Immagina di camminare per le strade ordinate di una città giapponese, dove ogni gesto sembra misurato. Poi un giorno, l’aria cambia. Si sente un’eco profonda, un rimbombo che non viene dagli altoparlanti di un negozio, ma dal cuore pulsante di un taiko. Le lanterne di carta rossa si accendono lunghe le vie rubando la scena alle insegne dei negozi, e l’ordine lascia spazio a un’energia vibrante e gioiosa. Questo è l’inizio di un matsuri, un festival giapponese, un evento che è molto più di una semplice festa. È l’anima di una comunità che si risveglia. Per capire un matsuri, non bisogna pensare al carnevale o a una fiera di paese, ma a un filo invisibile che lega il Giappone tecnologico di oggi a un passato ancestrale fatto di risaie, spiriti della natura e gratitudine.
Ogni matsuri nasce da una preghiera. Centinaia, a volte migliaia di anni fa, la vita dipendeva dal ritmo della terra. Si pregavano i kami, gli spiriti shintoisti che abitano in ogni albero, fiume e montagna, per chiedere un buon raccolto di riso, per ringraziare per la pioggia o per allontanare malattie e catastrofi. Il matsuri era questo: un dialogo diretto e collettivo con le forze della natura. Era un modo per dire “grazie”, “per favore, proteggici”. Ancora oggi, quando vedi un mikoshi ondeggiare pesantemente sulle spalle di dozzine di uomini e donne che sudano e urlano all’unisono “wasshoi! wasshoi!”, non stai guardando solo una sfilata mai stai assistendo al trasporto dello spirito divino attraverso il quartiere, un modo per benedire le case, i negozi e le persone. Il peso sulle spalle di quelle persone è il peso simbolico della comunità stessa, un fardello sacro che portano tutti assieme con orgoglio e fatica.
E mentre il sacro sfila tra la folla, il profano lo celebra in un tripudio di sensi. L’aria umida della sera si riempie del profumo dolce e salato del cibo della bancarelle: spiedini di carne grigliata, polpette di polpo fumanti, soba saltati sulle piastre. Bambini in leggeri yukata corrono con in mano una mela caramellata, cercando di pescare pesciolini rossi con retini di carta fragilissimi. È in questo momento che vedi la fusione perfetta tra antico e moderno. Un ragazzo si sistema lo yukata mentre controlla lo smartphone, una bambina indossa una maschera di un personaggio dell’anime del momento accanto ad una maschera folkloristica. Il matsuri non è una rievocazione storica; è una tradizione viva, che respira e si adatta, accogliendo il presente senza mai dimenticare il passato.
Forse, per un occidentale che assiste ad un matsuri, il significato più profondo è questo: il matsuri è il momento culminante in cui il “noi” prevale sull’ “io”. In una società spesso percepita come formale e dai contatti limitati, il festival è un’esplosione di gioia. È il vicino di casa che magari non saluti mai che ora solleva il mikoshi accanto a te. È il legame non scritto tra le generazioni, con i nonni che insegnano ai nipoti canti e ritmi tramandati negli anni. È il battito del cuore di un quartiere, un suono che ricorda a tutti che, nonostante i grattacieli e i treni proiettile, le radici sono ancora li, forti e profonde, nutrite dalla festa, dalle risate e dalla preghiera condivisa. È la prova che, almeno per qualche giorno, si può ancora fermare il tempo per onorare gli spiriti, la comunita e la semplice meravigliosa gioia di stare assieme.

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