11 Novembre 1939
Caro Diario,
Oggi è stata una giornata che mi ha riportato indietro nel tempo, in un modo inaspettato. Ho preso la mia fidata macchina fotografica e mi sono recato nella zona di Higasi-sonogi, poco distante da Sasebo, per incontrare un fornitore di fiducia che potesse produrre alcuni pezzi sostitutivi che le crescenti necessità belliche rendevano di difficile reperibilità attraverso i canali consueti. L’aria era fresca e il cielo terso, come solo il Giappone di questo periodo dell’anno sa essere, perfetto per scattare qualche foto lungo il tragitto, testimonianza di un paesaggio rurale che sembrava resistere immobile al turbinio dei tempi.
Una volta arrivato, ho discusso le mie esigenze con Maizuchi-san, il titolare dell’officina. Un uomo affidabile, con le mani segnate dal lavoro e gli occhi acuti di chi conosce il metallo e le sue forme. Dopo aver definito i dettagli, e aver notato la scarsità di certi materiali, un segno evidente delle restrizioni del conflitto in corso, ho chiesto il permesso di scattare qualche foto dell’officina, di quell’ambiente così autentico. Mentre mi muovevo tra gli attrezzi e i macchinari – alcuni dei quali sembrano risalire all’epoca Meiji, testimoni silenziosi di decenni di trasformazioni – cercando l’angolazione giusta, ho notato un omino, forse sulla sessantina, concentrato al tornio. Era l’immagine perfetta della dedizione artigianale.
Ho alzato la macchina fotografica, puntata su di lui, pronto a catturare l’istante. Ma proprio mentre stavo per scattare, un urlo improvviso ha lacerato l’aria. L’omino è balzato indietro, il contratto da una paura genuina, quasi ancestrale, e ha gridato: “Non fotografarmi! La fotografia mi ruberà una parte dell’anima!
Sono rimasto pietrificato. Era un ricordo d’infanzia che riaffiorava, quella vecchia credenza popolare che si diceva fosse in voga ai tempi del Bakumatsu, o forse anche prima, quando le prime tecniche fotografiche giunsero in Giappone, portate dagli stranieri, circondate da un’aura quasi magica e inquietante. “Se ti fanno una foto, ti rubano una parte della tua anima”, “tamashii o nukerareru”, dicevano. L’avevo sentita per la prima volta dalla mia maestra, che l’aveva liquidata in fretta come una superstizione ingenua e di un’epoca passata, spiegandoci come il disagio venisse dalla lunga immobilità richiesta dalla prima tecnologia importata nel paese, e forse anche dalla novita sconvolgente di vedersi ritratti con una precisione che nessuna pittura tradizionale aveva mai offerto.
Credevo, nella mia ingenuità, che con la diffusione delle macchine fotografiche avvenuta durante il tardo periodo Taishō e l’inizio di questo Shōwa e con la sempre più diffusa presenza di fotografi ambulanti e l’apertura di molte case di ritratto nelle grande città, che una simile credenza fosse ormai svanita, relegata nei racconti dei nonni. Eppure, lì, in quella piccola officina, in un angolo nascosto di questa penisola, era vivida e terrificante per quell’uomo, che forse aveva vissuto la sua giovinezza in un’epoca in cui il Giappone si apriva al mondo esterno con un misto di fascinazione e timore.
È una peculiarità cosi…giapponese. Questo paese in piena corsa per la modernizzazione – iniziata con lo slogan fukoku kyōhei – “paese ricco, esercito forte” – dell’era Meiji e ora tragicamente orientata allo sforzo bellico – che costruisce ferrovie e fabbriche imponenti, che vara navi da guerra poderose e si lancia in conflitti di scala epocale come quello in corso sul continente asiatico, e poi ci sono ancora queste sacche di resistenza, queste profonde, quasi viscerali, incapacità o desideri che dir si volgia, di non cedere il passo, o almeno non completamente, alla modernità. Sembra quasi che una parte di loro si aggrappi disperatamente a ciò che era, a un mondo di certezze più modeste ma forse più umane, per paura di ciò che il progresso, con la sua logica ferrea e talvolta disumanizzante, potrebbe rubare loro. Non un’anima in una foto, ma qualcosa di più profondo, forse l’anima stessa del Giappone, quella che affonda le radici nello shintoismo, nell’animismo e nel rispetto del particolare.
Sono rientrato a casa che era già buio, sfiancato dal viaggio. I trasporti nelle campagne giapponesi, nonostante i proclami di efficienza nazionale, sono ancora un odissea, ho dovuto camminare parecchio sotto il sole tagliente ma pur sempre gelido di novembre. Una volta a casa, ho sviluppato la pellicola, con quella strana sensazione di aver compiuto quasi un furto. E lì, tra i negativi, c’era la foto di quell’uomo. Sono riuscito a strappargli quello scatto fugace prima che mi assalisse, terrorizzato dalla macchina fotografica. Ho guardato il suo volto rugoso, segnato dalle fatiche di una vita intera, e ho notato una semplicità disarmante, una dignità che non aveva bisogno di sovrastrutture. Una semplicità che, forse, questo paese, con i suoi discorsi sulla “Grande Asia Orientale” e il sacrificio per l’Imperatore, sta perdendo.
In questa rincorsa forsennata al progresso, in questo cammino verso il futuro che, a volte, mi sembra cupo e incerto, soprattutto con le notizie che giungono dal fronte e le crescenti privazioni, mi chiedo cosa stiamo sacrificando veramente. Forse l’anima del Giappone, in effetti, non viene rubata da uno scatto di macchina fotografica, ma da qualcos’altro che noi stessi, collettivamente, stiamo scegliendo, o ci stanno facendo scegliere.
Contesto storico
In questa pagina di diario, pur essendo anch’essa incastonata in un preciso momento storico – il Giappone del 1939 sull’orlo di un conflitto epocale – ho cercato di trascendere la cronaca degli eventi per toccare una corda ben più profonda e universale: la frattura insanabile tra modernità e tradizione. Ho scelto di non soffermarmi per un momento sulla geopolitica, ma di utilizzare un episodio apparentemente semplice come metafora per svelare una dicotomia che lacerava l’anima del paese in quel determinato momento storico.
Ho cercato di enfatizzare questa coesistenza stridente. Da un lato, c’è il Giappone proiettato verso il futuro: il protagonista con la sua macchina fotografica, simbolo di progresso tecnico e di un nuovo modo di vedere il mondo; la necessità dei pezzi meccanici per sostenere lo sforzo bellico; la menzione delle ferrovie, delle fabbriche e delle grandi navi da guerra. È il Giappone della logica, dell’acciaio, dell’efficienza nazionale e dell’ambizione imperiale incarnata nello slogan “fukoku kyōhei “.
Dall’altro emerge un Giappone quasi ancestrale, quasi immutabile. l’urlo di terrore dell’anziano operaio non è un semplice capriccio, ma l’eco di una credenza antica, una paura quasi viscerale che la tecnologia possa “rubare l’anima”. Quest’uomo, segnato dal lavoro e la sua fede radicata in un mondo ancora animista, rappresenta le sacche di resistenza di un Giappone che si aggrappa alla propria essenza spirituale di fronte all’avanzata omologante del progresso.
Inizialmente avevo pensato di ambientare questa pagina di diario lungo una strada della città, ma poi ho pensato che il palcoscenico perfetto per questo “dramma” interiore poteva essere meglio rappresentato da un’officina. I macchinari moderni convivono con attrezzi dell’era Meiji, il rumore del tornio di fonde con il silenzio e la calma del paesaggio rurale. È qui che il protagonista comprende come la vera minaccia all’anima del Giappone non proviene dall’obiettivo di una macchina fotografica, ma da una forza ben più grande e impersonale: la marcia inesorabile di una modernizzazione che, inseguendo la potenza, rischia di smarrire la propria umanità e il rispetto per l’individuo.
In questo senso, il “frammento d’anima” del titolo non è solo quello che l’aziano lavoratore teme di perdere, ma anche l’anima stessa del Giappone, colta nel momento della sua frammentazione. Il protagonista rimane con un dubbio inquietante: forse la vera anima non viene rubata, ma sacrificata sull’altare di un futuro che, come si intuisce, si preannuncia cupo e incerto.