
Kyūbi
Ah, il freddo. Un freddo che non sentivo da mille anni, da quando ero solo una cucciola dal pelo fulvo, rannicchiata contro mia madre nella tana gelida. Ma questo è diverso. Questo è il freddo del ferro che mi morde le carni, due frecce maledette, piantate nel mio fianco, nel mio collo. Il mio sangue, un tempo nettare che faceva impazzire anche gli imperatori, ora cola denso su questa terra di Nasu, questa piana che sarà la mia tomba…o forse no.
La vita…un lampo beffardo che mi attraversa la mente ormai annebbiata dalla morte imminente. Vedo foreste sterminate, notte illuminate solo dalla luna e dai miei stessi occhi, che già allora brillavano di un’intelligenza ferina. Ero volpe, sì, ma sentivo crescere in me qualcosa di più. Ogni coda che spuntava era un sigillo di potere, anni di astuzia distillata, di sopravvivenza trasformata in arte pura. Nove code. Kyūbi no kitsune. Un nome che faceva tremare la natura stessa e ammutolire gli altri spiriti minori.
Per secoli ho vagato, imparando le lingue degli uomini, i loro desideri, le loro paure. Ah, le loro paure! Così facili da manipolare. Li osservavo nascosta tra le ombre, affinando la mia capacità di mutare forma. Un mercante facoltoso qui, un danzatrice là, ogni maschera che indossavo era un passo più vicino al cuore del potere. Perché era quello che bramavo, più dell’aria, più del sangue caldo delle mie prede. Il potere di plasmare il mondo, di vedere gli imperi tremare al mio passaggio.
E poi arrivai in queste isole. Il Giappone, o terra di Yamato. Un gioiello grezzo, pronto per essere incastonato nella mia corona. Scelsi la corte dell’Imperatore Toba. Un uomo…uno come tanti, debole di fronte alla bellezza, affamato di lusinghe. Mi presentai come Tamamo no Mae, un gioiello luminoso. E risplendevo, eccome se risplendevo! La mia pelle era più liscia della seta più pregiata, i miei capelli più neri dell’ala di un corvo, i miei occhi promettevano paradisi e inferni con un solo sguardo.
La corte cadde a miei piedi. L’Imperatore…ah, l’Imperatore era mio. Ogni sua parola, ogni suo respiro era per me. Lo avvolsi nelle mie spire, sussurrandogli sogni di grandezza che erano, invero, i miei. Il suo corpo si consumava, la sua forza vitale fluiva in me, alimentando il mio potere, avvicinandomi sempre di più al trono. Credevo di averli ingannati tutti, quegli sciocchi pomposi e le loro dame ingioiellate.
Ma c’era lui, Abe no Yasuchika. Un Astrologo, un onmyōji con occhi che vedevano oltre il velo. Sentivo il suo sguardo su di me, inquisitore, freddo. Ha iniziato a tessere la sua tela, a bisbigliare sospetti. La malattia dell’imperatore, diceva, non era naturale. E poi, il rituale. Le preghiere che mi colpivano come lame. La maschera umana si sgretola, rivelando la mia magnifica, terrificante verità: la volpe a nove code, uno spirito antico, un terribile yōkai.
Fuggii. La paura negli occhi dei cortigiani era una vista deliziosa, ma la caccia era iniziata. Kazusa, Miura…nomi che rimarranno per l’eternità. Mi braccarono come una bestia qualunque. Io, che avevo tenuto un impero nel palmo della mia mano! La battaglia fu epica, qui in queste pianure di Nasu. La mia magia contro le loro armi consacrate. Erano forti e la loro fede li rendeva molto forti. Riuscì a far perdere le mie tracce, ma qualche giorno dopo mi trovarono. E poi, le frecce. Queste frecce.
Il mio corpo si contorce, si trasforma un’ultima volta. Non in cenere, no. In pietra. La chiamate sesshō-seki, la pietra assassina. Il mio odio, la mia malvagità, la mia essenza immortale fuse nella roccia, emanando un miasma letale per chiunque osasse avvicinarsi. Per secoli sono rimasta lì, in prigione. Ho sentito i sussurri dei viaggiatori, le leggende crescono intorno al mio nome. Tamamo no Mae, uno dei tre yōkai più terribili del Giappone. Si, temetemi! pensavo.
Il tempo scorreva come un fiume lento, ma il mio spirito non dormiva. Ascoltavo. Il mondo cambiava, le dinastie cadevano, nuove paure nascevano. Sentivo la pietra erodersi, il vento sferzarla, il gelo incrinare la sua superficie. E poi, un giorno, un suono diverso. Non il lamento del vento, non il grido di un animale sfortunato. Un suono secco, definitivo. CRACK.
La sesshō-seki si è spezzata.
Un fremito percorre ciò che resta di me, un’energia antica che si risveglia. Le frecce…il dolore sta svanendo, sostituito da una fame primordiale. Una fame di vita, di potere, di…vendetta? No, la vendetta è un qualcosa che appartiene a voi mortali. Io bramo di più.
Sento i vostri discorsi, anche ora, nel mondo moderno. Parlano di spiriti maligni liberati, di presagi. Che ingenui. Non sanno cosa li aspetta. Il mio spirito, a lungo rinchiuso e compresso all’interno di questa pietra, ora si espande, libero da quella fredda prigione. Il mio spirito si libera. Il mondo ha dimenticato il vero significato della bellezza che cela l’inganno, della saggezza che nasconde il pericolo.
Forse è tempo che Tamamo no Mae torni a insegnarlo agli uomini. Le frecce…non erano la fine ma solo un nuovo, eccitante inizio. E questa volta…questa volta, sarò più attenta a chi scruta oltre il velo. Il Giappone…il mondo…un palcoscenico più vasto. E io ho ancora fame.
Il racconto in prima persona che ho scritto per questo post ci immerge direttamente nella leggenda di Tamamo no Mae, culminante nella sua trasformazione nella pietra assassina e nel presagio di un suo inquietante ritorno. Ma la sua storia, così come ci è stata tramandata, affonda le sue radici in una tradizione narrativa ben più antica, gli otogizōshi – racconti popolari di periodo Muromachi (1363-1573) – e in altre forme successive di teatro Nō, bunraku e kabuki. Anche se esistono varie versioni di questa storia (con protagonisti diversi), gli otogizōshi hanno arricchito la narrazione cristallizzando l’immagine di Tamamo no Mae come “Nihon Sandai Aku Yōkai” – I tre terribili Yōkai del Giappone-.
Le kitsune, le volpi, figure centrali nel folklore giapponese, incarnano una profonda dualità: sono venerate come messaggere della divinità Inari, apportatrici di prosperità e fortuna, ma allo stesso tempo temute per la loro astuzia e la capacità di ingannare. La loro abilità di trasformarsi, in particolare in donne affascinanti, o di possedere gli esseri umani, le rende simboli della fluidità tra il mondo animale e quello spirituale. Più code possiede una kitsune, maggiore è la sua potenza, fino alla volpe a nove code (kyūbi no kitsune), un’entità quasi divina e immensamente potente. Questa ambivalenza riflette la complessità della natura e delle forze invisibili che permeano la cultura giapponese, dove il sacro e il profano spesso si sovrappongono.
La superstizione della sesshō-seki, la pietra assassina, esemplifica questa fusione di mito e realtà. Si crede che questa roccia contenesse lo spirito maligno di Tamamo no Mae, la volpe protagonista del mio racconto. La sua rottura, nel marzo del 2022, e stata interpretata da molti non come un semplice evento geologico, ma come un presagio del ritorno dello spirito della volpe, a dimostrazione di come queste antiche credenze continuano spesso a influenzare la percezione della realtà e suscitare timore e meraviglia nelle societa contemporanea.

Io, William Adams

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