Ombrelli Rotti

  • Kyūbi

    Kyūbi

    Ah, il freddo. Un freddo che non sentivo da mille anni, da quando ero solo una cucciola dal pelo fulvo, rannicchiata contro mia madre nella tana gelida. Ma questo è diverso. Questo è il freddo del ferro che mi morde le carni, due frecce maledette, piantate nel mio fianco, nel mio collo. Il mio sangue, un tempo nettare che faceva impazzire anche gli imperatori, ora cola denso su questa terra di Nasu, questa piana che sarà la mia tomba…o forse no. 

    La vita…un lampo beffardo che mi attraversa la mente ormai annebbiata dalla morte imminente. Vedo foreste sterminate, notte illuminate solo dalla luna e dai miei stessi occhi, che già allora brillavano di un’intelligenza ferina. Ero volpe, sì, ma sentivo crescere in me qualcosa di più. Ogni coda che spuntava era un sigillo di potere, anni di astuzia distillata, di sopravvivenza trasformata in arte pura. Nove code. Kyūbi no kitsune. Un nome che faceva tremare la natura stessa e ammutolire gli altri spiriti minori. 

    Per secoli ho vagato, imparando le lingue degli uomini, i loro desideri, le loro paure. Ah, le loro paure! Così facili da manipolare. Li osservavo nascosta tra le ombre, affinando la mia capacità di mutare forma. Un mercante facoltoso qui, un danzatrice là, ogni maschera che indossavo era un passo più vicino al cuore del potere. Perché era quello che bramavo, più dell’aria, più del sangue caldo delle mie prede. Il potere di plasmare il mondo, di vedere gli imperi tremare al mio passaggio. 

    E poi arrivai in queste isole. Il Giappone, o terra di Yamato. Un gioiello grezzo, pronto per essere incastonato nella mia corona. Scelsi la corte dell’Imperatore Toba. Un uomo…uno come tanti, debole di fronte alla bellezza, affamato di lusinghe. Mi presentai come Tamamo no Mae, un gioiello luminoso. E risplendevo, eccome se risplendevo! La mia pelle era più liscia della seta più pregiata, i miei capelli più neri dell’ala di un corvo, i miei occhi promettevano paradisi e inferni con un solo sguardo.

    La corte cadde a miei piedi. L’Imperatore…ah, l’Imperatore era mio. Ogni sua parola, ogni suo respiro era per me. Lo avvolsi nelle mie spire, sussurrandogli sogni di grandezza che erano, invero, i miei. Il suo corpo si consumava, la sua forza vitale fluiva in me, alimentando il mio potere, avvicinandomi sempre di più al trono. Credevo di averli ingannati tutti, quegli sciocchi pomposi e le loro dame ingioiellate. 

    Ma c’era lui, Abe no Yasuchika. Un Astrologo, un onmyōji con occhi che vedevano oltre il velo. Sentivo il suo sguardo su di me, inquisitore, freddo. Ha iniziato a tessere la sua tela, a bisbigliare sospetti. La malattia dell’imperatore, diceva, non era naturale. E poi, il rituale. Le preghiere che mi colpivano come lame. La maschera umana si sgretola, rivelando la mia magnifica, terrificante verità: la volpe a nove code, uno spirito antico, un terribile yōkai.

    Fuggii. La paura negli occhi dei cortigiani era una vista deliziosa, ma la caccia era iniziata. Kazusa, Miura…nomi che rimarranno per l’eternità. Mi braccarono come una bestia qualunque. Io, che avevo tenuto un impero nel palmo della mia mano! La battaglia fu epica, qui in queste pianure di Nasu. La mia magia contro le loro armi consacrate. Erano forti e la loro fede li rendeva molto forti. Riuscì a far perdere le mie tracce, ma qualche giorno dopo mi trovarono. E poi, le frecce. Queste frecce.

    Il mio corpo si contorce, si trasforma un’ultima volta. Non in cenere, no. In pietra. La chiamate sesshō-seki, la pietra assassina. Il mio odio, la mia malvagità, la mia essenza immortale fuse nella roccia, emanando un miasma letale per chiunque osasse avvicinarsi. Per secoli sono rimasta lì, in prigione. Ho sentito i sussurri dei viaggiatori, le leggende crescono intorno al mio nome. Tamamo no Mae, uno dei tre yōkai più terribili del Giappone. Si, temetemi! pensavo.

    Il tempo scorreva come un fiume lento, ma il mio spirito non dormiva. Ascoltavo. Il mondo cambiava, le dinastie cadevano, nuove paure nascevano. Sentivo la pietra erodersi, il vento sferzarla, il gelo incrinare la sua superficie. E poi, un giorno, un suono diverso. Non il lamento del vento, non il grido di un animale sfortunato. Un suono secco, definitivo. CRACK.

    La sesshō-seki si è spezzata.

    Un fremito percorre ciò che resta di me, un’energia antica che si risveglia. Le frecce…il dolore sta svanendo, sostituito da una fame primordiale. Una fame di vita, di potere, di…vendetta? No, la vendetta è un qualcosa che appartiene a voi mortali. Io bramo di più. 

    Sento i vostri discorsi, anche ora, nel mondo moderno. Parlano di spiriti maligni liberati, di presagi. Che ingenui. Non sanno cosa li aspetta. Il mio spirito, a lungo rinchiuso e compresso all’interno di questa pietra, ora si espande, libero da quella fredda prigione. Il mio spirito si libera. Il mondo ha dimenticato il vero significato della bellezza che cela l’inganno, della saggezza che nasconde il pericolo.

    Forse è tempo che Tamamo no Mae torni a insegnarlo agli uomini. Le frecce…non erano la fine ma solo un nuovo, eccitante inizio. E questa volta…questa volta, sarò più attenta a chi scruta oltre il velo. Il Giappone…il mondo…un palcoscenico più vasto. E io ho ancora fame.


    Il racconto in prima persona che ho scritto per questo post ci immerge direttamente nella leggenda di Tamamo no Mae, culminante nella sua trasformazione nella pietra assassina e nel presagio di un suo inquietante ritorno. Ma la sua storia, così come ci è stata tramandata, affonda le sue radici in una tradizione narrativa ben più antica, gli otogizōshi – racconti popolari di periodo Muromachi (1363-1573) – e in altre forme successive di teatro Nō, bunraku e kabuki. Anche se esistono varie versioni di questa storia (con protagonisti diversi), gli otogizōshi hanno arricchito la narrazione cristallizzando l’immagine di Tamamo no Mae come “Nihon Sandai Aku Yōkai” – I tre terribili Yōkai del Giappone-.

    Le kitsune, le volpi, figure centrali nel folklore giapponese, incarnano una profonda dualità: sono venerate come messaggere della divinità Inari, apportatrici di prosperità e fortuna, ma allo stesso tempo temute per la loro astuzia e la capacità di ingannare. La loro abilità di trasformarsi, in particolare in donne affascinanti, o di possedere gli esseri umani, le rende simboli della fluidità tra il mondo animale e quello spirituale. Più code possiede una kitsune, maggiore è la sua potenza, fino alla volpe a nove code (kyūbi no kitsune), un’entità quasi divina e immensamente potente. Questa ambivalenza riflette la complessità della natura e delle forze invisibili che permeano la cultura giapponese, dove il sacro e il profano spesso si sovrappongono. 

    La superstizione della sesshō-seki, la pietra assassina, esemplifica questa fusione di mito e realtà. Si crede che questa roccia contenesse lo spirito maligno di Tamamo no Mae, la volpe protagonista del mio racconto. La sua rottura, nel marzo del 2022, e stata interpretata da molti non come un semplice evento geologico, ma come un presagio del ritorno dello spirito della volpe, a dimostrazione di come queste antiche credenze continuano spesso a influenzare la percezione della realtà e suscitare timore e meraviglia nelle societa contemporanea.

  • Io, William Adams

    Io, William Adams

    Ascoltate, e vi racconterò una storia a cui pochi pochi in Europa potrebbero credere. Una storia di mari in burrasca, di terre sconosciute e di un destino che mi ha trasformato da semplice marinaio inglese a samurai al servizio del più potente sovrano del Giappone. Il mio nome è William Adams. Ma qui, in questa terra remota, mi conoscono come Miura Anjin (三浦按針).

    Era l’anno del signore 1598 quando salpammo dall’Olanda. Non eravamo inglesi, non del tutto almeno. Ero pilota di una nave facente parte di un flotta finanziata da mercanti olandesi, uomini ambiziosi con un sogno audace: trovare una nuova rotta per il Giappone, una terra leggendaria di cui si favoleggiava da tempo, e di spezzare il monopolio che, portoghesi e spagnoli detenevano con artigli ferrei sul commercio con l’Oriente. Eravamo cinque navi, piene di speranza e uomini robusti. Poco più di un centinaio, se ben ricordo, a bordo della mia nave, la De Liefde, “L’amore”. Un nome ironico, a pensarci ora, vista la sofferenza che ci attendeva.

    Foto dell’autore. Modello della Lifdie conservato presso il muse dell’avamposto commmerciale di Hirado

    Il viaggio fu un inferno. Due anni. Due lunghi, estenuanti anni attraverso due oceani. Le tempeste sembravano voler inghiottirci ad ogni onda. Le malattie si propagavano tra i ponti come un fuoco invisibile, mietendo vite con una ferocia che i cannoni non potevano affrontare. E poi, la fame. Ricordo le facce scavate, gli sguardi vitrei, le ossa che spuntavano sotto la pelle. Una dopo l’altra, le nostre navi sorelle scomparvero, inghiottite dal mare o perse chissà dove. A bordo della De Liefde, delle oltre cento anime che erano partite, ne rimanevano appena una ventina, scheletri animati dalla pura ostinazione di sopravvivere. Il capitano…. il povero capitano non ce l’aveva fatta. Ero io, il pilota, l’uomo con la bussola e le carte nautiche (o almeno quello che ne restava), a tenere la rotta.

    Foto dell’autore scattata presso l’avamposto olandese di Hirado. La mappe riporta il viaggio della De Liefde

    Poi, finalmente, era l’aprile del 1600. Terra! Un grido debole ma pieno di disperazione e speranza risuonò tra noi. Una costa verdeggiante, diversa da qualsiasi cosa avessi mai visto. Ormeggiamo nella baia di Usuki, in un luogo che gli abitanti chiamavano Bungo. La nostra nave era una carcassa, l’equipaggio poco più che fantasmi. Per la gente del posto, l’arrivo della De Liefde fu una sorpresa. Non eravamo portoghesi, non spagnoli. La nostra nave aveva una forma strana ai loro occhi. Ci guardarono con stupore misto a paura e curiosità. La notizia del nostro arrivo corse veloce, come un lampo. 

    Il Giappone, scoprii presto, era un paese in fermento. Anni di guerre intestine, il periodo detto Sengoku, stavano volgendo al termine. Un uomo stava emergendo sopra tutti gli altri, un daimyō astuto e potente: Tokugawa Ieyasu. Stava stringendo le redini del potere, preparandosi a diventare shōgun e a forgiare una pace, anche se con la forza, che avrebbe cambiato per sempre il volto di questa nazione. E questo stesso Ieyasu, diffidente verso gli stranieri – specialmente nei confronti dei gesuiti portoghesi, che vedeva come pedine di potenza straniere – fu subito informato di quella nave “barbara” che era apparsa dal nulla.

    Il suo ordine fu rapido e diretto: la nave, il suo prezioso carico (cannoni, moschetti e altra merce che avevamo faticosamente conservato) e noi, i sopravvissuti, fummo posti sotto sequestro. Non fu,come capii poi, un atto di crudeltà, ma di pura cautela. In un paese percorso da intrighi e rivalità, non si poteva rischiare. Eravamo una variabile ignota, potenzialmente pericolosa agli occhi di Ieyasu.

    Fu allora che accadde l’impensabile. Tokugawa Ieyasu, incuriosito e sagace, volle vedere il pilota. Volle vedere me. Mi portarono al suo cospetto. Ricordo ancora quel momento, l’aria tesa, la sua figura imponente. Ero esausto, provato da due anni di stenti, ma il mio spirito non era spezzato. Attraverso l’aiuto di interpreti – e, ironia della sorte, il primo fu proprio un gesuita protoghese, un momento che sentii sulla mia pelle, carico di tensione e potenziale pericolo, dato il loro astio verso i protestanti come me – l’interrogatorio ebbe inizio. 

    Gli raccontai tutto. Del nostro lungo, terribile viaggio. Delle nazioni europee, delle loro guerre, della politica complessa che le legava e le divideva continuamente. E della religione. Spiegai la differenza tra la fede cattolica professata dai portoghesi e dagli spagnoli e la nostra, protestante. Vidi i suoi occhi acuti fissarmi mentre parlavo. Ieyasu non si fidava ciecamente dei gesuiti; capire le sfumature della cristianità, le divisioni al suo interno, era un’informazione che trovava di grande valore strategico.

    Ma ciò che lo colpì di più, ne sono certo, fu la mia conoscenza pratica. Conoscevo la navigazione, la matematica e l’astronomia. E, soprattutto, sapevo come si costruivano navi capaci di solcare i grandi oceani. Il Giappone aveva imbarcazioni eccellenti per la navigazione costiera, ma niente che potesse competere con i velieri europei. In me, Ieyasu vide non un semplice naufrago, ma una risorsa inestimabile. 

    Supplicai, implorai. Volevo tornare a casa. Volevo rivedere la mia Inghilterra, la mia famiglia. Chiesi di poter organizzare il nostro rientro, o almeno di riprendere il viaggio verso le Indie Orientali. Ma Ieyasu fu irremovibile. Ero troppo prezioso. Mi fu proibito di lasciare il Giappone. In cambio, mi fu offerta una nuova vita, una vita al suo servizio. 

    La De Liefde, la nostra vecchia e fedele compagna di viaggio, fu smantellata. I suoi cannoni, scoprii poi, furono usati nelle campagne militari di Ieyasu. Mentre la nave moriva, il suo pilota rinasce. William Adams cesso di esistere. Divenni Miura Anjin. “Anjin”, mi spiegarono, significava “pilota” in giapponese. “Miura” era il nome della penisola vicino a Edo dove Ieyasu mi concesse una tenuta. Non una capanna da servo, badate bene. Una tenuta con rendita e servitù. E qualcosa di ancora più incredibile: lo status di hatamoto, un samurai al servizio diretto dello shōgun. Mi fu concesso l’onore, il privilegio,di portare due spade. Io, un marinaio inglese, ero diventato il primo samurai occidentale. 

    La mia vita cambiò radicalmente. Da naufrago sull’orlo della morte, ero ora un consigliere fidato di Tokugawa Ieyasu, e in seguito di suo figlio Hidetada, che gli succedette come Shōgun. Il mio compito principale? Costruire navi. Supervisionai la costruzione delle prime navi giapponesi basate su modelli occidentali. Due in particolare, molto più grandi e robuste delle giunche che usavano comunemente. Non fu una rivoluzione immediata, ma fu un inizio. Gettammo le basi tecniche della cantieristica navale giapponese. 

    Ma il mio ruolo andava oltre i cantieri navali. Consigliavo Ieyasu su questioni di commercio e diplomazia con l’Occidente. Fui dondamentale nell’aiutare gli Olandesi ad aprire la loro stazione commerciale a Hirado nel 1609. E quando arrivò una nave dei miei connazionali, gli Inglesi, guidati da John Saris, nel 1613, fui io a fare da mediatore e interprete, aiutandoli ad aprire la loro stazione a Hirado. La mia presenza, la mia influenza, contribuirono a creare una fessura nel muro che portoghesi e spagnoli avevano eretto, aprendo il Giappone al commercio con le potenze protestanti del Nord Europa. Ero diventato un ponte tra due mondi così diversi.

    Foto dell’autore. Avamposto commerciale olandese di Hirado (Hirado-oranda shōkan, 平戸オランダ商館)

    Eppure, nonostante l’onore, la ricchezza, una nuova vita e una famiglia giapponese, il desiderio di tornare a casa no mi abbandonò mai. Continuai a chiedere il permesso di partire, anno dopo anno. Ma Ieyasu, che mi stimava enormemente e mi trattava con grande rispetto, non me lo concesse mai. Forse temeva di perdere le mie conoscenze uniche. Forse che potessi rivelare segreti strategici ai suoi rivali europei. Ero prezioso, sì, ma anche una sorta di prigioniero d’oro.

    William Adams morì a Hirado nel 1620. La sua vita…che storia incredibile. Da marinaio disperso a samurai. Da straniero sospetto a confidente dello Shōgun. L’arrivo della De Liefde, così tragico e casuale per il suo equipaggio, e il suo strano destino, non solo aprirono una via di comunicazione tra il Giappone e l’Europa del Nord, ma dimostrarono anche al perspicacia di Ieyasu nel saper sfruttare talenti stranieri per i suoi fini. Paradossalmente, forse, il contatto diretto di Ieyasu con William Adams e altri stranieri contribuì anche alla successiva decisione del Giappone di chiudersi quasi completamente al mondo, mantenendo però un piccolo, controllato contatto attraverso gli Olandesi – i compagni di viaggio di William – confinati nell’isola di Dejima, a Nagasaki.

    La figura di Anjin, il pilota divenuto samurai, resta un simbolo strano e potente. Un ricordo del primo, difficile, ma affascinante incontro tra l’Inghilterra, e quella terra il Giappone, straordinaria che, contro ogni previsione, era diventata la sua casa.

    Oggi, 16 maggio, si ricorda la scomparsa di William Adams e riviviamo la sua straordinaria vicenda. Per chi, come il sottoscritto, risiede a breve distanza – appena trenta minuti da Hirado, luogo che fu testimone degli ultimi anni di Anjin e della sua sepoltura – questa storia assume una risonanza ancor più vivida. La scoperta della sua incredibile esistenza risale per me a circa diciassette anni fa, durante la stesura della mia tesi di laurea specialistica in Lingue e Istituzioni Economico-Giuridiche dell’Asia, il cui fulcro era proprio il commercio marittimo tra Giappone ed Europa. Hirado, dunque, non è semplicemente una tappa geografica, ma un vero e proprio simbolo, un faro che ha illuminato i primi, complessi rapporti tra i nostri due mondi. Se mai vi trovaste a esplorare queste zone, una visita a questa città vi permetterà di toccare con mano l’eredità di quegli scambi e l’eco della storia di Miura Anjin, il samurai venuto dal mare.

  • Buruma blues: ricordi di una gioventù andata

    Buruma blues: ricordi di una gioventù andata

    A volte, durante una pausa dal lavoro, le conversazioni prendono pieghe inaspettate, transportandoci a volte indietro nel tempo. È quello che è successo l’altro giorno con il mio collega, che chiameremo affettuosamente “Kenji-san”. Parlando del più e del meno, siamo finiti a discutere delle “buruma” (ブルマー), i famosi pantaloncini da ginnastica giapponesi, e lui, che quel periodo l’ha vissuto in prima persona, si e lasciato andare a un fiume di ricordi e riflessioni. Ecco com’è andata la nostra chiacchierata….

    Io: senti Kenji, l’altro giorno mi è capitato di leggere un articolo su un blog giapponese sulle….”buruma”. Sai, quei pantaloncini da ginnastica che usavano le ragazza nelle scuole giapponesi durante le ore di educazione fisica fino agli inizi degli anni ‘90. Tu te le ricordi, vero? Hai vissuto quel periodo.

    Kenji-san: (sospira con un mezzo sorriso, guardando fuori dalla finestra del nostro ufficio come se stesse rivedendo una vecchia pellicola) “Ah le buruma! Altrochè se me le ricordo! Caspita, mi ha fatto fare un tuffo nel passato, eh! Erano quasi sempre di un colore blue navy, e fatte di quel nylon un po lucido…. e beh, diciamo che non erano il massimo della discrezione (ride, strofinando la testa), soprattutto verso la fine degli anni ‘90”

    Io: Immagino! L’articolo diceva che all’inizio erano più simili ai “bloomers” americani, più larghi, per poi diventare super aderenti.

    Kenji-san: “Si, esatto! Quelle che ricordo io, quelle della mia adolescenza, erano decisamente…..aderenti, e le chiamavamo “pittari buruma” (Ridacchia) Non fraintendermi, eh! Per noi ragazzini di quel periodo, l’ora di educazione fisica era…. interessante, mettiamola così! C’era una ragazza nella mia classe, Suzuki-chan (nome di fantasia). Avevo una cotta colossale per lei, e quelle buruma blu scuro, che con il sudore del caldo estivo, diventavano quasi trasparenti erano parte dell’immaginario, che ti devo dire? Tempi andati, eh!”

    Io: Eh sì, l’articolo parlava proprio di questa “immagine” iconica! Ma poi negli anni ‘90 sono scomparse quasi da un giorno all’altro. Come mai questo cambiamento repentino?

    Kenji-san: “Eh, bella domanda. Un po’ come quando una moda finisce di colpo. Ma lì c’era di più. Ricordo che l’atmosfera iniziò a cambiare. Quei pantaloncini erano diventati….come dire….un po troppo osservati. Non solo dai compagni di scuola, un po ‘imbranati, capisci? Manga, riviste, persino la gente che faceva le foto di nascosto….Una brutta piega. Le ragazze stesse, si sentivano a disagio, si vedeva.”

    Io: si lo so, la sessualizzazione delle buruma era un punto cruciale.

    Kenji-san: “Esatto. E poi, le scuole iniziarono a introdurre l’educazione fisica mista, ragazzi e ragazze insieme. A quel punto, era piu logico e anche piu rispettoso usare divise unisex, quei pantaloncini piu lunghi e larghi che gli studenti usano ancora oggi, no? E diciamocelo, erano anche più comodi e pratici per fare sport, anche per le ragazze. Niente più quel nylon che si appiccica addosso. 

    Io: e le studentesse stesse iniziarono a protestare, a chiedere un abbigliamento più consono?

    Kenji-san: “Assolutamente! E hanno fatto bene! Ripensandoci oggi da persona adulta e padre, dico: meno male che non si usano più. Però quel filo di nostalgia per la mia gioventù e la cotta per Suzuki-chan e le “buruma” resta. È un ricordo dolce e amaro nello stesso tempo, come una vecchia canzone che quando la senti di fa sempre sorridere. Ma la verità è che quel cambiamento è stato un passo avanti enorme. Per il rispetto delle ragazze e per un ambiente scolastico più sano. Sono contento che sia finito quel teatrino.“

    Io: quindi nonostante un pizzico di malinconia per i tempi andati….

    Kenji-san: “Oh, la malinconia c’e sempre fa parte del gioco del ricordare! Ma no, no, è stato un bene, un gran bene. Oggi le “buruma” sono ancora in uso in certi sport, ma ormai sono rilegate a certi genere di manga o anime, sono un po’ un feticcio di un’epoca, che per fortuna, è tramontata. Pensandoci, è strano come un semplice indumento possa raccontare così tanto su come una società cambia no? Di come cerca di evolvere nella sua sensibilità.”

    Io: già incredibile, Grazie Kenji, è stato interessante sentire il tuo racconto.

    Kenji-san: “Ma figurati” Ogni tanto fa bene ricordare….e anche riflettere su quanto siamo e come siamo cambiati. Ora però torniamo al lavoro, che sennò chi lo sente il capo!”

    Per la cronaca la cotta di Kenji per Suzuki-chan non è mai passata. Si sono persi di vista dopo le scuole medie ma si sono ritrovati durante l’università. Tra loro è nato un bel rapporto e oggi sono felicemente sposati con due figlie bellissime.

    Un po ‘di contesto storico per quanto riguarda l’introduzione delle “buruma” in Giappone.

    Il termine “buruma” (ブルマー) e la traslitterazione giapponese del cognome di Amelia Jenks Bloomer, un attivista americana per i diritti della donne e promotrice di una riforma dell’abbigliamento femminile nella metà del XIX secolo. In un’epoca in cui le donne erano costrette, in rigidi corsetti e ingombranti gonne, la signora Bloomer propose un’alternativa considerata rivoluzionaria: un completo composto da una gonna al ginocchio, abbinata ad ampi e comodi pantaloni raccolti alle caviglie. Questo stile mirava a liberare il corpo femminile dalle costrizioni dell’abbigliamento tradizionale, garantendo una maggior libertà di movimento. 

    In Giappone, l’introduzione di un abbigliamento specifico per l’esercizio fisico femminile fu un processo lento e graduale, intrecciato con le più ampie trasformazioni sociali e culturali del paese. Fino al periodo Meiji (1912-1926), le donne che partecipavano ad attività fisiche, seppur limitate, lo facevano indossando il tradizionale kimono, spesso con le maniche legate (il tasuki-gake – たすき掛け) per facilitare i movimenti. Successivamente, con l’apertura all’occidente e l’introduzione dell’educazione fisica nelle scuole femminili, si diffuse l’uso dell’hakama per le studentesse, insieme a scarpe e acconciature più pratiche, rendendo l’attività fisica leggermente più agevole.

    L’idea dei “bloomers” americani iniziò a farsi conoscere in Giappone tramite riviste e racconti di viaggiatori o studenti di ritorno dall’estero. Tuttavia, la loro adozione non fu immediata. Fu solo nel tardo periodo Taishō (1912-1926) e all’inizio dello Shōwa (1926-1989) che si iniziò ad usare un abbigliamento più marcatamente occidentale. È nel periodo del secondo dopoguerra e la successiva ricostruzione che le “buruma” iniziano a diventare lo standard per l’educazione fisica nelle scuole giapponesi. Questo cambiamento fu favorito anche dallo sviluppo di nuovi materiali sintetici, durevoli e più facili da lavare rispetto ai tessuti naturali. Le “buruma” subirono poi una significativa evoluzione stilistica. Dalla forma piu ampia e a sbuffo, definite anche come  “chōchin buruma” – 提灯ブルマー – , “buruma a lanterna”, si passò gradualmente, soprattutto a partire dagli anni ‘60 e ‘70 a modelli più corti, succinti e aderenti conosciuti anche come “pittari buruma” – ピッタリブルマー – , letteralmente, “buruma attillate”. 

    Tōsatsu: le foto scattate di nascosto

    Quando il mio collega parla delle persone che facevano le foto di nascosto alle ragazze delle scuole che indossavano le buruma durante l’ora di educazione fisica fa riferimento al tōsatsu o meiwaku-satsuei, ovvero l’atto di fotografare una persona, di nascosto, senza il suo consenso che continua a rappresentare un problema ancora oggi in Giappone.

    Nonostante gli sforzi fatti per contrastare questo fenomeno, incluse leggi e campagne di sensibilizzazione (come l’obbligo del suono di scatto non disattivabile sui telefoni venduti in Giappone), le segnalazioni di questi atti illeciti sono ancora frequenti.

    L’educazione fisica nelle scuole

    In passato era comune avere classi separate o programmi di educazione fisica differenziati per ragazzi e ragazze. In seguito con la revisione delle linee guida ministeriali dei primi anni ‘90, si iniziò a promuovere un’educazione secondaria sempre più mista e con contenuti didattici identici per ragazze e ragazzi. Con l’introduzione di un’educazione fisica mista, divenne logico e pratico adottare un abbigliamento unisex. I pantaloncini corti a metà coscia, già in uso tra i ragazzi, divennero rapidamente lo standard anche per le ragazze. 

    In conclusione, la storia delle “buruma” è molto più di un semplice cronaca di moda scolastica o di un indumento diventato feticcio. Può essere vista come una lente affascinante attraverso cui osservare i profondi mutamenti della società giapponese durante il suo tumultuoso periodo moderno. Dal lento e selettivo abbraccio della modernità e delle influenze occidentali, all’evoluzione del ruolo della donna e della sua percezione, passando per i cambiamenti nel sistema educativo, e anche se la strada è ancora lunga e in salita, anche verso una maggiore uguaglianza di genere.

    Nate, ironicamente, da un’idea di liberazione del corpo femminile, le “buruma” hanno attraversato un percorso complesso e contraddittorio una volta sbarcate sul suolo nipponico. Si sono evolute fino a diventare per decenni un simbolo quasi immutabile dell’abbigliamento scolastico femminile, per poi essere rapidamente abbandonate in un’epoca in cui le donne stesse, e la società nel suo complesso, hanno rivendicato il diritto ad un abbigliamento più rispettoso e libero da connotazioni sessuali indesiderate. La loro scomparsa è un piccolo ma significativo indicatore di un Giappone che è cambiato, e continua a cambiare, nella sua percezione di genere e uguaglianza.

  • Dai fiumi alle sedute hi-tech: un esilarante storia del wc giapponese

    Dai fiumi alle sedute hi-tech: un esilarante storia del wc giapponese

    Ah, il water giapponese. Per la maggior parte dei turisti che si recano qui in vacanza, è un universo di meraviglia, confusione e, ammettiamolo, un pizzico di timore reverenziale. Ti accomodi, la tavoletta è piacevolmente calda (pura beatitudine!), e ti ritrovi davanti a una plancia di comando che farebbe invidia allo Star Destroyers. Pulsanti per lavare, asciugare, oscillare….e che diamine combina quel tasto con la nota musicale?! (Tranquilli, ci arriviamo!)

    Ma mentre ci spelliamo le dita delle mani per queste meraviglie hi-tech, sapevate che il percorso per arrivare fin qui è stato a dir poco rocambolesco? Dimenticate le noiose lezioni di storia: quella del wc giapponese e un’avventura costellata di invenzioni geniali, igiene talvolta discutibile e persino astuzie da campo di battaglia!

    Riavvolgiamo il nastro. Molto, molto tempo fa, nell’antico Giappone, le cose erano….beh, basilari. Del tipo: trova un cespuglio o un fiume e via, senza troppi problemi. Inventarono il “kawa-ya” (川屋), praticamente una semplice struttura di legno, a volte composta solamente da un asse, sospesa sopra un fiume. Smaltimento dei rifiuti eco-sostenibile, diremmo oggi? Speriamo solo che nessuno si lavasse più a valle. Durante il periodo Nara si diffuse la voce che in Cina i maiali venissero usati come – ehm – riciclatori organici, ma il Giappone, declino altezzosamente: “Nah, i maiali non fanno per noi”. Così, per un bel pezzo, se non c’era un fiume nelle vicinanze, si faceva dove capitava….e basta. 

    Balzo in avanti nell’elegante periodo Heian. Mentre i nobili se la spassavano con lussuosi gabinetti provvisti di scarico (che altro non era che un rigolo d’acqua deviato dal canale vicino per poi farvi ritorno), la plebe era ancora…all’aria aperta. Pare che Heian-kyō, l’allora capitale, emanasse un olezzo degno di un vespasiano durante la canicola estiva. E come ci si puliva all’epoca? Con una “kuso-bera”, letteralmente un “bastone per la pupù”. Avete capito bene, una semplice spatola di legno. Meditateci sopra un istante. Di colpo, quei mille pulsati enigmatici dei wc moderni non vi sembrano poi così male, vero?

    Poi, SBAM! Arriva il periodo Sengoku – il periodo degli stati combattenti! Uno penserebbe che l’igiene fosse l’ultima delle preoccupazioni. E invece no! È qui che la faccenda si rivela sorprendentemente sofisticata. Capirono che i rifiuti umani potevano essere un fertilizzante strepitoso – “oro marrone”, se preferite! Iniziarono a compostarli per eliminare i parassiti e migliorare i raccolti. Le latrine a fossa, le “potton benjo” (ポットン便所) presero piede, non solo per la loro comodità, ma per raccogliere quella preziosissima risorsa. I daimyō, astuti, arrivarono a costruire latrine con l’apertura verso l’esterno, per non farsi sorprendere…ehm… con le braghe calate! E sul campo di battaglia? I guerrieri indossavano i classici pantaloni hakama ma con uno spacco strategico all’altezza del cavallo, per rapide….manovre tattiche. La necessità aguzza l’ingegno, persino quando si tratta delle pause bagno mentre si è sotto assedio.

    Finalmente, giunge il “pacifico” periodo Edo. E con esso, udite udite, esplode la tecnologia dei sanitari! Pensate che lo shōgun in persona disponeva di un “goyōsho” (御用所), un “gabinetto d’onore”, talmente sfarzoso da includere un medico addetto al controllo quotidiano del “prodotto finale”, per monitorare lo stato di salute del signore. (E noi che ci lamentiamo delle visite mediche annuali!). In questo periodo iniziò a diffondersi tra la popolazione comune l’utilizzo della carta per le pulizie finali. Fecero la comparsa i primi bagni pubblici. E indovinate un po? Fiori un’interna industria di raccoglitori di feci i “mokkō-ya”! Questi professionisti, trasportavano i rifiuti dalle case di città alle fattorie, rendendo Edo sorprendentemente pulita. Si sono trovati scritti di visitatori stranieri di quel periodo che erano rimasti basiti dall’ordine e dalla pulizia della città, che in parte era dovuto ai mokkō-ya.

    Ora, torniamo a quel pulsante con la nota musicale sul washlet della vostra stanza di albergo nella moderna Tōkyō. Si, proprio quello che se premuto emette un suono di sciacquone o una musichetta discreta. Quella piccola funzione, che spesso viene chiamata “oto-hime” (音姫). Questo l’ho scoperto poco tempo fa mentre leggevo la scheda tecnica dei vari wc per la nostra nuova casa qui in Giappone. Nelle note all’interno del pamphlet di un noto produttore appariva questa spiegazione:

    “Per ovviare allo spreco d’acqua causato dalla pratica diffusa tra molte donne nei bagni pubblici di lasciare scorrere l’acqua per mascherare i suoni ed evitare imbarazzi, è stato sviluppato il dispositivo sonoro “Otohime“. Il nome, coniato dalla sviluppatrice del sistema, unisce “oto” (suono) a “Otohimesama“, che da “bella principessa” è passato a simboleggiare l’antica cultura della riservatezza giapponese”

    Questa funzione non è solo una semplice stramberia adottata da qualche avido produttore di wc ma affonda le radici in un profondo e tanto agognato desiderio di privacy e discrezione, forse quasi un eco modernissima di quei giorni lontani di epoca Heian tra le vie della maleodorante Heian-kyō, o dallo slancio trovato in periodo Edo verso la pulizia urbana e il rispetto altrui. Si tratta di minimizzare qualsiasi suono potenzialmente imbarazzante, garantendo che tutti si sentano a proprio agio.

    Dunque la prossima volta che troverete seduti sulla tiepida tavoletta di un wc in Giappone, mentra contemplate quale getto d’acqua selezionare, ripensate al mio racconto: da un fiume (quando andava bene) e un bastone, passando per i fortificati bagni dei samurai, fino ad approdare a un trono hi-tech degno di un moderno shōgun che diffonde musica. È una storia tutt’altro che di m….!

  • Sei meteoropatico? In Giappone abbiamo la soluzione per te!

    Sei meteoropatico? In Giappone abbiamo la soluzione per te!

    Okay, amici metereopatici, preparatevi a fare un viaggio qui nel paese del sol levante, dove la vostra battaglia contro il meteo non è solo compresa, ma è praticamente stata trasformata in scienza! Siete pronti a scoprire le tenki-tsū yohō – 天気通予報 -, ovvero le previsioni per chi soffre di meteoropatia?

    Vi è mai capitato di sentire quel simpatico martello pneumatico iniziare a lavorare nel vostro cranio giusto un attimo prima che il cielo decida di aprire le cateratte? O forse le vostre articolazioni iniziano a scricchiolare come una vecchia porta arrugginita non appena la temperatura scende di qualche grado? Bene, sappiate che non siete soli e, soprattutto, non siete pazzi. Qui in Giappone, questa connessione tra il meteo birichino e i nostri acciacchi fisici viene presa talmente sul serio che ci hanno costruito sopra studi, previsioni e probabilmente anche qualche altare votivo (ok, quest’ultima forse no, ma ci siamo capiti!).

    Questo fenomeno ha un nome che a molti potrà suonare come una mossa di karate: tenki-tsū! Traducibile come “dolore da tempo”, o per i più sofisticati, meteoropatia. Dovete sapere che è così radicato nella vita quotidiana che influenza persino le i servizi di previsione meteorologiche, le sopra citate tenki-tsū yohō

    Immaginate: “Oggi probabilità di pioggia al 70% e rischio di tenki-tsū livello – allarme rosso per il mal di testa!.

    Milioni di giapponesi, grazie a queste previsione, riescono a capire e gestire i loro malanni da meteo.

    Pronti a tuffarvi in questo affascinante mondo dove il vostro corpo fa a gara con il barometro?

    Ma cos’è esattamente questo tenki-tsū? E generalmente quello che viene definito come termine ombrello (appropriato non trovate?) che racchiude tutta una serie di dolori fisici o sbalzi di umore che si scatenano o peggiorano quando il tempo fa i capricci, specialmente quando la pressione atmosferica decide di fare su e giu come un yo-yo impazzito. Fa parte di una famiglia più ampia di disturbi, i kishōbyō – 気象病 – ovvero le “malattie meteorologiche”. Si, avete capito bene, malattie! Non ci potevo credere e ho controllato più volte (ho chiesto anche a mia moglie per sicurezza), la meteoropatia è considerata una malattia. Quindi la prossima volta che vi lamentate per il tempo, potete dire che soffrite di kishōbyō, così suona molto più importante.

    I sintomi del tenki-tsū sono molti e vari, un po come i gusti del KitKat che vendono qui in Giappone: mal di testa degli un’opera lirica, emicranie che vi fanno vedere le stelle, dolori articolari e muscolari che concentrano con sadica precisione su collo e spalle. E poi? Stanchezza che fa desiderare un sonno immediato, vertigini come se foste appena scesi da un giostra e sbalzi di umore tipici di un’adolescente. Ah, ovviamente, peggioramenti generali di condizioni fisiche preesistenti, perché altrimenti sarebbe troppo facile. Tranne le ultime due (tocchiamo ferro) ultimamente sto sperimentando il resto e parlando con mia moglie mia ha risposto dolcemente “è il tenki-tsū”, apre le previsioni e mi da bere un intruglio dei suoi dicendomi “cosi ti passa”.

    Ma perché il mio corpo odia le nuvole? La scienza alla base del tenki-tsū

    Mi sono chiesto perché mai il mio corpo dovesse odiare così tanto le variazioni climatiche e come avessero fatto i giapponesi a mettere a punto un sistema di monitoraggio della metereopatia. Cercando online ho scoperto che la colpa principale di questa ipersensibilità corporea alle bizze del meteo, e udite udite, è la fluttuazione della pressione atmosferica. E chi è il boss dei sensori corporei che rileva questi cambiamenti? Nientemeno che l’orecchio interno! Si, quella parte di voi responsabile dell’equilibrio, che a quanto pare funge anche da centralina meteo. 

    Quando il vostro orecchio interno percepisce un rapido calo (o, più raramente, un aumento) della pressione – tipo quando si avvicina un fronte di bassa pressione, una perturbazione o, peggio ancora, un tifone – entra in modalità panico. Inizia ad inviare segnali d’allarme al cervello che possono mandare in tilt l’equilibrio del sistema nervoso autonomo. Questo sistema, che e un po il pilota automatico del nostro corpo e gestisce le funzioni involontarie di due squadre, il sistema simpatico (quello che vi carica come una molla) e il parasimpatico (quello che sussurra “rilassati amico mio”), nelle persone sensibili al tenki-tsū va in tilt.

    Si pensa che un’eccessiva attivazione del sistema simpatico possa suonare la carica ai nervi del dolore, scatenando mal di testa o rinfocolando dolori cronici che pensavate di aver superato. D’altro canto, un’iperattività del sistema parasimpatico potrebbe manifestarsi con quella sensazione di “batterie scariche” e umore nero come il cielo prima di un tifone.

    Le stagioni della sofferenza: quando il tenki-tsū fa sul serio

    Sebbene il tenki-tsū possa fare la sua comparsa con qualsiasi cambiamento meteorologico degno di nota, ci sono periodi dell’anno in cui decide di dare il meglio (o il peggio) di sé. Le stagioni di transizione, come la primavera e l’autunno, con il loro balletto incessante di alta e bassa pressione, sono praticamente un invito a nozze per i sintomi.

    Poi c’è la famigerata stagione delle piogge, tsuyu, che in gran parte del Giappone cade tra giugno e luglio e tra ottobre e novembre, lo shūrin. Immaginate settimane di bassa pressione costante e umidità che vi fa sentire come se foste in una sauna perenne: un paradiso per il tenki-tsū” E come ciliegina sulla torta (dolorosa), la stagione dei tifoni, dall’estate all’autunno inoltrato, rappresenta il gran finale. L’avvicinamento di quei mostri di bassa pressione causa cali drastici delle pressione atmosferica che il vostro orecchio interno potrebbe addirittura presentarvi le dimissioni. E non dimentichiamoci degli sbalzi termici (frequenti in queste ultime due settimane) improvvisi, capaci anche loro di destabilizzare il vostro povero sistema nervoso autonomo, che a quel punto non sa più che pesci pigliare. 

    In Giappone abbiamo un’app anche per questo!

    La diffusa consapevolezza del tenki-tsū in Giappone ha portato a soluzioni ingegnose. Molti servizi meteorologici, siti web e app per smartphone non si limitano a dirvi se pioverà o ci sarà il sole. Oh no, vanno ben oltre! offrono previsioni dedicate al tenki-tsū. Non solo vi dicono i valori attuali o previsti della pressione, ma si concentrano sulle variazioni previste nelle ore o nei giorni successivi. Spesso usano icone super intuitive o codici colorati (tipo “rischio basso, dovresti cavartela con poco!”, “rischio medio, forse meglio prendere un ibuprofene!”, “rischio alto, barricati in casa e prega tutti i kami che conosci!”) per indicare la probabilità di sperimentare i sintomi in determinate fasce orarie.

    Praticamente un bollettino di guerra per il vostro benessere!

    In definitiva, il tenki-tsū è la prova che il tempo non influenza solo i nostri piani per il weekend, ma anche il nostro corpo e la nostra mente, a volte usando modi piuttosto prepotenti. In Giappone, questa consapevolezza ha trasformato una lamentela comune in un campo di studio e in un approccio proattivo. Hanno integrato previsioni specifiche e strategie di gestione nella vita quotidiana, offrendo un aiuto concreto a chi soffre di questi dolori causati dal meteo. Così, i giapponesi (e ora anche voi) possono affrontare i capricci del tempo con un po ‘più di preparazione e, si spera, con un po meno mal di testa. E se non altro, ora avete un termine giapponese super cool da sfoggiare la prossima volta che il cielo si annuvola il vostro corpo inizia a fare i capricci!

    Io invece inizio a fare offerte ai kami perché domani sarà una giornata di terribile!

  • A scuola in bici? In Giappone non è così semplice come sembra!

    A scuola in bici? In Giappone non è così semplice come sembra!

    Come genitore italiano che vive in Giappone, ogni giorno mi imbatto in piccole e grandi differenze culturali, soprattutto osservando i miei figli frequentare le scuole locali. Alcune affascinanti, altre un po’ spiazzanti. Una di quelle che non ti aspetti riguarda un gesto apparentemente banale come…andare a scuola in bicicletta.

    Forse noi in Italia diamo per scontato che se uno studente ha una bici e la scuola si trova a una distanza ragionevole, possa semplicemente inforcarla e partire. Beh, dimenticatevelo! Qui in Giappone, la faccenda è decisamente più…strutturata. Esiste infatti una prassi diffusissima, anche se non codificata in una legge nazionale unica, che regola il tragitto casa-scuola in bici (quello che in lingua giapponese e definito come jitensha tsūgaku) attraverso criteri ben precisi.

    Abiti vicino alla scuola? vai a piedi!

    La prima cosa che ha attirato la mia attenzione è la regola della distanza. In moltissime scuole medie e superiori giapponesi, puoi usare la bici per andare a scuola solo se abiti oltre una certa distanza minima, di solito fissata intorno a 1.5 o 2 chilometri. Avete capito bene: se la tua casa è troppo vicina alla scuola, niente bici, devi camminare. 🚶‍♂️🚶‍♀️

    Questa soglia non è uguale in tutto il paese, ma varia da istituto a istituto. Viene decisa dalle scuole a livello locale e rientra nella norme del tragitto casa scuola (quelle definite come sūgaku kitei – 通学規程), o, per essere più precisi, di quelle specifiche sull’uso della bicicletta (jitensha tsūgaku kitei – 自転車通学規程 ). Spesso, queste regole fanno parte del ben più ampio e temuto, da studenti e genitori, regolamento scolastico generale (kōsoku – 校則). 

    Forse è stato introdotto anche in Italian recente, questo non lo so non vivendoci, ma qui in Giappone quando iscrivi tuo figlio ad un ciclo scolastico (dall’asilo alle superiori) ti viene consegnato anche un documento, il “regolamento generale” che contiene tutte le norme e i comportamenti da rispettare all’interno di quel determinato istituto e che devono essere recepite non solo dagli studenti ma anche dai genitori stessi. Questo documento, è lo spauracchio, di studenti e genitori.

    Perché questa regola apparentemente controintuitiva?

    Parlando con mia moglie e mio suocero (professore in pensione), le ragioni ufficiali sono principalmente legate alla sicurezza: limitare il numero di bici nelle immediate vicinanze della scuola secondo le autorità scolastiche aiuterebbe a ridurre il caos e il rischio di incidenti negli orari di entrata e uscita degli studenti. Si dice anche che serva a incentivare l’attività fisica per chi vive vicino (anche se, onestamente, fatico ancora a capire la logica che sta alla base del vietare un mezzo allo stesso modo salutare per spingere i bambini a camminare…). Infine, c’è anche una questione più pratica: la gestione degli spazi, spesso limitati, per il parcheggio delle biciclette all’interno della scuola.

    Il perfezionismo giapponese applicato alla bici!

    Ma le sorprese non finiscono qui! Oltre alla distanza della propria abitazione dalla scuola, ottenere il “permesso per usare la bici” (si, avete capito bene, spesso serve un’autorizzazione formale!) significa anche sottostare a tutta un’altra serie di regole, anch’esse parte del regolamento generale, che a noi stranieri possono sembrare quasi maniacali per il livello di dettaglio. Ve ne riporto alcune che fanno parte del regolamento della scuola di mio figlio.

    • Il colore della bici: scordatevi bici di colori sgargianti o personalizzate. I colori comunementi ammessi sono il nero, il bianco o il grigio.
    • Equipaggiamento obbligatorio: sono normalmente richiesti il doppio cavalletto (non quello laterale!), portapacchi anteriore e posteriore. Il controllo della bici da parte dei genitori deve essere molto scrupoloso perché oltre alle norme previste dal codice della strada anche quelle della scuola devono essere controllate.
    • Manubrio: deve essere quello standard del produttore senza nessuna modifica.
    • Sicurezza: sono richiesti due lucchetti, e la bici deve essere equipaggiata per la pioggia, quindi parafanghi obbligatori. Il casco è tassativo e, spesso, viene indicato un modello specifico, uguale per tutti, acquistabile tramite la scuola o presso negozi convenzionati.
    • La “patente”: molte scuole (non tutte) organizzano addirittura corsi di guida sicura (anzen unten kōshūkai – 安全運転講習会) al termine dei quali rilasciano una sorte di “patente” agli studenti “abilitati” (riporto il termine del regolamento) all’uso della bici per andare a scuola.
    • Abbigliamento: normalmente si indossa l’uniforme scolastica. Mia moglie mi raccontava però che in alcune scuole femminili, per evitare incidenti o situazioni “sconvenienti”, e addirittura vietato andare in bici indossando la donna dell’uniforme, obbligando le studentesse a mettersi i pantaloni della tuta per il tragitto.

    Insomma, come avete capito, andare a scuola in bici qui in Giappone è parte di un sistema iper-regolamentato, dove la sicurezza collettiva e il rispetto, quasi maniacale, delle regole sembrano avere la priorità assoluta su tutto, anche sulla naturale praticità individuale. Da genitore, devo ammetterlo, a volte può sembrare tutto eccessivamente rigido e burocratico. Tuttavia, vivendo qui, capisco le ragioni legate alla sicurezza in un paese così densamente popolato e attento all’ordine. È una mentalità profondamente diversa dall’approccio molto piu “libero” a cui siamo abituati in Italia.



  • Festival della ceramica di Arita

    Festival della ceramica di Arita

    Anche quest’anno, approfittando delle vacanze della Golden Week, ho visitato con la mia famiglia la vicina città di Arita, a meno di 30 chilometri da casa. La nostra meta era il celebre Arita Tōkichi (有田陶器市), l’annuale festival della ceramica che anima la città proprio in questo periodo.

    Arita è un’affascinante cittadina situata nella prefettura di Saga, nel sud-ovest del Giappone. È un luogo intriso di storia, famoso in tutto il mondo per essere la culla della giapponese. 

    L’importanza storica di Arita è legata indissolubilmente alla porcella. Fu proprio qui che, all’inizio del XVII secolo, vennero introdotte direttamente dalla Corea le tecniche di lavorazione che diedero inizio a una tradizione artigianale secolare. Quest’arte si è evoluta nel tempo, producendo opere di straordinaria bellezza, tanto che vennero esportate in Europa dalla Compagnia Olandese delle Indie Orientali con in nome di “Imari-ware”, derivato dal vicino porto della città di Imari da dove salpavano le navi dirette in Europa.

    La reputazione di Arita si intreccia spesso con quella della vicina Hasami (波佐見), anch’essa rinomata in Giappone per le sue ceramiche. Tuttavia, il nome di Arita è tradizionalmente associato a porcellane artistiche e di alta gamma, Hasami si è distinta nel tempo per una produzione più orientata all’uso quotidiano e alla praticità.

    Ed è proprio durante la Golden Week che Arita ospita il suo famoso festival della ceramica. In questa occasione, la via principale della città si trasforma in un vivace mercato a cielo aperto. Centinaia di bancarelle e piccole botteghe espongono una gamma incredibilmente vasta di porcellane e ceramiche: dai pezzi d’arte unici agli oggetti di uso comune, molti dei quali offerti a prezzi scontati. È un’opportunità imperdibile per immergersi nella cultura della ceramica, apprezarne la storia e persino incontrare rinomati artigiani locali. 

    Una vita ad Arita non sarebbe completa senza una tappa al Tōzan Jinja (陶山神社). Questo santuario fu costruito intorno al 1600 per volere del governatore locale Sarayama, e originariamente chiamato “Arita Sarayama Sobyo Hachimangū”. Era dedicato al mitologico Imperatore Ōjin e a Nabeshima Naoshige, signore dell’omonimo clan che prese il controllo del dominio di Saga nel 1607. Si racconta che Naoshige abbia guidato i primi vasai coreani a Saga. Nel 1871, il santuario fu rinominato “Sueyama Jinja” (陶山神社), che significa letteralmente “santuario della montagna della ceramica”. Il nome attuale, Tōzan Jinja, deriva da una lettura alternativa del primo kanji del termine “Sueyama”. Il santuario onora anche Yi Sam-pyeong (noto in Giappone come Kanagae Sanbei) , considerato il padre della porcellana giapponese.

    Un elemento distintivo di questo santuario è il suo magnifico torii, realizzato interamente in pregiata ceramica di Arita. Questo non segna solo l’ingresso a un luogo sacro, ma rappresenta anche un tributo tangibile e duraturo all’arte della ceramica che definisce l’identità stessa della città.

  • La storia di Hirado e l’incontro tra Giappone ed Europa

    La storia di Hirado e l’incontro tra Giappone ed Europa

    Ieri, approfittando dello Shōwa no Hi – festività nazionale dedicata sia alla riflessione sul complesso periodo del regno dell’Imperatore Hirohito (1912-1989) sia al futuro del paese – ho deciso di trascorrere la giornata con la mia famiglia in un luogo carico di storia.

    Un viaggio nella storia: perché Hirado?

    Abbiamo scelto Hirado, un’isola-città nella prefettura di Nagasaki, a breve distanza dalla nostra abitazione: circa mezz’ora di macchina.

    Hirado: la prima finestra del Giappone sull’occidente

    Sebbene il nome Hirado possa risultare sconosciuto a molti, questo fu un luogo di cruciale importanza secoli addietro, rappresentando la prima, seppur cauta, apertura del Giappone verso il mondo occidentale. Oggi, camminare in questi luoghi non è una banale gita, ma un’opportunità straordinaria per percepire da vicino le origini di un incontro commerciale e culturale che ha plasmato in modo irrevocabile il destino del Giappone.

    L’avamposto commerciale olandese

    L’imponente edificio che ammiriamo (nella foto in basso) e una meticolosa e storicamente fedele ricostruzione dell’avamposto commerciale olandese di Hirado (Hirado-oranda shōkan, 平戸オランダ商館, in giapponese), oggi adibito a museo. Questa struttura è ben più di un semplice museo: è una vera e propria finestra spalancata sul vibrante passato di questa zona. Un passato che si lega indissolubilmente al primo periodo Edo (1603-1867), un’era definita non solo dal consolidamento del potere dello shogunato Tokugawa, ma anche da una iniziale e marcata curiosità verso le novità provenienti dall’occidente.

    Foto dell’autore dell’avamposto commerciale olandese di Hirado

    La compagnia olandese delle Indie Orientali sbarca in Giappone

    Tutto ebbe inizio nel 1609 quando la potentissima Compagnia Olandese delle Indie Orientali, uno dei più grandi conglomerati commerciali del tempo, desiderosa di espandere le sue rotte e di assicurare rifornimenti continui delle preziose merci asiatiche – spezie, seta e porcellane – chiese e ottenne un permesso speciale dallo shogunato che gli consenti di stabilire una base operativa stabile in Giappone. Hirado, grazie alla sua posizione strategica di crocevia sulle rotte marittime dell’Asia orientale, divenne naturalmente il fulcro di queste prime ma intense interazioni.

    Hirado: un dinamico crocevia di commerci e idee

    Tra il 1609 e il 1641, l’avamposto commerciale olandese di Hirado rappresento un dinamico crocevia, cruciale non solo per gli scambi commerciali olandesi, ma anche, e forse in misura maggiore, per la circolazione di idee, conoscenze scientifiche e tecnologiche. Questo fervore mercantile vedeva la pregiata seta e le porcellane giapponesi scambiate con zucchero, spezie e tessuti dalle indie, portando al contempo nella “terra di Yamato” innovative armi da fuoco, orologi meccanici e manufatti mai visti prima.

    I nanban-jin

    Fu in questo contesto che fecero la loro comparsa i nanban-jin (南蛮人), letteralmente “i barbari del sud”. Con questo termine si identificavano i mercanti che giungevano in Giappone dalle regioni meridionali come le Filippine o Macao. Inizialmente usato per indicare i portoghesi e spagnoli, il vocabolo fu ben presto esteso anche a olandesi e inglesi, i quali divennero presenze familiare a Hirado.

    Questi europei, riconoscibili per i loro strani abiti, portarono con sé non solo beni materiali, ma anche nuove usanze, avanzate tecniche di cartografia e navigazione, e importanti conoscenze in campo medico e astronomico. Introdussero inoltre la religione cristiana, un elemento di grande impatto che in futuro sarebbe stato causa di notevoli controversie e sofferenze.

    Questo intenso scambio culturale e scientifico gettò le basi per la nascita del rangaku (蘭学) – letteralmente “studi olandesi” – un termine che venne a definire le scienze occidentali. Questa apertura al sapere straniero sarebbe sopravvissuta e avrebbe continuato a svilupparsi anche durante il successivo periodo di completo isolamento del Giappone.

    Curiosità e D\diffidenza: la complessità dell’incontro

    L’incontro culturale tra il Giappone del primo periodo Edo e l’Europa del tardo rinascimento e del Barocco fu un fenomeno complesso ma profondamente affascinante. Fu un’interazione intrisa di reciproca curiosità quanto di una crescente e latente diffidenza.

    Da un lato, l’élite giapponese, composta da samurai e mercanti, nutriva un vivo interesse per le nuove tecnologie occidentali. Le armi da fuoco (teppō), in particolare, impiegate da figura come Oda Nobunaga e Tokugawa Ieyasu nella battaglia di Nagashino, contro Takeda Katsuyori, rivoluzionarono non solo il modo di combattere, ma probabilmente influenzarono in modo determinante il corso storico del paese. I mercanti, dal canto loro, mostravano interesse per la cartografia, gli strumenti scientifici e le tecniche artistiche europee.

    Tuttavia, parallelamente a questa apertura, cresceva una netta diffidenza verso gli usi e costumi dei “nanban-jin”, esacerbata in particolare dalla rapida conversione di parte della popolazione giapponese al cristianesimo. Già oggetto di severa repressione sotto il governo Tokugawa, la fede cristiana era vista dallo shogunato come un potenziale sovvertimento dell’ordine gerarchico e un rischio per la stabilità politica. Vi era il forte sospetto che essa potesse prefigurare un tentativo di colonizzazione del Giappone, sulla falsariga di quanto già avvenuto nelle Filippine.

    Anche gli inglesi tentarono di inserirsi nel florido commercio con il Giappone, riuscendo a stabilire una base a Hirado nel 1613. Tale successo fu in larga parte dovuto all’intercessione di Williams Adama, noto in Giappone come Miura Anjin, che aveva guadagnato la fiducia di Tokugawa Ieyasu come suo consigliere.

    Tuttavia, l’avventura commerciale britannica in terra nipponica si rivelò di brevissima durata. Furono sopraffatti dalla spietata concorrenza olandese, che dimostrava un approccio decisamente più pragmatico: concentrati esclusivamente sul profitto commerciale, gli olandesi non si facevano scrupoli a impedire ai propri religiosi qualsiasi attività di proselitismo.

    A questo svantaggio competitivo si sommo una minore sensibilità da parte inglese nel comprendere e gestire le complesse dinamiche sociali giapponesi. Di conseguenza, decisero di chiudere la propria stazione commerciale e ritirarsi dal paese nel 1623.

    Verso il sakoku: l’editto del 1639 e la chiusura del paese

    La crescente cautela dello shogunato Tokugawa verso qualsiasi forma di influenza straniera non controllata, intensificata dalla rivolta di Shimabara (1637-1638), condusse a una drastica accelerazione delle politiche isolazioniste. Queste culminarono nell’editto del 1639, che decretò non solo l’espulsione di tutti i portoghesi, ma anche la distruzione degli edifici in pietra dell’avamposto commerciale olandese di Hirado. Tali strutture erano infatti percepite come un simbolo eccessivo e permanente della presenza straniera. Fu un segnale inequivocabile della ferrea politica nota come sakoku (鎖国), letteralmente “paese incatenato”, che il Giappone stava per abbracciare completamente, chiudendo ogni contatto con l’esterno.

    Da Hirado a Dejima: l’unica finestra sull’occidente

    Successivamente, nel 1641, agli olandesi fu ordinato di trasferire tutte le loro attività commerciali nella minuscola isola artificiale di Dejima (出島), costruita all’interno della baia di Nagasaki. Questo trasferimento segnò la fine dell’epoca di Hirado come principale porta di accesso del Giappone al mondo occidentale e l’inizio di oltre due secoli durante i quali Dejima sarebbe rimasta l’unica, strettissima e controllatissima finestra socchiusa sull’occidente.

    Foto dell’autore. Targa votiva che ricorda la storia degli olandesi presso Hirado e Dejima esposta all’esterno dell’avamposto commericale.

    L’eredità di Hirado

    Nonostante la sua chiusura forzata e il successivo declino, l’avamposto commerciale olandese di Hirado non ha mai perso la sua importanza storica. Già nel 1922 fu inserito nella lista dei siti storici nazionali, a eterna testimonianza del suo ruolo cruciale nella storia del paese. L’edificio che oggi i visitatori hanno il privilegio di esplorare è una scrupolosa ricostruzione, inaugurata nel 2011 e basata su attenti studi storici e archeologici. Esso ospita ora un museo che offre un ponte di contatto tangibile con quel tempo lontano. Attraverso i suoi spazi e gli oggetti esposti, è possibile ripercorrere l’avvincente storia di questo intenso periodo e comprendere la complessità dell’incontro tra le culture giapponese e olandese.

    Si percepisce così l’eco potente di un capitolo fondamentale non solo per la storia del Giappone, ma anche per le relazioni globali tra oriente e occidente.

  • Hakkō ichiu: da mito fondatore a slogan di guerra

    Hakkō ichiu: da mito fondatore a slogan di guerra

    Immagina una frase antica, quasi dimenticata, che affonda le sue radici nel mito stesso della creazione del Giappone. Una frase che, nelle sua origine leggendaria, sembrava sussurrare un sogno di unità universale, di un mondo raccolto sotto un unico grande tetto. Questo rappresentava inizialmente hakkō ichiu (八紘一宇). Eppure, questa espressione, evocativa e quasi poetica, nel giro di pochi decenni si trasformò in qualcosa di molto più oscuro: divenne lo slogan principale che accompagnò l’espansione militare del Giappone imperiale, un grido di battaglia usato per giustificare la conquista e la guerra. Come è potuto accadere? Come può un concetto apparentemente volto all’unificazione trasformarsi in giustificazione per il dominio? Ripercorriamo insieme l’affascinante e terribile percorso di hakkō ichiu, da eco mitologico a strumento di propaganda bellica. 

    Significato

    Prima di addentrarci nella sua storia controversa, è utile scomporre questa espressione per capirne il significato letterale, che già ci da un indizio della sua portata ambiziosa. La prima parte, hakkō (八紘), combina il kanji di “hachi” (八), il numero otto – un numero che nella cosmologia dell’asia orientale spesso simboleggia la totalità o l’infinito – con “” (紘), che si riferisce a corde o fili, ma in senso figurato rappresenta le direzioni cardinali e intermedie (Nord, Sud, Est, Ovest, Nord-est e così via). Il termine “hakkō” diventa così una metafora per indicare “le otto direzioni” o “gli otto angoli del mondo”, rappresentando in pratica il mondo intero o l’ecumene conosciuto. 

    La seconda parte “ichi-u (一宇), unisce “ichi” (一), che significa semplicemente “uno”, con “u” (宇), che significa “tetto” o, per estensione, “casa”, “edificio” e persino “universo” in alcuni contesti. “Ichi-u” evoca quindi l’immagine suggestiva di “un solo tetto” o “una sola casa” implicando un ordine unificato e armonioso.

    Unendo questi elementi, hakkō ichiu si traduce letteralmente come “gli otto angoli del mondo sotto un unico tetto”. L’idea intrinseca è quella di unificare tutti i popoli del mondo come un’unica, grande famiglia, portando pace e ordine sotto un’unica struttura. Tuttavia, come la storia ci insegna, la questione cruciale ad un certo punto divenne: sotto quale tetto? E chi avrebbe definito le regole di questa “casa”? La risposta data dell’interpretazione successiva fu inequivocabilmente: quello giapponese, sotto la guida dell’Imperatore.

    Un’eco del mito

    Hakkō ichiu non è un’invenzione del XX secolo. Le sue origini ci portano indietro fino all’alba della storia giapponese, o almeno alla sua narrazione mitologica ufficiale. Si ritiene che derivi da una frase attribuita al leggendario primo Imperatore del Giappone, Jinmu – figura mitica considerata discendente diretta della dea del sole Amaterasu Ōmikami, la principale divinità dello shintoismo – riportata nel Nihon-shoki (日本書紀, “Annali de Giappone”), un’antica cronaca compilata nel VIII secolo d.C, compilata per legittimare la linea imperiale e consolidare un’identità nazionale. Secondo quanto riportato nel testo, dopo aver consolidato il suo potere nella regione di Yamato (considerata la culla della nazione giapponese), durante la sua ascensione al trono, l’Imperatore Jinmu pronunciò la seguente frase:

    掩八紘而爲宇

    Ame no shita wo ooute ie to nasan

    “Che io possa coprire le otto direzioni e farne la mia dimora”

    Fonte: Wikipedia

    Per secoli, questa frase rimase confinata negli annali storici, un riferimento noto agli studiosi ma privo di rilevanza politica nell’immediato. Fu solo all’inizio del XX secolo, nel 1903, che un influente pensatore della scuola buddista di Nichiren e fervente nazionalista, Tanaka Chigaku (田中智學), la riporto alla luce, coniandola nella forma moderna e coincisa hakkō ichiu. Tanaka, fondatore della Kokuchū-kai (国柱会), un’organizzazione che promuoveva un nazionalismo basato su un’ambigua interpretazione degli insegnamenti di Nichiren, vide in questa antica dichiarazione l’espressione della missione divina del Giappone (国体, l’essenza nazionale incentrata sull’Imperatore): guidare il mondo verso l’armonia e la pace universale, unificando sotto l’egida benevola dell’Imperatore, discendente degli dei e incarnazione vivente della nazione. Forse nelle intenzioni iniziali di Tanaka, c’era un barlume di idealismo, un sogno di una fratellanza universale – seppur dannatamente gerarchico, nippo-centrico – e basato sulla presunta superiorità spirituale e morale del Giappone imperiale. La sua visione, seppur presentata come pacifica, conteneva già i semi di una supremazia giapponese destinata a realizzarsi, se necessario, anche con la forza.

    Quando un ideale diventa slogan di guerra

    Ma come accade spesso con concetti tanto potenti quanto ambigui, anche hakkō ichiu venne presto strappata dal suo contesto filosofico-religioso e gettata nell’arena politica infuocata degli anni ‘30, un decennio segnato dalla grande depressione, dall’instabilità politica interna (il tentato colpo di stato passato alla storia come “l’incidente del 26 Febbraio 1936”), e soprattutto dall’ascesa del militarismo e di un nazionalismo aggressivo ed espansionista. L’economia giapponese necessitava disperatamente di risorse naturali (gas, gomma e metalli) e di mercati sicuri per sostenere la sua industrializzazione e la sua crescente popolazione, e l’ideologia dominante esaltava la presunta superiorità razziale e spirituale del popolo giapponese (la cosiddetta “razza Yamato”).

    In questo clima surriscaldato, i leader militari (in particolare le fazioni più radicali dell’esercito e della marina) e i politici ultranazionalisti videro in questo slogan uno strumento perfetto per diverse ragioni tra loro interconnesse. Innanzitutto, il suo legame con il passato mitico e divino dell’Imperatore Jinmu conferiva alle ambizioni espansionistiche moderne un’aura sacra, fornendo loro una sorta di legittimità storica e spirituale quasi inattaccabile nel quadro ideologico definito del kokka shintō (国家神道), ovvero “lo shintoismo di stato”. 

    In secondo luogo, forniva una giustificazione, a loro detta “nobilitante” e persino “altruistica”: trasformava la brutale realtà della conquista territoriale, dello sfruttamento economico e dell’imposizione politica in una presunta “missione civilizzatrice” per “liberare” il continente asiatico dal colonialismo occidentale e unificarla sotto la guida paterna dell’Imperatore Shōwa, mascherando così l’imperialismo giapponese come un atto volto a portare “ordine”, “armonia” e “prosperità” condivisa. 

    Infine, hakkō ichiu, fungeva come un potente collante interno, uno slogan capace di mobilitare la popolazione, compattare le diverse fazioni nazionaliste e giustificare gli immani sacrifici richiesti dalla guerra totale, sia sul fronte militare che su quello interno. 

    Il punto di non ritorno fu raggiunto nel luglio del 1940. L’allora Primo Ministro, il principe Fumimaro Konoe, in un famoso discorso radiofonico che delineava la “Politica Nazionale Fondamentale” (Kihon Kokusaku Yōkō, 基本国策要綱), dichiaro che la politica nazionale mirava a stabilire un “Nuovo Ordine in Asia Orientale” – che si sarebbe in seguito evoluto nel concetto di “Sfera di Co-prosperità della Grande Asia Orientale” –  basandosi proprio su hakkō ichiu. Da concetto filosofico-religioso riportato in auge da un pensatore nazionalista, era diventato ufficialmente politica di stato e la principale giustificazione ideologica per l’imminente espansione verso il sud-est e asitico e l’area del Pacifico.

    Un esempio tangibile dell’adozione di questo slogan fu la costruzione nel 1940 di una torre dedicata – poi ribattezzata “la torre della pace” – presso la città di Miyazaki, luogo legato al mito della discesa di Niniji no Mikoto (il nonno di Jinmu). La torre, alta 37 metri e dedicata a Jinmu e allo spirito di hakkō ichiu, fu costruita utilizzando pietre provenienti da tutti i territori occupati dai giapponesi, simboleggiano l’unificazione del mondo sotto il Giappone.

    Fonte: Wikipedia. Cerimonia di inaugurazion della torre presso Miyazaki

    La realtà brutale dietro lo slogan

    Dietro la retorica di “unire il mondo sotto un unico tetto” per portare pace e prosperità, la realtà pratica di hakkō ichiu durante la Seconda Guerra Mondiale fu devastante per milioni di persone nei territori occupati. In primo luogo, funzionò come copertura ideologica per l’aggressione militare: l’invasione della Manciuria prima e delle altre zone del Pacifico in seguito, venivano presentate all’opinione pubblica giapponese e internazionale come passi necessari per realizzare questa ipotetica grande unificazione e liberare i popoli asiatici dal giogo occidentale. Il Giappone si auto proclamava “liberatore” dal colonialismo europeo e statunitense, imponendo però a sua volta un dominio altrettanto, se non più, spietato e predatorio.

    Il progetto della “Sfera di Co-prosperità della Grande Asia Orientale”, che sulla carta prometteva collaborazione economica e politica tra le nazioni asiatiche indipendente sotto la guida illuminata del Giappone, si tradusse ovunque in una realtà ben diversa, caratterizzata da: un’occupazione militare brutale, sfruttamento sistematico delle risorse, imposizione culturale e linguistica, repressione di ogni forma di dissenso o resistenza senza dimenticare gli atroci crimini di guerra. 

    Fonte: Wikipedia

    Parallelamente, una propaganda martellante faceva risuonare lo slogan hakkō ichiu in tutto il Giappone – nelle scuole (dove era entrato a far parte dell’educazione morale), sui giornali, alla radio, nei film, nei discorsi pubblici e sui manifesti affissi nelle città. L’obiettivo era chiaramente infiammare il nazionalismo, innalzare lo spirito di sacrificio, convincere il popolo giapponese della correttezza divina della propria causa spingendolo a sopportare privazioni e sacrifici immani in nome dell’Imperatore e della presunta “missione” nazionale di unificare il mondo. Questa propaganda funzionò efficacemente, almeno sul fronte interno per gran parte delle durata del conflitto, perché faceva proprio leva su sentimenti profondi e radicati come l’orgoglio nazionale, una venerazione quasi religiosa della figura dell’Imperatore considerato divino (riprendendo il termine “arahito-gami” , 現人神, usato nel Nihon-shoki), il senso di un destino unico e superiore per il Giappone, e la convinzione, alimentata ad arte, di agire per un bene superiore universale, mascherando in questo modo le più terrene e brutali motivazioni di potere, controllo e espansione territoriale. La percezione al di fuori del Giappone, specialmente nei territori occupati e tra le potenze alleate, era invece nettamente diversa: lo slogan hakkō ichiu era visto come il velo ideologico che copriva la brama imperialista giapponese.

    Fonte: Wikipedia. Moneta da 10 sen con impressa la torre di hakkō ichiu

    Un’eredità scomoda

    Con la resa incondizionata del Giappone nell’agosto del 1945, le forze di occupazione guidate dal Generale MacArthur, identificarono subito lo slogan hakkō ichiu come una dei pilastri ideologici chiave che avevano sostenuto e alimentato il militarismo e l’ultranazionalismo. Di conseguenza, attraverso direttive specifiche volte a smantellare lo shintoismo di stato, promuovere la libertà di pensiero e religione eliminando l’ideologia militarista dall’educazione e dalla vita pubblica, l’uso di hakkō ichiu e di altri slogan fu fortemente scoraggiato e di fatto eliminato dalla sfera pubblica. Non fu tecnicamente bandito con una legge specifica, ma la sua intrinseca tossicità divenne tale che cadde in disuso rapidamente.

    Oggi rimane uno slogan principalmente legato al contesto storico del periodo bellico. Un chiaro esempio di come un’ideologia nazionalista ed espansionista possa essere costruita, manipolata attraverso la propaganda e utilizzata per giustificare qualsiasi voglia aggressione. Ogni sua evocazione, al di fuori di un contesto puramente storico, è rara e controversa, vista la pesante eredità che porta con sé. La stessa torre costruita a Miyazaki ha visto rimosse le iscrizioni originali facenti diretto riferimento allo slogan, nel tentativo di dissociare il monumento dal passato militarista. 

    L’evoluzione di hakkō ichiu rimane secondo me un monito potente, rilevante non solo per il Giappone ma per il mondo intero. Dimostra come un concetto dalle radici antiche, possa essere distorto e trasformato in un’arma ideologica a giustificazione dell’imperialismo più feroce e delle indicibili sofferenze inflitte a milioni di persone. Comprendere il viaggio di hakkō ichiu – da mito fondatore legato all’idea di un ordine cosmico a slogan di guerra usato per mascherare la brutalità della conquista – non solo ci aiuta a capire meglio le tragiche e complesse dinamiche del Giappone del periodo bellico, ma ci ricorda anche una necessità universale di rimanere vigili a qualsiasi ideologia che promette unità e liberazione attraverso la dominazione. 

    La seduzione di molti slogan può essere potente, ma la storia ci insegna a esaminare sempre le implicazioni reali e le possibili conseguenze umane.

  • Kaizan-sai: il rito shintoista che che apre la stagione alpinistica in Giappone

    Kaizan-sai: il rito shintoista che che apre la stagione alpinistica in Giappone

    Prendendo spunto da un recente articolo pubblicato su un quotidiano on-line giapponese riguardo l’apertura della stagione escursionistica sul monte Nantai a Nikkō, mi è sembrato interessante approfondire un aspetto centrale di questo evento per chi non lo conoscesse: il rito shintoista noto come kaizan-sai (開山祭).

    Il kaizan-sai, traducibile letteralmente come “festa dell’apertura della montagna”, è una cerimonia tradizionale shintoista che segna l’inizio ufficiale della stagione in cui è consentito o considerato sicuro scalare e compiere escursioni in una determinata montagna in Giappone. Non è solo una data pratica fissata sul calendario per gli escursionisti, ma un rito profondamente radicato nella cultura e nella spiritualità giapponese.

    Le origini di questo rituale affondano le radici nell’antico culto della montagna, che considera le catene montuose come le dimore dei kami, vere e proprie porte verso il mondo spirituale. Questa credenza si è intrecciata nel corso del tempo con elementi appartenenti al buddismo esoterico, dando vita a pratiche ascetiche come lo shugendō. Aprire una montagna al passaggio delle persone non rappresentava un atto banale, ma richiedeva l’esecuzione di precisi riti di purificazione dei sentieri. Era un modo per chiedere il permesso al kami di una determinata montagna implorando la sua protezione per coloro che si sarebbero dovuti avventurare lungo i suoi pendii. In passato questi riti miravano a garantire la sicurezza di coloro che si spostavano, per necessità, da una regione ad un’altra del paese.

    Oggi il kaizan-sai mantiene la sua importanza come un’importante tradizione culturale e un appuntamento annuale per gli amanti della montagna. Le cerimonie, tenute presso i santuari alla base o suoi fianchi della montagna, vedono la partecipazione di sacerdoti shintoisti, autorità locali, associazioni di alpinismo e gente comune che offrono preghiere per propiziare la sicurezza di tutti gli escursionisti durante la stagione alla porte.

    L’articolo pubblicato sul quotidiano on-line descriveva proprio una di questa cerimonie celebrata presso il monte Nantai, dove i sacerdoti del Nikkō Futarasan Jinja Chūgūshi (日光二荒山神社中宮祠) hanno simbolicamente rimosso il fermo del cancello d’ingresso al sentiero, dando il via alla stagione delle escursioni dopo la chiusura dovuta alla stagione invernale. Viene sottolineata l’importanza di essere adeguatamente equipaggiati, specialmente considerando la neve ancora presente in alta quota, dimostrando come la consepevolezza dei rischi naturali si fonda con il rito tradizionale.

    Foto: shimonutsuke-shinbun. Rimozione del sigillo della porta di ingresso al sentiero del monte Nantai

    Il kaizan-sai rappresenta un affascinante esempio di come antiche credenze, rispetto per la natura e la prevenzione si fondano in una cerimonia che segna un momento atteso da molti, ovvero l’opportunità di riconnettersi con la maestosità delle montagne.

    L’articolo riguardante la cerimonia tenutasi a Nikkō potete trovarlo sul sito del Tokyō Shinbun al seguente link:

    https://www.tokyo-np.co.jp/article/401172


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