana, si sentì in dovere di proteggere il suo amico e confessore. Si presentò davanti ai suoi seguaci e assunse su di sé la responsabilità di aver ospitato Padre Sora. Questo gesto di coraggio, tuttavia, non fu sufficiente a salvarli.

    La notizia della rivolta e della repressione raggiunse anche Shigemasa Matsukura, che da lontano ordinò ai suoi uomini di intensificare la caccia ai cristiani. La speranza di una pacifica convivenza svanì, lasciando spazio a un clima di terrore e sospetto.

    L’ombra della persecuzione: Shimabara e la fede tradita

    Nel cuore dell’inverno del 1627, Shigemasa Matsukura fece ritorno dal suo dominio si Shimabara. Al suo arrivo, un’ombra sinistra aveva offuscato la sua iniziale tolleranza verso i cristiani. Durante il suo soggiorno a Edo, la capitale dello shogunato, aveva assorbito la crescente ostilità nei confronti della fede cristiana, vista come una minaccia all’unità del Giappone.

    Tornato a Shimabara, Matsukura si trasformò in un feroce persecutore. Sotto la minaccia di perdere il proprio potere, impose ai cristiani del suo dominio una scelta crudele: abiurare la propria fede o affrontare le conseguenze. La comunità cristiana, profondamente radicata nel territorio, si rifiutò di cedere al ricatto. La loro tenace fede divenne così l’innesco di una spirale di violenza inaudita.

    Le torture inflitte ai cristiani erano così atroci da sfidare ogni immaginazione. Tra le più crudeli, l’amputazione delle dita, un supplizio concepito per infrangere la volontà e seminare il terrore. Il 20 febbraio 1627, trentasette cristiani furono arrestati e rinchiusi nel castello di Shimabara. Tra loro, Paulo Uchibori Sakuemon e la sua famiglia.

    Il martirio dei tre figli di Paulo

    Davanti agli occhi terrorizzati del padre, i tre figli di Paulo, Balthazar, Antonio e Ignazio furono sottoposti a questa orribile punizione. Il primo a subire l’amputazione fu Antonio, appena diciottenne. La sua giovane età e il suo coraggio di fronte al supplizio toccarono nel profondo i presenti, diventando un simbolo della resistenza cristiana.

    “Quante dita di tuo figlio dovrei tagliare?”

    La domanda dell’ufficiale, posta con una freddezza che ghiacciava il sangue, risuonò come un’offesa inaudita nell’aria carica di tensione. Paulo Uchibori, con uno sguardo fiero e indomito, rispose con la stessa moneta:

    “Sta a te deciderlo”

    Era una sfida lanciata al potere, un atto di ribellione.

    La sentenza fu inesorabile. Uno a uno, i figli di Paulo furono portati via. Antonio, il primogenito, affrontò la tortura con una dignità che lasciò tutti a bocca aperta. Mentre le lame affilate si abbattevano sulle sue mani, mutilandole, il giovane non emise un lamento. Il fratello Balthazar, commosso dalla sua forza, lo incoraggiò con voce tremante: “Ben fatto, Antonio!”. E poi fu il suo turno di affrontare il supplizio.

    Infine, toccò al più piccolo, Ignazio, di soli cinque anni. Con gli occhi grandi e lucidi, il bambino guardò i suoi carnefici senza paura. Quando le sue dita furono recise, alzò le manine sanguinanti al cielo, come se le stesse offrendo in sacrificio. E in quel gesto, in quell’espressione di serena rassegnazione, c’era una tale purezza e un tale coraggio che persino i più spietati aguzzini rimasero sconcertati.

    Foto dell’ autore: statua dei tre figli di Paulo Uchibori presso a chiesa cattolica di Shimabara

    La scena era straziante. L’orrore di quel supplizio contrastato dalla fede incrollabile di quei bambini creava un contrasto così forte da incidere profondamente nell’animo di chi assisteva. Era il trionfo dello spirito sulla carne, della fede sulla violenza. In quell’inferno, la speranza non moriva.

    Il gelido mare di Ariake

    Sedici corpi nudi, legati come prede, furono gettati nelle gelide acque del Mar di Ariake. Cento metri li separavano dalla riva, un’infinità di sofferenza che li attendeva. Era un’esecuzione crudele, un tentativo di spezzare la loro volontà e la loro fede. Uno a uno, i martiri furono immersi nelle profondità, poi riportati in superficie, in un macabro gioco del gatto col topo. Le loro urla soffocate dal sale si mescolavano al frastuono delle onde, creando una sinfonia di dolore. Ma tra le grida, risuonavano anche parole di fede e di speranza.

    Antonio rivolse uno sguardo al padre, Paulo. Nei suoi occhi, non c’era paura, ma una profonda serenità.

    “Padre, ringraziamo Dio per una così grande benedizione”

    sussurrò, prima di scomparire definitivamente sotto le onde. Le sue parole, cariche di fede e di coraggio, echeggiarono nella mente di tutti i presenti, diventando un inno alla speranza.

    La fede cristiana era stata la loro forza in tutti questi anni di persecuzione. Avevano affrontato le torture, il disprezzo e l’isolamento, ma la loro fede era rimasta incrollabile. Ora, di fronte alla morte, la loro speranza si rivolgeva al cielo, dove li attendeva la vita eterna.

    Uno dopo l’altro, i sedici martiri seguirono Antonio. I loro corpi, ormai esanimi, furono trascinati via dalle correnti, mentre le loro anime, libere dalle catene terrene, si elevavano verso il cielo. Era un sacrificio supremo, un atto di amore verso Dio e verso i propri fratelli. La loro morte non sarebbe stata vana, ma avrebbe seminato i semi della fede in cuori nuovi.

    Foto dell’ autore: vetrata della chiesa cattolica si Shimabara

    Un martirio senza fine

    Paulo Uchibori, uno dei pilastri della comunità cristiana di Shimabara, fu costretto ad assistere impotente al martirio dei suoi figli. Dalla prua di una barca, vide svanire nel mare le loro giovani vite, sacrificate sull’altare della fede. Tornato a riva, la sua sofferenza non si placò. Gli aguzzini, con una ferocia inaudita, gli mozzarono tre dita da ciascuna mano e gli marchiarono la fronte con caratteri infamanti: 切支丹 (kirishitan) un marchio indelebile che lo segnava come eretico. Liberato per un breve periodo, fu presto richiuso nelle gelide celle del castello di Shimabara.

    Nel passato, per indicare i cristiani in giapponese, si utilizzavano diverse combinazioni di kanji. “吉利支丹” e “貴利支丹” erano tra i più comuni. Tuttavia, con l’avvento delle persecuzioni religiose, la rappresentazione scritta dei cristiani subì una svolta negativa. Per evitare di utilizzare caratteri considerati inopportuni, come nel caso del nome dello shōgun di quel periodo Tokugawa Tsunayoshi (徳川綱吉), e per esprimere apertamente l’ostilità nei loro confronti, si diffusero termini più offensivi. “切支丹” o “鬼里至端”, ad esempio, contenevano kanji con significati negativi, come “tagliare” (切) o “demone” (鬼), e servivano a stigmatizzare e marginalizzare i fedeli cristiani.

    Ma la sua fede, come quella dei suoi compagni di prigionia, era incrollabile. Venti anime, unite dal vincolo della fede, resistettero alle torture, alle privazioni e alla solitudine. Nei sotterranei del castello, le loro voci si levavano in canti di speranza, convertendo persino i carcerieri più crudeli. La loro fede era un faro in quell’oscurità, una fiamma che non poteva essere spenta.

    Matsukura Shigemasa, infuriato dalla loro perseveranza, decise di porre fine a quella ribellione silenziosa. Ordinò una nuova, atroce tortura: gettare i prigionieri nelle acque bollenti degli inferni di Unzen. Così, legati e indifesi, furono gettati nell’inferno fumante, dove le loro urla si mescolarono al sibilo del vapore.

    La loro morte, tuttavia, non fu la fine, ma un nuovo inizio. I martiri di Shimabara diventarono un simbolo di resistenza e di speranza per tutti i cristiani perseguitati. Le loro storie furono tramandate di generazione in generazione, alimentando la fede di coloro che vivevano nell’ombra. I loro nomi furono incisi nel cuore della comunità cristiana, diventando un monito e un esempio di coraggio e di dedizione alla propria fede.

    Nel cuore dell’inferno

    Il 28 febbraio 1627, le speranze di sedici cristiani, guidati da Paulo Uchibori, si infransero contro la cruda realtà. Condannati a morte, furono scortati dalle guardie verso l’Inferno di Unzen (雲仙地獄), un luogo dove la terra vomitava fuoco e l’acqua ribolliva. I rimanenti quattro furono ulteriormente interrogati prima di essere anche loro  trascinati in quella macabra processione.

    Un martirio atroce

    Paulo Uchibori, con voce ferma e sguardo rivolto al cielo, invitò i suoi compagni a non opporre resistenza. “Aspettiamo”, disse, “che siano loro a gettarci negli inferni”. E così fecero, affidando le loro anime a Dio e invocando i nomi di Gesù e Maria.

    Gli aguzzini, accecati dalla crudeltà, li gettarono uno a uno nelle acque bollenti dell’inferno. Ogni schianto contro la superficie fumante era un grido muto verso il cielo, un’attestazione di fede incrollabile.

    Paulo Uchibori, simbolo di resistenza e speranza, fu riservato a un supplizio ancora più atroce. Legato mani e piedi, fu ripetutamente immerso a testa in giù nelle acque bollenti. Ad ogni immersione, le sue labbra, sfiorate dalla morte, pronunciavano un’ultima preghiera:

    いとも聖き御聖体は賛美されますように。

    “Benedetto sia il Santissimo Sacramento”

    Questa frase, pronunciata da Paulo Uchibori mentre veniva torturato, sottolinea la sua profonda fede e devozione cristiana anche di fronte alla morte.

    Foto dell’autore: vetrata della chiesa cattolica di Shimabara rappresentante il cammino dei martiri cristiani verso il monte Unzen

    Il martirio di Paulo Uchibori e di altri cristiani giapponesi è una testimonianza commovente della forza della fede umana. Le loro sofferenze, seppur inumane, non hanno potuto spegnere la luce della loro speranza. Anzi, le loro vite, consacrate a Cristo, hanno brillato come stelle nel buio della persecuzione. La loro storia ci ricorda che la fede è un tesoro inestimabile, capace di sostenere l’uomo anche di fronte alla morte. Oggi, mentre guardo il vulcano Unzen da casa mia, non vedo solo una meraviglia della natura, ma anche un monumento alla fede e al coraggio di coloro che hanno sacrificato tutto per il loro credo. Il loro esempio ci invita a riflettere sul significato della nostra vita e a custodire con cura i valori che ci sono cari.

  • Hiruko: Il bambino divino

    Hiruko: Il bambino divino

    Nelle profondità della mitologia giapponese, tra le prime narrazioni che plasmarono l’identità del suo popolo, emerge la figura enigmatica di Hiruko. Nato dall’unione delle divinità creatrici Izanagi e Izanami, il piccolo Hiruko era destinato a un destino singolare e tragico. La sua storia, raccontata nel Kojiki, uno dei più antichi testi giapponesi, è un viaggio affascinante attraverso i temi dell’imperfezione, dell’abbandono e della rinascita.

    Hiruko nacque deforme e incapace di muoversi, un’imperfezione che lo rese inaccettabile agli occhi dei suoi divini genitori. Secondo la leggenda, questo successe perché durante la creazione, Izanami, parlò prima di Izanagi. Questo errore portò alla nascita di un bambino imperfetto.

    Abbandonato in una fragile imbarcazione fatta di kisunoki, conosciuta con il nome di ame-no iwakusu-bune (天磐櫲樟船) e affidato alle onde del mare, il suo destino sembrava segnato. Tuttavia, la storia di Hiruko non si conclude con questo tragico epilogo.

    Il concetto di kegare e l’abbandono

    L’abbandono di Hiruko è profondamente radicato nel concetto di kegare (穢れ) l’impurità, presente nella tradizione shintoista. Tutto ciò che deviava dall’ordine cosmico, come una deformità fisica, una malattia o la morte stessa, era considerato una contaminazione e doveva essere allontanato. Abbandonando Hiruko tra i flutti, Izanagi e Izanami compivano un misogi (禊) un rituale di purificazione volto a ristabilire l’equilibrio cosmico.

    Il misogi è un concetto che ha profondamente influenzato la cultura giapponese, trovando espressione in pratiche quotidiane come lavarsi le mani prima di entrare in un santuario o spargere sale dopo un funerale. Questi gesti, apparentemente semplici, nascondono una profonda simbologia legata alla purificazione e al mantenimento dell’armonia tra l’uomo e il divino.

    La trasformazione in Ebisu

    Nonostante l’abbandono, la storia di Hiruko non finisce qui. Secondo alcune leggende, il bambino divino, dopo aver vagato per mari in tempesta, approdò sulle coste dell’attuale Nishinomiya, dove fu accolto e allevato dalla popolazione locale. Qui, Hiruko si trasformò e fu chiamato dalle persone della zona con il nome di Ebisu (夷), che significa “straniero”, uno dei sette shichifukujin (七福神), o divinità della fortuna, noto come il kami protettore della pesca, del commercio e della prosperità.

    L’abbandono di Hiruko, anche se raccontato in un contesto mitologico, riflette un aspetto complesso della natura umana: la difficoltà di accettare l’imperfezione. In molte culture, comprese alcune società tradizionali giapponesi, la perfezione fisica e la capacità di procreare erano considerate segni di favore divino. Un bambino come Hiruko, dunque, poteva essere visto come una sorta di “errore” della natura, una deviazione dalla norma.

    Tuttavia, è importante sottolineare che la società giapponese ha nel corso dei secoli ha sviluppato un profondo senso di rispetto per la vita e per le persone con disabilità. Molte divinità shintoiste sono associate a specifiche disabilità o malattie, e questo ha contribuito a creare un’immagine più complessa e inclusiva della disabilità nella cultura giapponese.

    Hiruko oggi

    La figura di Hiruko continua a esercitare un fascino particolare sulla cultura giapponese. Egli è venerato come divinità della fortuna e del commercio, ma è anche un simbolo della complessità dell’animo umano e della capacità di superare le avversità. La sua storia ci invita a riflettere sul significato della diversità, dell’accettazione e della speranza.

    Anche l’etimologia del nome Hiruko e i vari modi in lo si trova scritto nonché il legame con Oohirume-no-muchi-no-kami (大日孁貴神) altro nome per indicare Amaterasu è molto interessante ma lo tengo per un prossimo articolo.

  • Saba-kaidō, la via dello sgombro

    Saba-kaidō, la via dello sgombro

    Immagina di camminare lungo un’antica via, tra montagne e valli, con una gerla piena di sgombri freschissimi destinati alla corte imperiale. Benvenuti sulla Wakasa-kaidō (若狭街道), conosciuta anche come saba-kaidō (鯖街道), la “via dello sgombro” che collegava un piccolo angolo di Giappone alla potente Kyōto. In realtà, non si trattava di un unico percorso, ma di una rete di sentieri che collegavano le coste di Wakasa alla capitale imperiale.

    Situata nella parte sud-occidentale dell’attuale prefettura di Fukui, Wakasa era un vero e proprio scrigno di ricchezze naturali. Le sue acque pullulavano di pesce, mentre le terre fertili producevano abbondanti raccolti. Il porto di Obama, punto di partenza della storica Wakasa-kaidō, era un brulicare di attività. Le possenti navi kitamaebune (北前船) solcavano le acque, portando ricchezze e prodotti freschi da ogni angolo del Giappone. Tra questi, lo sgombro, o saba (鯖), era il re incontrastato.

    La Wakasa-kaidō serpeggiava tra montagne e valli, da Obama a Kumagawa, passando per Ōhara, fino a Demachi. Un viaggio che, in termini odierni, equivale a circa 80 chilometri, ma che all’epoca richiedeva un giorno e una notte di cammino faticoso. I portatori percorrevano chilometri e chilometri su sentieri tortuosi, superando valichi montani e attraversando fitte foreste. Lo sgombro, appena pescato nelle acque cristalline del Mar del Giappone, era un vero e proprio tesoro. La sua carne, soda e dal sapore intenso, era destinata a deliziare il palato dell’Imperatore e della sua corte.

    I miketsu kuni

    Sapevate che un tempo in Giappone esistevano delle regioni speciali, chiamate miketsu-kuni (御食国), le terre del cibo offerto all’Imperatore? Wakasa, come riportato nell’engishiki, un codice di leggi del periodo Heian (794-1185), era una di queste. I prodotti, chiamati mini-e (御贄), di questa regione, tra cui il prezioso sgombro, erano considerati un vero e proprio tributo all’imperatore. Non a caso, la Wakasa kaidō venne ribattezzata “via dello sgombro”, un nome che evoca un’immagine vivida di uomini che, con fatica e dedizione, portavano un dono prezioso alla corte imperiale.

    Lo sgombro pescato all’alba, leggermente salato per conservarlo durante il lungo percorso, raggiungeva Kyōto. La sua carne, durante il viaggio, si rassodava, acquisendo un sapore intenso ed equilibrato che deliziava i palati dei nobili e dei cittadini.

    C’è addirittura un antico proverbio giapponese che recita:

    秋鯖嫁に食わすな

    Akisaba yome ni kuwasuna

    Non dare lo sgombro autunnale a tua moglie

    Questo detto sottolinea il momento migliore per gustare l’akisaba (秋鯖), lo sgombro autunnale, quando il pesce, dopo la frenetica attività riproduttiva del periodo estivo, accumula grassi che ne esaltano il sapore, rendendolo una prelibatezza irresistibile che si vorrebbe tenere tutta per sé senza condividerla nemmeno con la propria moglie.

    Oggi, la Wakasa kaidō è un sentiero storico che ci permette di ripercorrere le orme dei portatori di quel periodo e di apprezzare la ricchezza e la varietà della cultura giapponese. La sua eredità va ben oltre il semplice commercio dello sgombro. È un simbolo di un’epoca in cui le relazioni tra le diverse regioni del Giappone erano strettamente legate al cibo e alle tradizioni locali.

    Se state viaggiando in questo periodo in Giappone non perdete l’occasione di gustarvi un buon sabazushi.

  • Toribeno

    Toribeno


    Disclaimer: le foto presenti in questo articolo non sono di mia proprietà e sono riprese dal sito dell’ente per il turismo della città di Kyōto. Durante il mio soggiorno a Kyōto nel 2004, ho scattato tantissime foto. Dopo averle sviluppate, le ho messe via in qualche scatola che ora è in Italia


    Fūsō: un’ Antica Pratica Funeraria Giapponese

    Il fūsō (風葬) era un’antica pratica funeraria giapponese, particolarmente diffusa a Heiankyō (平安京, Kyōto). Si sottoponevano i corpi all’azione degli elementi, e il lento processo di decomposizione, accelerato dagli avvoltoi che si nutrivano della carne dei cadaveri, dava vita a questo pratica funeraria conosciuta anche come chōsō (鳥葬). L’inizio di un viaggio ultraterreno segnato da un profondo rispetto per il ciclo della vita e della morte, un rito che oggi ci appare straniero ma che un tempo era profondamente radicato nella cultura giapponese.

    Il significato spirituale del fūsō

    Questo metodo di sepoltura era considerato un modo per riconsegnare il corpo e l’anima alla natura e favorirne il passaggio nell’aldilà. Un’usanza affascinante e al tempo stesso inquietante, che ci rivela un aspetto poco noto della cultura giapponese di quel periodo e che solleva speso interessanti interrogativi sulla concezione della morte e dell’oltretomba nelle società antiche.

    Heiankyō

    Heian-kyō (平安京) era quella che oggi definiremo una metropoli in costante crescita, con una popolazione stimata tra i 120.000 e i 130.000 abitanti. La gestione dei defunti, in una città così densamente popolata, rappresentava una sfida sanitaria e logistica di primaria importanza. Per garantire l’igiene pubblica e preservare la sacralità dei luoghi, si decise di spostare progressivamente i cimiteri al di fuori dei confini urbani. Tuttavia, la necessità di mantenerli raggiungibili costrinse autorità e abitanti a trovare un equilibrio tra la distanza dalla città e la praticità dei riti funebri.

    Toribeno, il confine tra due mondi

    Sulle colline di Higashiyama (東山), piu precisamente ai piedi del monte Amidagamine (阿弥陀ヶ峰) sorgeva Toribeno (鳥辺野), una delle necropoli più estese di quel periodo. Questo luogo, ricco di storia e di significati simbolici, era considerato il confine tra il mondo terreno e l’aldilà. A testimonianza di ciò, ancora oggi a Kyōto esiste il rokudō no tsuji (六度の辻, letteralmente “l’incrocio dei sei sentieri”)  segnato da due monumenti di pietra. Uno di questi si erge nei pressi rokudō chinnō-ji (六道珍皇寺, un tempio buddista) mentre l’altro è posizionato a sud-est alla base della scalinata che conduceva al Toribeno. Questi due monumenti, che delimitavano simbolicamente il confine tra il mondo dei vivi e l’aldilà, sono un’eredità del passato che ci rivela molto sulla concezione della morte e dell’aldilà nella cultura giapponese.

    Toribeno, luogo di eterna quiete, ha accolto nel corso dei secoli figure di spicco della storia e della letteratura giapponese. Non solo il potente reggente Fujiwara no Michinaga (藤原道長), e la consorte imperiale Fijuwara no Sadako (藤原定子), trovarono qui la loro ultima dimora, ma anche i personaggi immortali del Genji Monogatari (源氏物語) di Murasaki Shikibu, furono destinati a riposare in questo luogo.

    Kūkai e l’introduzione dei riti funerari

    L’antica usanza di lasciare i corpi esposti agli elementi si trasformò radicalmente quando il saggio Kūkai, recatosi nella capitale colpita da una grave epidemia, insegnò alla popolazione locale la pratica di seppellire i morti nel terreno, per contenere l’epidemia, e a pregare per loro. A tale scopo fondò anche il Gochizanrengeji (五智山如来寺). La fondazione di questo tempio fu un punto di svolta, sancendo l’abbandono progressivo di una pratica arcaica a favore di una concezione più rispettosa della morte.

    Usanze funerarie nella società di periodo Heian

    Nell’antica capitale giapponese le disparità sociali si riflettevano anche nelle usanze funerarie. Mentre i nobili, a partire dal rango di sanmi (三位, il terzo rango più alto all’interno della corte) godevano di elaborate cerimonie funebri e tombe, i comuni cittadini erano limitati a sepolture più semplici e spesso collettive, a causa dei costi proibitivi della cremazione (dovuto in gran parte alla grande quantità di legna da ardere necessaria), pratica quindi nota ma ristretta ad un numero ristretto di persone.

    Toribeno e lo Tsurezuregusa

    Un riscontro che la cremazione fosse utilizzata anche presso il Toribeno risale al periodo Kamakura (鎌倉時代,  1185-1333), quando il saggista Yoshida Kenkō (吉田兼好), con la sua proverbiale sensibilità, immortalò nell’opera intitolata Tsurezuregusa (徒然草) il seguente verso:

    あだし野の露、鳥辺野の煙

    adashino no tsuyu, toribeno no kemuri

    La rugiada di Adashino, il fumo di Toribeno

    Adashino, che si trova non distante da Arashiyama, era un’altro grande cimitero utilizzato durante il periodo Heian e dove veniva praticato il fūsō. Si racconta che Kūkai fondò il Nenbutsuji (念仏寺) e all’interno di questo tempio fece disporre 10.000 statue del Buddha per commemorare le anime di coloro che non avevano ricevuto una degna sepoltura.

    Sai no Kawara

    Molte di queste sono andare distrutte, sepolte e disperse nelle zone limitrofe con il passare degli anni. A metà dell’era Meiji (1868-1912), gli abitanti della zona e i funzionari del tempio iniziarono a riunire tutte le statue all’interno del perimetro del tempio in una zona conosciuta come sai no kawara (西の河原).

    Fonte: Nenbutsuji Website

    Il nome di quest’area deriva da sai no kawara (賽の河原) che nell’inferno buddista, è la sponda del fiume sanzu dove le anime dei bambini morti prematuramente (水の子, mizuko) sono costrette a costruire torri di pietre come punizione per aver causato gravi sofferenze ai propri genitori. Come in un limbo questo bambini costruiscono queste torri di pietra che vengono continuamente abbattute da dei demoni fino a quando Jizō Bosatsu (地蔵菩薩) non arriva in loro aiuto salvandoli da questo supplizio.

    Sentō kuyō

    Tutte le statue, ad oggi se contano circa 8.000, sono collocate rivolte verso il centro dove si trova una pagoda e una stato si Amida Nyorai. Le statue sono spesso paragonate a persone attente ad ascoltare un sermone del Buddha. Ogni anno passate le celebrazione del Bon migliaia di candele vengono accese in un rituale chiamato sentō kuyō (千灯供養) durante il quale le persone si raccolgono in preghiera.

    Fonte: Nenbutsuji website

    Ritornando al verso dello Tsurezuregusa si può intuire come questo voglia essere una metafora, che evoca la precarietà dell’esistenza umana. L’ immagine delle statue di pietra di Adashino, costantemente bagnate dalla rugiada, l’idea di una continua presenza della morte e dell’eterno ricordo dei defunti. La rugiada, simbolo di vita e rinascita, si contrappone alla morte rappresentata dalle statue, creando un’atmosfera di profonda malinconia e riflessione sulla transitorietà della vita.

    L’immagine del fumo perenne che si alza verso il cielo da Toribeno, suggerisce l’idea di una vita che continua a bruciare, di un ciclo continuo di nascita e morte. Sottolinea l’idea che la morte è una parte integrante della vita e che la memoria dei defunti rimane viva.

    Toribeno: un portale verso l’aldilà

    Gli storici ritengono che la scelta di Toribeno come cimitero a Heiankyō non sia stata puramente casuale o dettata solamente da necessità logistico sanitarie, ma abbia avuto anche significati più profondi. La sua posizione geografica, a est della città, era considerata propizia per il viaggio spirituale verso la saihō jōdo (西方浄土), “la terra pura occidentale”, che Amida Nyorai insegna si trovi a “dieci miliardi di terre buddhiste a ovest del mondo degli umani”.
    Questa credenza, radicata nel buddismo, trasformava Toribeno in un vero e proprio portale verso l’aldilà attraverso il quale le anime potessero raggiungere la terra pura a ovest.

    Toribeno e il clan Taira

    L’attuale Toribeno è un vasto cimitero situato vicino al Kiyomizu-dera (清水寺). Taira no Kiyomori (平 清盛), il primo leader a stabilire un governo militare in Giappone, deciso di trasferirlo in questa zona. Nelle vicinanze sorge il Rokuharamitsuji (六波羅蜜寺), tempio che oltre ad essere un importante sito storico della citta, in passato fu l’epicentro del potere del clan Taira alla fine dell’era Heian.

    Fonte: minnanohaka

    Il clan Taira fu una potente famiglia aristocratica che dominò il Giappone durante il periodo Heian e questo tempio fu teatro di numerosi eventi cruciali nella storia del paese, tra cui la genpei gassen (源平合戦1180-1185, “Guerra Genpei“) che vide il clan Taira opporsi a quello dei Minimoto. I giapponesi chiamano spesso questa guerra jishō juei no ran (治承寿永の乱), dalle ere Jishō (治承) e Juei (寿永) in cui si svolse.

    Fonte: Rokuharamitsuji Website

    Nonostante lo splendido paesaggio urbano della odierna Kyōto, si crede che molti luoghi con nomi che terminano con il kanji “野” in passato siano serviti come cimiteri. Questi luoghi, un tempo destinati alla sepoltura, offrono oggi uno spaccato affascinante sulla storia della città.

  • Kanro

    Kanro

    In Giappone siamo entrati nel periodo del kanro (寒露), uno dei nijūshisekki (二十四節気) o 24 termini solari. Questo periodo, caratterizzato dalla prima rugiada mattutina segna il pieno arrivo dell’autunno. La natura si prepara al letargo invernale offrendo uno spettacolo di colori indimenticabile: le foglie degli alberi si tingono di rosso, arancione e giallo, creando un paesaggio mozzafiato.

    Kanro, il diciassettesimo termine solare

    Come già scritto in altri articoli di questo blog i nijūshisekki (二十四節気) o 24 termini solari, suddividono l’anno in 24 periodi, ognuno con un nome che riflette le caratteristiche climatiche e stagionali.

    Passato il lungo periodo delle piogge dello shūrin (秋霖), che accompagna l’inizio dell’autunno, l’aria si fa più fresca e i cieli più limpidi, creando uno scenario perfetto per ammirare le prime sfumature autunnali. Un periodo di transizione ricco di fascino, dove la natura si rinnova e si prepara ad affrontare il freddo invernale.

    In autunno, il cielo è alto e i cavalli ingrassano.

    Come recita un antico proverbio cinese:

    天高く馬肥ゆる秋
    Tentakaku umakoyuru aki
    In autunno, il cielo è alto e i cavalli ingrassano

    Questo proverbio, spesso tradotto come “In autunno, il cielo è alto e i cavalli ingrassano”, sembra celebrare la bellezza e l’abbondanza dell’autunno. Tuttavia, le sue origini nascondono un significato più profondo. In realtà, questo proverbio era inizialmente un avvertimento riguardo alle tribù nomadi che, proprio in autunno, quando i loro cavalli erano più forti e ben nutriti, compivano incursioni e prendevano i villaggi.

    Micro stagioni del kanro

    Oltre ai 24 termini solari, esiste una divisione stagionale più dettagliata conosciuta come shichijūnikō (七十二候) che potremmo tradurre in italiano come “72 micro-stagioni”. Ciascuno dei 24 termini solari viene quindi ulteriormente diviso in tre periodi di circa cinque giorni.

    Kanro si divide in tre periodi:

    Kōgan-kitaru (鴻雁来): un’antica tradizione giapponese che celebra l’arrivo delle oche selvatiche. Questo evento, ricco di significato simbolico, segna l’inizio dell’autunno e l’avvicinarsi dell’inverno. Le oche, con il loro volo maestoso, sono da sempre considerate messaggere dei kami e simboli di longevità e fedeltà e sono spesso citate in poesie, canzoni e ritrarre in opere d’arte.

    Kiku no Hana Hiraku (菊花開): una celebrazione dell’autunno giapponese, quando i crisantemi, simbolo di perfezione e rinascita, colorano i giardini. Questa antica espressione evoca una profonda connessione con la natura e le tradizioni nipponiche, dove i crisantemi sono protagonisti di numerose festività autunnali.

    Kirigiri suto ari (蟋蟀在戸), letteralmente “i grilli cantano alla porta”, è un’espressione che evoca l’atmosfera unica dell’autunno in Giappone. Questo termine indica il periodo in cui i grilli, in particolare il suzumushi (鈴虫), o grillo campana, iniziano a cantare le loro melodiose serenate.

    Il termine kirigiri-suto-ari utilizza il kanji antico “蟋蟀” (kirigirisu), che un tempo indicava genericamente i grilli. Oggi, il termine più comune è “koorogi“. L’espressione “alla porta” sottolinea l’intimità e la familiarità con cui molti giapponesi percepiscono il canto dei grilli, quasi come se fossero ospiti benvenuti nelle loro case.

    Un suono inconfondibile

    Il canto del grillo maschio, che si protrae per circa venti giorni durante l’autunno, è inconfondibile. Il suono prodotto dallo sfregamento delle ali ricorda quello di un dito che scorre su un pettine o, secondo la tradizione giapponese, il tintinnio di una piccola campana, da cui il nome “suzumushi“.

    Una tradizione antica

    L’ascolto del canto dei grilli è una tradizione profondamente radicata nella cultura giapponese. Da secoli, i giapponesi apprezzano la bellezza e la serenità del loro canto, che viene associato all’arrivo dell’autunno e alla contemplazione della natura.

    Nagasaki Kunchi

    Il festival dello Okunchi (おくんち) è un tesoro culturale del Giappone, che celebra la ricca storia multietnica e le tradizioni di Nagasaki. Questa antica festa, nata dalla fusione di elementi locali, cinesi, olandesi e portoghesi è un esempio straordinario di come la cultura possa evolversi e adattarsi nel corso dei secoli. Il Kunchi è molto più di una semplice festa: è un’espressione dell’identità di Nagasaki e un ponte tra passato e presente.

    Nella parte settentrionale del Kyūshū, un crogiolo di culture e un’antica tradizione cinese si sono mescolati con le usanze locali, dando vita a una trilogia di spettacolari festival, noti collettivamente come i nihon sandai kunchi (日本三大くんち), ovvero i “Tre Grandi Festival Kunchi del Giappone”. Ciascuno di questi eventi, un vero e proprio capolavoro di coreografia e tradizione, offre uno spettacolo unico e indimenticabile. Il più famoso, quello di Nagasaki, è un trionfo di colori e suoni che incanta ogni anno migliaia di spettatori. Ma anche l’Hakata Kunchi di Fukuoka e il Karatsu Kunchi, con le loro sfilate e danze tradizionali, animano le città con un’energia contagiosa, trasformandole in veri e propri palcoscenici a cielo aperto.

    Si dice che questo festival abbia avuto origine a Nagasaki nel 1634, quando una prostituta dedicò una rappresentazione conosciuta con il nome di komai (小舞), un’espressione artistica che rifletteva la vibrante cultura multietnica della città, al santuario di Suwa (諏訪神社, suwajinja) la dimora del kami protettore di Nagasaki. Da quel momento, il festival è cresciuto in modo esponenziale, radicandosi profondamente nel cuore dei cittadini e diventando un vero e proprio patrimonio culturale.

    Durante i tre giorni di festa, i vari quartieri della città, gli odocchō (踊町), si sfidano in spettacolari rappresentazioni tradizionali, un mosaico di influenze culturali che spazia dalla Cina all’Olanda e al Portogallo. Queste esibizioni, riconosciute come Beni Culturali Folklorici Intangibili dal governo giapponese, sono un tesoro vivente che celebra la storia e l’identità culturale di Nagasaki.


    L’autunno, con le sue giornate miti e le notti che si allungano lentamente, invita a godere appieno della natura. Le foglie degli alberi si tingono di mille colori, creando paesaggi mozzafiato perfetti per lunghe passeggiate o picnic all’aria aperta. Un’atmosfera magica avvolge i parchi e i giardini, rendendo questo periodo dell’anno ideale per rilassarsi e ricaricare le energie prima dell’arrivo dell’inverno.




  • Shūbun no hi

    Shūbun no hi

    L’equinozio d’autunno

    La maggior parte delle persone associa indubbiamente questo giorno all’equilibrio perfetto tra luce e oscurità, un equinozio celeste che segna l’esatto momento in cui il sole attraversa l’equatore celeste. Sebbene nel 2024 shūbun no hi (秋分の日) cada il 22 settembre, la data è soggetta a minime fluttuazioni annuali, dettate da precisi calcoli celesti. Negli ultimi anni, questa festività ha acquisito un’importanza crescente per i giapponesi, diventando un punto di riferimento culturale che spesso incide sulla durata della Golden Week autunnale, meglio conosciuta come “Silver Week“. L’autunno si conferma la stagione prediletta per i viaggi itineranti e lo svago all’aria aperta.

    Una Festa Nazionale Unica

    La legislazione nipponica, nel 1948, ha sancito lo shūbun no hi, l’equinozio d’autunno, quale festività nazionale, consacrando un legame profondo tra l’uomo e i ritmi cosmici. Sebbene nel 2024 ricada il 22 settembre, la data esatta di tale ricorrenza è soggetta a minime oscillazioni annuali, determinate dai complessi movimenti celesti del sole.

    Questa consuetudine di ancorare una festività a fenomeni celesti è un tratto distintivo del calendario giapponese, un vero e proprio patrimonio culturale unico nel panorama internazionale. È interessante notare come lo shūbun no hi si inserisca nel più ampio contesto dei nijūshisekki (二十四節気), un raffinato sistema di divisione dell’anno in termini solari di origine cinese, adottato e rielaborato dalla tradizione nipponica.

    L’equinozio è un istante cosmico preciso in cui il sole, nel suo percorso apicale, raggiunge lo zenith sull’equatore terrestre. Questo fenomeno astronomico, frutto dell’intersezione tra l’eclittica del sole e l’equatore celeste, segna l’equilibrato connubio tra luce e oscurità, un momento di perfetta simmetria cosmica. In questi giorni, luce ed oscurità hanno la stessa durata, celebrando un’effimera armonia tra le forze celesti.

    Equinozi in Giappone: un viaggio tra passato e presente

    Il Giappone, da sempre terra di tradizioni millenarie e di un profondo reverenziale rispetto per la natura e gli antenati, celebra due importanti festività legate agli equinozi: lo shūbun no hi (秋分の日), l’equinozio d’autunno, e lo shunbun no hi (春分の日), l’equinozio di primavera.

    Dalla corte imperiale al cuore del popolo

    Prima della Seconda Guerra Mondiale, questi equinozi erano legati a cerimoniali più formali e riservati alla corte imperiale. L’equinozio d’autunno, ad esempio, era conosciuto come shūki-kōreisai (秋期皇霊祭), un solenne rito dedicato al ricordo degli spiriti ancestrali dei precedenti imperatori e della famiglia imperiale. Similmente, lo shunbun no hi era chiamato shunki-kōreisai (春季皇霊祭).

    Con la fine del conflitto mondiale e l’inizio di un nuovo capitolo nella storia del Giappone, queste festività hanno subito una profonda metamorfosi. Nel 1948, sia l’equinozio d’autunno che quello di primavera sono stati ridefiniti, diventando celebrazioni più inclusive e aperte a tutti i cittadini.

    Lo shūbun no hi è diventato un momento per onorare non solo gli antenati imperiali, ma tutti i defunti, in particolare coloro che hanno sacrificato la vita durante il conflitto. È un giorno dedicato alla contemplazione, alla gratitudine e al ricordo dei propri cari.

    Lo shunbun no hi invece, è stato consacrato alla celebrazione della rinascita della natura e alla speranza per il futuro. È un momento per esaltare la bellezza della primavera e per ringraziare per la vita.

    Shūbun no hi e higan

    L’equinozio d’autunno è anche conosciuto come higan no chūnichi (彼岸の中日), “il giorno centrale dello higan“. Ma cosa significa esattamente “higan” e perché è così strettamente legato all’equinozio d’autunno?

    Ohigan

    L’equinozio d’autunno, insieme ai tre giorni precedenti e successivi, costituisce un periodo di sette giorni noto come aki no ohigan (秋のお彼岸), letteralmente “higan d’autunno”. Il primo giorno è chiamato higan-iri (彼岸入り), “inizio dello higan” mentre l’ultimo giorno higan-ake (彼岸明け), “fine dell’Ohigan”. Il giorno centrale, che risulta essere l’equinozio d’autunno stesso, è chiamato higan no chūnichi (彼岸の中日), “il giorno centrale dell’Ohigan”.

    Higan e shigan

    Questa usanza, tipicamente giapponese, ha origini antiche, risalenti addirittura al periodo Heian (794-1185). Nel buddismo, il mondo in cui si crede risiedono i nostri antenati, ovvero un luogo di illuminazione, è chiamato higan (彼岸, letteralmente l’”altra sponda”), mentre il nostro mondo, pieno di turbolenze e affanni, è chiamato shigan (此岸 , letteralmente “questa sponda”).

    Poiché nell’equinozio d’autunno la durata del giorno e della notte è quasi identica, si credeva che in questo periodo la distanza tra il nostro mondo e quello dei nostri antenati fosse minima, rendendo più facile esprimere loro la nostra gratitudine. Da qui ha origine la tradizione dell’Ohigan.

    Pertanto, il periodo intorno all’equinozio d’autunno è dedicato al culto degli antenati, con visite alle tombe di famiglia e offerte all’altare buddista.

    Anche l’equinozio di primavera, con i suoi tre giorni precedenti e successivi, è chiamato Ohigan. Ma di questo ne parleremo in un altro articolo.

    Ohagi

    Durante l’equinozio d’autunno, il giorno centrale del periodo dello higan è consuetudine consumare gli ohagi (おはぎ). Esistono varie teorie legate alle origini di questa tradizione. Quella prevalente sostiene che la pratica ebbe inizio quando i fagioli rossi azuki, venerati per la loro capacità di allontanare gli spiriti maligni, furono presentati come offerte agli antenati.

    L’ohagi è uno dei dolci tradizionali giapponesi che le persone consumano durante l’autunno. I giapponesi lo preparano cuocendo il riso glutinoso e pestandolo leggermente fino a quando la metà dei grani rimane intatta, quindi lo cospargono di pasta di fagioli, farina di soia e semi di sesamo.

    L’ ohagi deve il suo nome dal fiore stagionale l’hagi (萩), o trifoglio giapponese, che fiorisce proprio in questo periodo e che nelle tradizione giapponese rappresenta la gratitudine per le benedizioni del raccolto.

    Fiori di Hagi del giardino di casa mia in Giappone
    Foto dell’autore

    Gli ohagi sono simili ai botamochi ma i primi sono serviti esclusivamente durante l’autunno e il botamochi in primavera. E tradizione in certe famiglie giapponese onorare gli spiriti dei loro antenati preparando in casa gli ohagi, per poi offrirli sia sul butsudan sia a parenti e vicini come segno di amicizia. È una tradizione tramandata in Giappone sin dal periodo Edo (1603-1868). (Quelli della foto sono stati fatti in casa dalla zia di mia moglie)

    I fagioli azuki

    I fagioli azuki, un alimento di base nella dieta giapponese fin dal periodo Jomon, sono da lungo tempo profondamente radicati nel patrimonio culinario della nazione. Mentre lo zucchero, una preziosa merce in epoche passate, elevò l’ohagi allo status di dolce di lusso, in particolare modo tra la gente comune del periodo Edo.

    Nel tempo questo semplice dolce si è evoluto in un’offerta per la venerazione degli antenati fungendo contemporaneamente come mezzo per invocare protezione divina contro le forze maligne e pregare per la buona salute di tutta la famiglia.

    La somiglianza tra i fiori di hagi e i fagioli azuki diede origine fece si che all’inizio il nome di questo dolce fosse ohagimochi (御萩餅). Nel tempo, il suffisso “mochi” (餅) fu gradualmente omesso, risultando nella forma contemporanea, “ohagi“, scritta in hiragana おはぎ.

    La misteriosa bellezza degli higan-bana

    Con i suoi petali di un rosso fiammeggiante e la sua forma esoterica, il manjushage (曼珠沙華) cattura lo sguardo di chiunque si trovi in Giappone durante l’autunno. Questo fiore, noto anche come higanbana (彼岸花), cela un significato profondo, radicato nella tradizione buddista e shintoista. In sanscrito, manjushage significa letteralmente “fiore che sboccia nel paradiso”, evocando immagini di serenità e bellezza ultraterrena.

    Foto dell’autore

    Tipico fiore autunnale, il manjushage sboccia proprio nel periodo dello shūbun, offrendo uno spettacolo di rara bellezza che dura circa una settimana. Da qui il nome higan-bana, o “fiore dello higan“, che lo lega indissolubilmente all’equinozio d’autunno e alle celebrazioni dedicate agli antenati. Originario della Cina, in Giappone si è naturalizzato, diventando un simbolo dell’autunno e popolando i cimiteri, le risaie e i bordi delle strade.

    Higanbana: un velo di mistero e fascino

    Proprio perché crescono spesso in prossimità dei luoghi sacri, gli higanbana hanno guadagnato appellativi carichi di mistero come yūrei-bana (幽霊花), “fiore dei fantasmi”, o shibito-bana (死人花)”fiore dei morti”, alimentando così un’aura di inquietudine e fascino.

    Un guardiano velenoso

    La presenza di questi fiori in questi luoghi non è casuale: essi contengono alcaloidi letali, concentrati soprattutto nel bulbo. Ingerirli può provocare convulsioni spasmodiche, difficoltà respiratorie e persino la morte. Si narra che un tempo le persone fossero solite piantarli ai confini dei campi, nelle risaie o nei pressi delle tombe di famiglia per tenere a bada creature infestanti come talpe e topi, sfruttandone la tossicità. Questa antica usanza ha lasciato un’impronta indelebile, regalandoci oggi uno spettacolo di incomparabile bellezza in occasione dell’equinozio d’autunno.

    In Giappone, ci sono numerosi luoghi che offrono la possibilità di ammirare distese di manjushage. Tra questi, il “Kinchakuda Manjushage Kōen” di Hiki, nella prefettura di Saitama, è famoso per la sua vastità e la sua bellezza mozzafiato.

    Un momento di riflessione

    Come avevo riportato in un precedente contributo un detto giapponese che recita.

    「暑さ寒さも彼岸まで」

    Atsusa samusa mo higan made

    “Il caldo e il freddo finiscono con lo Higan

    Questa saggia massima popolare ci ricorda come, in corrispondenza degli equinozi di primavera e d’autunno, il clima inizi gradualmente a mitigarsi, segnando un delicato passaggio verso una nuova stagione.

    L’equinozio d’autunno, in particolare, sancisce l’inizio di un periodo caratterizzato da temperature clementi e piacevoli, in netto contrasto con le torride giornate estive. Sebbene oggi possa sembrare una data come tante altre, in passato l’equinozio d’autunno rivestiva un significato sacrale, essendo dedicato al ricordo e al rispetto dei nostri antenati, e alla gratitudine per i doni della vita.

    Ricordare i nostri cari che ci hanno preceduto e apprezzare le piccole gioie della quotidianità è un modo sublime per affrontare questo periodo dell’anno, intriso di malinconica bellezza.

  • Tōdō Aoi, le campane di Gion e l’impermanenza

    Tōdō Aoi, le campane di Gion e l’impermanenza

    Chi ha avuto modo di seguire l’adattamento animato o di leggere il manga di Jujutsu Kaisen (呪術廻戦) ricorderà certamente l’iconica scena dell’intervento di Tōdō Aoi (東堂葵) durante l’”Incidente di Shibuya“, in cui salva Itadori Yuji dall’attacco mortale di Mahito. In questa sequenza cruciale, l’autore affida al personaggio di Tōdō una frase che riecheggia antiche saggezze:

    Il suono delle campane del Gionshōja (祇園精舎) ci ricorda che tutti i fenomeni di questo mondo sono in costante cambiamento. Il colore dei fiori di sara (娑羅), invece, rappresenta la verità secondo cui anche i più prosperi sono destinati a declinare. Ma, noi siamo destinati a splendere in eterno!

    Questo passaggio esprime l’idea che ogni ascesa ha un suo tramonto. Eppure, Todō sfida questa legge universale, affermando: “Noi siamo destinati a splendere in eterno!” riferendosi a Itadori Yuji.

    Questa affermazione, ricca di simbolismo e riferimenti religiosi, avrà sicuramente suscitato curiosità tra i lettori piu attenti e curiosi.

    Heike Monogatari

    Vi chiederete sicuramente quale connessione ci sia con lo Heike Monogatari (平家物語). Ebbene, queste parole ne rappresentano l’incipit, l’inizio di una delle più celebri epopee giapponesi. lo Heike Monogatari, classificabile come gunki monogatari (軍記物語, “cronaca di guerra”), narra l’ascesa e la caduta del clan Taira, e della sua rivalità con il clan dei Minamoto. Considerato un pilastro della letteratura giapponese, offre uno sguardo vivido sul tumultuoso mondo del Giappone feudale.

    Il Gionshōja

    Sebbene il nome “Gion” possa farti pensare a un tempio di Kyōto, il nome Gionshōja si riferisce in realtà a un monastero buddista che esisteva nell’India antica. È un comune equivoco pensare che si trovi in Giappone. 

    Il dizionario del buddismo riporta che il nome si riferisce a un monastero che si trovava a Shravasti, la capitale del regno di Kosala nell’antica India. Si racconta che Sudatta, un ricco mercante di Shravasti, impiegò la sua fortuna personale per acquistare il giardino del principe Jeta e costruì lì un monastero per Buddha e la sua comunità monastica.

    Poiché il monastero fu costruito sul giardino del principe Jeta, fu tradotto in cinese come “Gijū” o “Gion“.

    La divinità protettrice di questo monastero era Gōzutennō (牛頭天皇). In Giappone, fu costruito un santuario dedicato a questa divinità, che divenne il centro dell’attuale quartiere di Gion a Kyōto.

    È così che il nome “Gion” si diffuse in Giappone. Sebbene il termine “Gionshōja” suoni molto giapponese, in realtà è un nome importato dall’India insieme al Buddhismo.

    Per inciso, il santuario di Gion fu rinominato Yasakajinja (八坂神社) durante la separazione tra Shintoismo e Buddhismo nel periodo Meiji, e oggi è famoso in tutto il Giappone per il Gion Matsuri.

    L’impermanenza

    Lo Heike Monogatari inizia con questi versi potenti e ricchi di significato: il suono delle campane del monastero di Gion. Questo tintinnio, ci ricorda l’autore, è un costante memento mori, un richiamo alla shōgyō mujō (諸行無常), l’impermanenza di ogni esistenza. Un’idea ulteriormente rafforzata dall’immagine dai due alberi di sara (沙羅双樹), effimeri come la vita stessa, che secondo la tradizione buddhista erano presenti al momento del parinirvana del Buddha. Questo ci insegna che ogni esistenza, per quanto gloriosa, è destinata a finire.

    Shōgyō mujō

    Shōgyō mujō, o impermanenza è un concetto buddista che indica la natura impermanente di tutti i fenomeni. Suggerisce che tutto nell’universo è in costante cambiamento e nulla rimane statico. Nel buddismo, mentre la morte è considerata sofferenza, la vera sofferenza deriva non dalla morte stessa, ma dal desiderio di essere permanenti in un mondo che è intrinsecamente impermanente.

    Una volta compreso il concetto di shōgyō mujō , possiamo vedere come il nostro desiderio di cose immutabili, come l’amore costante o un lavoro stabile, spesso porta a sofferenze inutili. Riconoscere la natura impermanente del mondo può aiutare ad alleviare questo tipo di ansia.

    Il Gionshōja, dove il Buddha tenne molti dei suoi sermoni, era un luogo di profonda spiritualità. In particolare, il mujōdō (無常堂), il “padiglione dell’impermanenza”, era dedicato alla contemplazione della transitorietà dell’esistenza. Qui, al momento della morte di un monaco, il suono dolce di piccole campane di cristallo dette hari annunciava la fine di una vita terrena, invitando alla riflessione sulla natura ciclica dell’esistenza.

    Il suono delle campane di Gion, dunque, non è solo un semplice segnale funebre, ma un invito a considerare la vita e la morte alla luce della shōgyō mujō e del concetto di jōsha hissui (盛者必衰) l’inevitabile declino di ogni cosa. I fiori di sara e il mujōdō si intrecciano a questo suono, creando un’atmosfera di profonda spiritualità e malinconica bellezza.

    Jōsha hissui

    “Coloro che prosperano sicuramente declineranno”, questo è il significato del termine jōsha hissui. È un concetto buddista radicato nell’idea dell’impermanenza ed è un insegnamento che suggerisce che anche coloro che sperimentano una grande prosperità alla fine declineranno, poiché tutto in questo mondo è impermanente. Nel mondo degli affari e dello sport, spesso vediamo esempi di questo: anche gli individui più di successo alla fine si ritirano e vengono sostituiti da nuove stelle. Similmente, anche le tendenze e le mode popolari alla fine svaniscono.

    Sarasōja, i due alberi di sara

    L’albero di sara è considerato uno dei tre alberi sacri nel buddismo perché si dice che Buddha sia passato a miglior vita sdraiato sotto due di questi alberi. Secondo la leggenda, questi alberi si seccarono al momento del passaggio di Buddha e poi fiorirono magnificamente con fiori bianchi.


    Provate a rileggere questo passaggio del manga o rivedete la punta dell’anime con una comprensione più profonda di concetti legati al Gionshōja , l’impermanenza di tutte le cose e l’inevitabile declino dei prosperi, per averne un’esperienza completamente nuova e profonda. È un promemoria che la conoscenza e l’apprendimento modellano davvero il modo in cui percepiamo il mondo che ci circonda.




  • Enma shinkō

    Enma shinkō

    Il culto di Enma, giudice degli inferi

    Durante il vostro soggiorno a Tōkyō, perché non aggiungere un tocco di mistero alla vostra vacanza? Oltre ai templi e santuari più famosi, potreste visitare luoghi meno conosciuti, ma altrettanto affascinanti. Alcuni di questi sono dedicati a Enmaō (閻魔王), re e giudice degli inferi, conosciuto anche come Enma-Daiō (閻魔大王).

    Non spaventatevi! In Giappone, Enma-sama non è visto come un semplice bogeyman, ma come una figura che insegna l’importanza della bontà e dell’onestà, soprattutto ai più piccoli. Recarsi in visita ad una delle sue statue è come fare un viaggio nel cuore della cultura giapponese e scoprire come un parte della religione e del folklore abbia plasmato la società.

    Mia moglie dice spesso ai nostri figli frase del tipo:


    “Se dici bugie, Enma-sama ti tirerà fuori la lingua”

    un modo di dire usato per scoraggiare i bambini dal mentire, suggerendo che Enma punirà i bugiardi. In italiano, un equivalente potrebbe essere “Se mentirai, ti verrà tagliata la lingua”.

    Oppure:

    “Se andrai all’inferno o in paradiso lo deciderà Enma-sama

    significa che Enma decide la destinazione finale delle anime dopo la morte, in base alle loro azioni durante la vita.

    Enma infatti è spesso rappresentato come un giudice severo, con un aspetto minaccioso e un lungo bastone che usa per punire i peccatori.

    Enma shinkō, il culto di Enma

    Chi l’avrebbe mai detto? Anche nel cuore di Tōkyō, una delle città più moderne del mondo, c’è un profondo legame con il mondo dell’ aldilà. L’ Enma shinkō (閻魔信仰), letteralmente “culto di Enma” è stato una parte importante della cultura giapponese.

    Ci sono circa 40 statue di Enma sparse per la città e c’è un motivo particolare per cui questi luoghi erano così popolari in periodo Edo. Il 16 di ogni mese è dedicato al giudice degli inferi, ma il 16 Gennaio e il 16 Luglio sono date ancora più speciali. Il 16 Gennaio, chiamato anche hatsu Enma (初閻魔) e il 16 Luglio, ultimo giorno dedicato alle celebrazioni per il Bon, i templi di Enma erano affollatissimi. Sembra che anche l’inferno abbia i suoi giorni di festa.

    Hatsu-Enma e lo yabuiri

    Il 16 Gennaio si celebra lo hatsu Enma (初閻魔), la prima festa dell’anno dedicata al temibile giudice. In passato, questo giorno coincideva con lo yabuiri (薮入り), il giorno in cui veniva concesso ai servi un giorno libero. Si credeva che anche Enma in persona scendesse sulla terra in questo giorno.

    Lo yabuiri

    Nel periodo Edo (1603-1868), un’epoca che ha profondamente segnato la storia del Giappone, i servi che lavoravano nei negozi e presso le famiglie più ricche, godevano di un giorno di riposo speciale chiamato yabuiri (薮入り), il 16 Gennaio, nel giorno successivo al koshōgatsu (小正月), letteralmente il “piccolo capodanno”, durante il quale si celebra la prima luna piena dell’ anno nuovo.

    In questa giornata, oltre a ricevere doni e denaro dai loro padroni, si racconta che i servitori erano soliti visitare i santuari dedicati ad Enma. Questa usanza nasceva dalla credenza che anche nell’aldilà ci fossero dei momenti di pausa. Si pensava infatti che, coincidendo il riposo dei servi con le celebrazioni dedicate ad Enma, anche l’inferno si prendesse un giorno di pausa, permettendo così al grande giudice di scendere sulla Terra. Un’affascinante testimonianza di come la spiritualità e le tradizioni popolari si intrecciassero nella vita quotidiana dei giapponesi di un tempo.

    Anche il 16 Luglio, data che coincideva con la conclusione dei festeggiamenti del Bon, come il 16 Gennaio era un giorno particolarmente significativo, chiamato daisaiji (大斎日), ed era un giorno dedicato alle pratiche purificative. In questa data, i templi dedicati ad Enma erano particolarmente affollati. Questa usanza, nata nel periodo Edo, si è tramandata, seppur in forma ridotta, fino ai giorni nostri: ancora oggi, in alcuni templi di Tōkyō, si tengono cerimonie speciali e le statue di Enma vengono esposte al pubblico. È un modo per mantenere viva una tradizione millenaria e per riflettere sul significato della vita e della morte.

    Taisōji

    Il 16 Luglio, in occasione dell’ Enma-saijitsu (閻魔祭日), vi invito a visitare e scoprire il Taisōji (太宗寺), un tempio buddista nascosto nel cuore del quartiere di Shinjuku. Facilmente raggiungibile dalla stazione Shinjuku Gyoenmae (新宿御苑前駅), questo tempio, seppur privo del tradizionale sanmon (山門), offre un’atmosfera tranquilla e suggestiva. All’ingresso vi accoglie una delle rokuedojizō (江戸地蔵), statue di Jizō (地蔵) che un tempo segnavano gli ingressi principali di Edo. Superata questa statua, si giunge all’Enma-dō (閻魔堂), dove è custodita la statua di Enma. Un luogo ideale per immergersi in una parte della spiritualità giapponese.

    Il Taisōji era considerato uno dei tre principali luoghi di Edo dedicati al culto di Enma (江戸三大閻魔, Edo Sandai Emma). Gli altri due sono il Zenyōji (善養寺) in zona Edogawa e il Ketokuin (華徳院), a Suginami.

    La statua di Enma è davvero enorme, alta oltre cinque metri, venne installata in questo tempio nel 1814 e divenne subito un punto di riferimento religioso per la zona di Naitō Shinjuku (内藤新宿), tanto da essere anche conosciuta come naitō Shinjuku no Enma-sama (内藤新宿のおえんま様), “l’ Enma di Naitō Shinjuku“.

    Fonte: Shinjuku-kankō

    Intorno alla metà del XIX secolo, si diffuse la voce che gli occhi di questa statua, fossero fatti di cristallo. Così, un folle, forse in preda ai fumi dell’ alcol, ci credette così tanto da rubarne uno. Questo fatto divenne talmente famoso da essere raffigurato in stampe e reso celebre in tutto il paese.

    Vicino alla statua di Enma c’è anche quella di datsueba (奪衣婆). Letteralmente “la vecchia che strappa i vestiti”, è una figura infernale al servizio di Enma. È un demone che assume le sembianze di una vecchia e si occupa di spogliare i vestiti di coloro che si presentano al fiume Sanzu senza le sei monete, il compenso necessario per attraversarlo. Datsueba spoglia le persone dei loro abiti e li consegna al suo consorte, un’anziano demone di nome keneō (懸衣翁) che li appende a un albero chiamato eryōju (衣領樹). Misurando la curvatura dei rami, riesce a determinare il peso degli abiti e, di conseguenza, la gravità dei peccati commessi dalla persona. Chi è innocente non viene giudicato, mentre i peccatori sono condotti al cospetto di Enma.

    Datsueba, visto il suo compito di spogliare le persone, fu venerata anche come divinità protettrice delle case di piacere di Naito Shinjuku.

    Genkakuji

    Come abbiamo già scritto in precedenza nel folklore giapponese, Enma è una figura molto importante. Viene spesso raffigurato come il giudice supremo dell’oltretomba, colui che decide il destino delle anime dopo la morte. Tra le tante rappresentazioni di Enma, una delle più famose si trova presso il Gengakuji (源覚寺), un tempio buddista situato nel quartiere di Bunkyō. In questa statua, particolarmente significativa, si nota un dettaglio curioso: l’occhio destro è tinti di nero, quasi come se Enma avesse assistito a così tante sofferenze da portarne un segno indelebile sul suo corpo.

    Konnyaku Enma

    Esiste una leggenda che racconta di una donna anziana, vissuta durante l’era Hōreki (1751-1764), che soffriva di una malattia agli occhi. Dopo aver pregato il grande re Enma per 21 giorni, le apparve in sogno e le promise:

    “Come ricompensa per la tua devozione, ti donerò uno dei miei occhi”

    Il giorno in cui la sua preghiera fu finalmente esaudita, la vista della donna tornò a essere perfetta. Si racconta che da quel giorno l’occhio destro della statua di Enma si tinse di colore nero. In segno di profonda gratitudine, la donna decise di rinunciare al suo cibo preferito, il konnyaku, e di offrirlo regolarmente ad Enma. Da allora, l’Enma del Gengakuji è conosciuto come konnyaku Enma (こんにゃく閻魔), “Enma del konnyaku” e viene venerato da coloro che soffrono di problemi alla vista.

    Fonte: Genkakuji website

    Il konnyaku non è in vendita all’interno del tempio, quindi lo si deve portare da casa o può essere acquistato in un supermercato o in un konbini che si trovano nelle vicinanze.

    Curiosità

    Per chi di voi avesse letto Kokoro di Natsume Soseki, ricorderà sicuramente la parte dove l’autore scrive proprio di “camminare lungo la strada di konnyaku Enma“.

    Il Gengakuji è un luogo ricco di storia e di spiritualità. Nel corso della sua storia, il tempio ha superato quattro grandi incendi tra cui il “Grande incendio di Meireki” (1657). Fortunatamente, sia il Buddha principale che la statua di Enma sono riusciti a sfuggire a questi disastri ogni volta. Anche durante i bombardamenti aerei su Tōkyō nella Seconda Guerra Mondiale, il tempio principale riuscì a evitare di essere coinvolto nelle fiamme.

    Ancora oggi continua ad essere un punto di riferimento per la comunità. La leggenda di konnyaku Enma e la sua associazione con il tempio hanno contribuito a renderlo un luogo di culto e di interesse storico.

    Hōjōin

    Con oltre 390 anni di storia, l’ Hōjōin (法乗院) è un tempio che affonda le sue radici nel quartiere di Fukagawa. Al suo interno, i fedeli venerano il Daichinyorai (大日如来), una figura centrale nel buddhismo. Conosciuto anche come Fukugawa Enmadō (福川えんま堂),  il “tempio di Enma“, questo luogo di culto è da sempre un punto di riferimento per la comunità locale e offre un’oasi di pace e spiritualità.

    Sebbene oggi sia quasi completamente urbanizzato, il quartiere di Fukagawa era in origine una zona ricca di corsi d’acqua e canali, come suggerisce il suo nome. In passato anche l’Hōjōin era circondato dall’acqua. Attraversare il ponte per recarsi al tempio doveva evocare nella mente delle persone l’attraversamento del fiume Sanzu per raggiungere il regno dei morti.

    High-tech Enma

    La statua di Enma che possiamo ammirare oggi è una ricostruzione. L’originale, purtroppo, fu distrutta dal grande terremoto che ha colpito il Kantō nel 1923. La nuova statua, creata nel 1989, è però, molto più di una semplice replica. È un capolavoro tecnologico che unisce tradizione e innovazione.

    Questa statua di Enma è un vero e proprio gioiello tecnologico, è conosciuta infatti anche con il nome di “high-tech Enma“. Essendo recente, è dotata di numerose funzioni: grazie a un sistema di altoparlanti, è in grado di emettere suoni, luci e di pronunciare sermoni.

    Questa statua offre un’esperienza molto moderna e personalizzata. Sono disponibili ben 19 diverse preghiere, che vanno dalla richiesta di buona salute alla preghiera contro l’infedeltà. Inserendo una monetina nella fessura corrispondente, si può ascoltare un sermone personalizzato pronunciato dalla statua di Enma. È così divertente che si finisce per voler ascoltare tutti i sermoni.

    La statua è esposta al pubblico più spesso rispetto ad altre, precisamente il 1° e il 16 di ogni mese. In quei giorni è possibile entrare nella sala e ammirare anche la statua Jizō Bosatsu (地蔵菩薩). Per questa statua disponibili dei legnetti da bruciare, i gomagi (護摩木) per esprimere i propri desideri, e mentre si offrono, sullo schermo viene proiettata l’immagine del paradiso. Anche questa statua è dotata di funzioni tecnologiche avanzate.

    Un’apparente contraddizione

    Quando pensiamo al Buddismo, immaginiamo spesso un mondo di serenità, meditazione e ricerca interiore. Ma se scaviamo un po’ più a fondo nella cultura popolare giapponese, troviamo un affascinante contrasto: la presenza di figure come Jizō Bosatsu e Enma, che sembrano sfidare i principi fondamentali della dottrina buddista.

    Il Buddismo, nella sua forma originale insegnata da Buddha, non prevede l’esistenza di divinità o demoni. È una filosofia che invita a cercare la liberazione dalla sofferenza attraverso la comprensione della natura della realtà. Allora, come si concilia questa visione con figure come Jizō, spesso raffigurato come un bodhisattva che protegge i bambini, o Enma, il giudice dell’oltretomba?

    La risposta a questo quesito ci porta in Cina. Enma, il temibile giudice infernale spesso accompagnato dai Dieci Re, ha le sue origini proprio nella religione popolare cinese. È una figura che incarna l’idea di giustizia divina e di un aldilà dove le azioni compiute in vita dopo essere state giudicate vengono ricompensate o punite.

    Quando il Buddismo si diffuse in Giappone, entrò in contatto con il folklore locale e si arricchì di nuovi elementi. La figura di Enma, con la sua funzione di giudice, si adattò perfettamente al pantheon giapponese. Nonostante le sue origini cinesi, Enma divenne un personaggio chiave nella mitologia buddista giapponese, presiedendo i giudizi nell’aldilà e determinando il destino delle anime.

    Comprendere questa distinzione tra il Buddismo originale e le sue successive interpretazioni culturali è fondamentale per apprezzare la complessità e la ricchezza di questa religione in Giappone. Ci aiuta a capire come questa tradizione religiosa si sia evoluta nel tempo, assimilando e trasformando elementi di diverse culture.

    Nel periodo Edo, la figura di Enma era molto presente nell’arte, all’interno di scritture teatrali e religiose ma nel corso degli anni declinò gradualmente. Oggi è quasi scomparsa dalla coscienza religiosa popolare delle nuove generazioni, quello che ne rimane è una eco di una tradizione ormai lontana, forse perché il classico netto dualismo “bene e male” o “luce e oscurità” che risulta chiaramente definito nelle nostra tradizione occidentale, non credo possa dirsi estraneo alla concezione del mondo del popolo giapponese, ma credo assuma una visione piu sfumata e complessa.

    In conclusione, mentre il Buddismo insegna che la liberazione dalla sofferenza si trova all’interno di noi stessi, la figura di Enma rappresenta l’idea di una giustizia esterna, di un giudizio divino che ci attende dopo la morte. Questo contrasto ci ricorda che la religione è spesso un mosaico di credenze e pratiche che si stratificano nel corso dei secoli, dando vita a un quadro complesso e affascinante.

  • Nagatsuki

    Nagatsuki

    Avete mai sentito parlare di nagatsuki? Questo antico termine giapponese evoca immagini di notti lunghe e limpide, di lune brillanti che illuminano cieli autunnali. Ma cosa significa esattamente e perché è così legato alla cultura giapponese?

    Il tempo che cambia: dal kyūreki allo shinreki

    Prima dell’arrivo del periodo Meiji (1868-1912), ovvero prima che il Giappone aprisse le sue porte al mondo occidentale, il tempo era scandito da un calendario molto diverso da quello che utilizziamo oggi. Si trattava del kyūreki, un calendario tradizionale conosciuto anche con il nome di inreki (陰暦). Un calendario lunisolare che seguiva sia il movimento della luna che quello del sole. Questo calendario, profondamente radicato nelle tradizioni agricole e religiose del Giappone, divideva l’anno in dodici mesi, ognuno con un nome evocativo che celebrava le caratteristiche della stagione corrispondente.

    Tra questi dodici mesi, nagatsuki (長月) occupava un posto speciale. Questo termine, che letteralmente significa “mese lungo”, si riferiva al nono mese dell’anno lunare e indicava il periodo in cui le notti iniziavano ad allungarsi, creando un’atmosfera di calma e riflessione.

    Perché nagatsuki?

    Il nome nagatsuki è legato all’osservazione della natura. In autunno, le notti si allungano e la luna, splendente nel cielo scuro, diventa un punto focale per molte attività e celebrazioni. Le persone si riunivano per ammirare la luna, comporre poesie e condividere storie. Questo legame profondo tra l’uomo e i ritmi della natura è alla base del significato di nagatsuki.

    Un retaggio che sopravvive

    Con l’arrivo del periodo Meiji e la conseguente modernizzazione del Giappone, il kyūreki fu gradualmente sostituito dallo shinreki, il calendario gregoriano utilizzato ancora oggi. Tuttavia, il fascino di nagatsuki, come quello degli altri wafūgetsumei (和風月名, nomi giapponesi dei mesi), continua a vivere nell’immaginario collettivo dei giapponesi, diventando sinonimo di settembre nel calendario gregoriano.

    È importante sottolineare che settembre nel calendario lunare non corrisponde esattamente a settembre nel calendario solare. In realtà, nagatsuki si colloca tra la fine di settembre e l’inizio di novembre nel nostro calendario attuale. Questa differenza è dovuta al fatto che il calendario lunare è più corto di quello solare e si sposta gradualmente nel corso degli anni.

    Origine del termine

    L’origine del termine nagatsuki è avvolta nell’incertezza, dando vita a diverse teorie e interpretazioni. La più accreditata tra queste collega il nome all’allungarsi delle notti in autunno. Dopo lo shūbun (秋分), l’equinozio d’autunno, le giornate si accorciano progressivamente e le notti si fanno sempre più lunghe. Da qui, l’ipotesi che nagatsuki (長月) sia una contrazione di yonagatsuki (夜長月), ovvero “mese di lunghe notti”.

    Un legame con la natura e le tradizioni agricole

    Tuttavia, questa non è l’unica spiegazione possibile. Altre teorie collegano il nome nagatsuki alle attività agricole tradizionali, in particolare alla coltivazione del riso. Si ipotizza che possa derivare da termini come inekarizuki (稲刈月, “mese del raccolto del riso”), ineagarizuki (稲熟月, “mese della maturazione del riso”) o honagatsuki (穂長月, “mese della crescita delle spighe di riso”). Con il tempo la contrazione di questi termini avrebbe portato all’attuale nagatsuki. Queste interpretazioni sottolineano il profondo legame tra il calendario lunare e i ritmi della natura, in particolare quelli legati all’agricoltura, pilastro fondamentale della società giapponese tradizionale.

    L’incertezza sull’origine precisa del nome nagatsuki aggiunge un tocco di fascino a questo antico termine. Ognuna delle teorie proposte offre una prospettiva diversa e ci invita a riflettere sul profondo legame tra l’uomo e la natura, un legame che ha plasmato la cultura e le tradizioni giapponesi.

    Nomi alternativi

    Nezamezuki

    Chi non ha mai sperimentato la sensazione di svegliarsi nel cuore della notte, avvolto da un silenzio ovattato e da un leggero brivido? Soprattutto in autunno, quando le giornate si accorciano e le notti si fanno più fresche, il sonno può diventare più leggero. Forse il rumore di qualche animale notturno, o semplicemente il nostro corpo che si adegua ai ritmi della natura. Ma non è solo il corpo a risvegliarsi: in autunno, anche la mente sembra più attiva. Pensieri e preoccupazioni affiorano con più insistenza, rendendo il sonno ancora più leggero. I giapponesi di un tempo, forse piu sensibili a questi cambiamenti della natura e dell’animo umano, hanno dato un nome a questo periodo: nezamezuki (寝覚月), letteralmente “mese degli risvegli”. Settembre, con le sue notti lunghe e i suoi silenzi, era per loro il momento in cui i pensieri più profondi emergevano dalla notte, quasi a volersi confondere con la nebbia mattutina. Nezame (寝覚) in lingua giapponese vuol dire svegliarsi durante il sonno.

    Odakarizuki

    Il nono mese del calendario lunare, in Giappone, era dedicato a un’attività fondamentale per la sopravvivenza delle comunità rurali: la raccolta del riso. Da qui il nome odakarizuki (小田刈月), letteralmente “mese della raccolta del riso”. Il raccolto del riso era un momento di festa e di ringraziamento, un’occasione per celebrare l’abbondanza e la ciclicità della natura. L’autunno, con la sua abbondanza, era celebrato come il culmine di un ciclo naturale. Il kanji “小”, che significa “piccolo”, potrebbe sembrare fuori luogo, ma in realtà è quello che in giapponese viene definito come settōgo (接頭語), un prefisso per addolcire, un esempio di come la lingua giapponese sia ricca di sfumature e di come i suoni delle parole possano evocare immagini e sensazioni.

    Kikushū

    Settembre, nel calendario lunare, era conosciuto con molti nomi che celebravano la fioritura del kiku (菊) il crisantemo, fiore simbolo della casa imperiale giapponese. Kikushū (菊秋), letto anche kikuaki, letteralmente “autunno del crisantemo”, assieme ad altri nomi come, kikumizuki (菊見月), kikusakizuki (菊咲月), kikuhirakizuki (菊咲月) e kikugetsu (菊月) era tutti attribuiti a questo mese che aveva come protagonista questo nobile fiore.

    Il 9 settembre, in particolare, dal periodo Edo (1603-1868) in Giappone si celebra il kiku no sekku (菊の節句), la Festa del Crisantemo.

    Momijiuzuki

    Il nono mese lunare era un periodo molto atteso dai giapponesi, tanto da essere chiamato momijizuki (紅葉月), ovvero “mese delle foglie rosse”. Era il momento in cui la natura si preparava al riposo invernale, offrendo uno spettacolo di colori indimenticabile. Gli antichi giapponesi erano particolarmente sensibili alla bellezza della natura e avevano un nome per ogni sfumatura delle foglie autunnali. Usumomiji (薄紅葉) e muramomiji (斑紅葉) sono solo alcuni esempi di come la lingua giapponese fosse ricca di espressioni per descrivere il mondo naturale durante questo periodo dell’anno.

    Ryōshū

    Il termine ryōshū (涼秋) significa letteralmente “autunno fresco”. Tuttavia, in questo contesto, il significato del kanji “涼” (fresco) indica una sensazione di freddo, un leggero brivido che percorre il corpo. Dato che molti giorni di settembre corrispondevano a questa descrizione, ryōshū divenne uno dei nomi alternativi per il nono mese del calendario lunare.

    Comprendere il significato di nagatsuki ci permette di apprezzare la ricchezza e la profondità della cultura giapponese. Ci aiuta a connetterci con le tradizioni del passato e a scoprire il profondo rispetto che i giapponesi hanno sempre nutrito per la natura e i suoi cicli. Inoltre, ci offre uno sguardo affascinante su come il tempo veniva percepito e vissuto in un’epoca in cui l’uomo era più strettamente legato ai ritmi della terra.

  • Ochōzu kannon

    Ochōzu kannon

    Ochōzu Kannon (御手水観音, letteralmente “Kannon della sorgente purificatrice”) è un luogo speciale, lontano dal trambusto delle città, nascosto tra le montagne della prefettura di Nagasaki, dove la storia e la spiritualità si fondono in un’atmosfera unica. Immagina un piccolo tempio dedicato a Kannon, divinità buddista molto amata in Giappone, che da secoli attira pellegrini da tutta la zona.

    Chōzu è un rituale tradizionale giapponese di purificazione che si svolge prima di pregare nei santuari o nei templi lavandosi le mani. Questo gesto simbolico serve a pulire il corpo e lo spirito, preparandoli per la preghiera. In un’epoca in cui la fede popolare e il sankaku bukkyō (山岳仏教, “il buddismo della montagna”) erano fiorenti, numerosi fedeli si recavano a venerare Kannon e si purificavano nelle acque fresche della cascata dedicandosi alla pratica spirituale.

    Ancora oggi durante il periodo estivo, le persone si recano in questa oasi di pace alla ricerca di un po’ di refrigerio. Ma la vera sorpresa ti aspetta percorrendo il sentiero che conduce al tempio: sul lato sinistro, sulle rocce, troverai ben 49 incisioni dedicate a Buddha! Queste incisioni sono un vero mistero, perché nessuno sa esattamente quando e perché furono create. Questo luogo infatti è conosciuto anche come Ochōzu kannon no magaibutsugun (御手水観音の磨崖仏群), letteralmente “gruppo di Buddha scolpiti nella roccia presso l’Ochōzu kannon“.

    Le espressioni dei Buddha sono così serene e delicate che ti sembrerà di entrare in un mondo di tranquillità. Molte di queste incisioni sono state realizzate con un’antica tecnica, uguale a quella delle goyakurakan (五百羅漢, “i 500 discepoli del Buddha), che si trovano a Tomigawa, nella città di Isahaya.

    I 500 discepoli di Buddha di Tomigawa

    I 500 goyakurakan si trovano nella gola di Tomigawa, a monte del fiume Honmyō (本明川). Le cronache riportano che tra il 1699 e il 1700, 12° e 13° anno dell’era Genroku (元禄) , il dominio di Isahaya fu colpito prima da una grave alluvione causata dal fiume Honmyō che causò la morte di 487 persone e in seguito da una grave carestia. Per pregare per le anime dei defunti e per la pace e prosperità del dominio, il settimo signore di Isahaya, Shigeharu, fece costruire il tempio Daiō (大雄寺) nella gola di Tomigawa e fece scolpire le immagini dei rakan sulle pareti rocciose della gola e sui grandi massi. Attualmente sono state identificate oltre 500 immagini. Completate nel 1709, queste incisioni sono, assieme a quelle di Ochōzu kannon, le più importanti della prefettura e costituiscono come bene culturale e una preziosa testimonianza della storia di Isahaya.

    Tornando alle incisioni presenti ad Ochōzu kannon vicino ad alcune sono stati incisi anche dei nomi, che si crede sia riconducibili a persone che abbiano contribuito alla creazione di queste incisioni, forse donando del denaro o lavorando direttamente su di esse.

    Le origini di questo tempio si perdono nel tempo. Sebbene esista una leggenda che attribuisca la sua fondazione al monaco Gyōki (行基), le fonti storiche, in particolare un documento conservato nel santuario di Mitachiyama (御館山神社, Mitachiyamajinja, Isahaya), offrono un quadro un po’ più preciso.

    In questo documento c’è scritto: “Non si sa con certezza in quale epoca sia stato fondato. Davanti al tempio scorre una cascata, e sulla parete rocciosa è incisa la data Shitoku (1385). Sopra si trovano le sillabe di Senju Kannon (千手観音), Fudō Myō (不動明王) e Bishamonten (毘沙門天), ancora visibili oggi.

    Il grande festival di Ochōzu kannon

    Da oltre un secolo, ogni anno il 18 Agosto, si svolge l’ Ochōzu kannon Taisai (御手水観音大祭), il grande festival dedicato ad Ochōzu kannon. Durante il festival, si svolgono cerimonie per pregare per un buon raccolto (五穀豊穣, gokokuhōjō) e la sicurezza della famiglia. Non mancano le esibizioni nella tradizionale danza conosciuta con il nome di furyū (浮立) per esprimere la loro gratitudine per l’acqua che irrora i campi.

    Fonte: Isahayashi Website

    La danza furyū

    Nelle mie zone si dice che questa danza abbia il potere di “far risvegliare l’animo dei kami e degli uomini”. Questa antica tradizione, radicata nelle campagne dell’ex dominio di Saga e oggi anche in tutta la prefettura di Nagasaki e in altre zone del Kyūshū veniva offerta nei santuari e templi locali come atto di devozione, sia per implorare la pioggia che per ringraziare per la prosperità dei raccolti.

    Queste incisioni, create da diverse mani che hanno raffigurato il Buddha in modi differenti, sono una preziosa testimonianza della profonda fede popolare dell’epoca.

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