Le conversazioni serali sull’arredamento e sulla tipologia di climatizzazione della nostra nuova cassa, un tema ricorrente tra me e mia moglie, ci hanno condotti, non si come, a una riflessione più profonda: quale sia la vera essere dell’estate in Giappone. Contrariamente alla percezione occidentale, dove l’estate sovente si traduce in lunghe interruzioni della routine e nella quiete delle vacanze, qui l’esperienza del periodo estivo è ben più stratificata e complessa. È un mosaico di sensazioni, riti e sinfonie naturali che affonda le proprie radici in un passato remoto e vibrante.
Per cogliere appieno l’anima dell’estate nipponica, è d’obbligo un’immersione nel tempo in lui la percezione dell’anno era dettata dal calendario lunare. L’estate, o natsu, non era una mera porzione dell’anno, bensì un intervallo cruciale, approssimativamente da maggio a luglio, di vitale importanza per la coltivazione del riso. L’avvento della pioggia, lo tsuyu, che inonda il paese tra giugno e luglio, non era percepito come un inconveniente, bensì come una benedizione celeste, linfa vitale per i campi e garanzia di un raccolto prospero. Questa profonda connessione con la terra, con la crescita rigogliosa e con la gratitudine verso la natura, è un filo ininterrotto che lega il passato al presente.
Nonostante il passaggio al calendario gregoriano abbia alterato la successione dei mesi, l’anima di questa stagione persiste. Oggi, l’estate è indissolubilmente legata a un calore spesso opprimente e a un’umidità pervasiva, sapientemente descritta dai giapponesi con il termine mushi-atsui. È la stagione del canto assordante e incessante delle cicale, che funge da colonna sonora onnipresente dall’alba al tramonto. Un periodo che mette a dura prova la nostra tempra fisica, tanto da aver generato un’espressione specifica, natsubate, per denotare la spossatezza e la fatica indotte dal rigore estivo.
Eppure, l’estate giapponese e anche l’attesa febbrile dei fuochi d’artificio, gli hanabi. Lungi dall’essere semplici esibizioni pirotecniche, le hanabi taikai sono sovente eventi grandiosi, vere e proprie competizioni tra maestri artigiani che dipingono il cielo notturno con creazioni effimere di una bellezza mozzafiato. Famiglie, amici, innamorati si radunano lungo le rive dei fiumi o sulle spiagge, stendono un telo e condividono cibi e bevande, con lo sguardo rivolto al cielo, in un silenzio quasi reverenziale, interrotto solo da esclamazioni di meraviglia.
Il palato estivo è plasmato dai dettami della stagione. Si prediligono spesso piatti rinfrescanti come i sōmen, sottili spaghetti di grano serviti freddi, o l’anguilla (unagi), che secondo la tradizione aiuta a rinvigorire il corpo e a combattere gli effetti del caldo. È il sapore dolce e succoso dell’anguria, spesso consumata in compagnia, magari partecipando al suikawari, un gioco in cui si tenta di rompere il cocomero con un bastone, bendati.
Vivere l’estate in Giappone significa dunque abbracciare i suoi intrinsechi contrasti. È sopportare un clima difficile, ma trovare immediato sollievo nella maestosità di un fuoco d’artificio che esplode nel cielo. È sentire il peso della fatica fisica ma riscoprire l’energia nella gioia contagiosa di un matsuri di quartiere. È un’esperienza che coinvolge tutti i sensi: il ronzio persistente delle cicale, l’aroma sacro dell’incenso durante l’obon, il sapore rinfrescante di un granita, la visione incantevole di una lanterna di carta che si illumina al crepuscolo. Non è una semplice pausa della vita quotidiana, bensì un periodo in cui la vita stessa si manifesta con un’intensità maggiore, legando indissolubilmente il presente a un passato che non cessa mai di permeare ogni istante.

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