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  • Il silenzio della disuguaglianza: la povertà femminile in Giappone

    Il silenzio della disuguaglianza: la povertà femminile in Giappone

    Akiko, una madre single di Tōkyō, lavora part-time in un konbini per sbarcare il lunario. Nonostante una laurea in economia, le sue opportunità sono limitate dagli orari di lavoro e dalla mancanza di un asilo nido accessibile. La sua storia è, purtroppo, comune in Giappone, dove molte donne lottano contro la povertà e la discriminazione di genere.

    Dietro la facciata di una società prospera e tecnologicamente avanzata, il Giappone nasconde un problema oscuro e diffuso: la povertà femminile. Questo fenomeno, radicato in secoli di storia e cultura, limita le opportunità delle donne e incide negativamente sull’intera società. Questo articolo cerca di esplorare le cause profonde di questa disuguaglianza, le sue conseguenze e le possibili soluzioni per un futuro più equo.

    Radici storiche e culturali

    Le radici della disuguaglianza di genere in Giappone affondano in un passato lontano. Sebbene le donne avessero un ruolo più prominente nei primi periodi della storia giapponese, l’ascesa del Confucianesimo e la successiva istituzionalizzazione del sistema dei samurai costrinsero le donne a un ruolo subordinato.

    Da regine alla subordinazione

    Nei primi periodi della storia giapponese, le donne godevano di una notevole libertà e influenza. La Gishi-wajinden (魏志倭人伝), una cronaca cinese del III secolo d.C., menziona la regina Himiko, che governava una vasta porzione del paese, dimostrando che le donne potevano detenere un considerevole potere politico.

    Durante i periodi Nara (710-784) e Heian (794-1185), le donne della corte imperiale esercitavano una notevole influenza. Alcune ascesero persino al trono come imperatrici reggenti. Questo periodo vide anche un fiorire della letteratura, con autrici straordinarie come Sei Shōnagon, nota per il suo “Makura no sōshi” e Murasaki Shikibu, autrice del “Genji monogatari”. Queste donne hanno lasciato un’impronta indelebile sulla cultura giapponese.

    Tuttavia, con l’ascesa della classe dei samurai nel XII secolo e la crescente influenza dell’etica confuciana, la posizione delle donne iniziò a mutare. Il Confucianesimo enfatizzava la pietà filiale e una struttura sociale gerarchica, relegando le donne a un ruolo subordinato agli uomini. Questo cambiamento si consolidò nel tempo, culminando in maggiori restrizioni nei periodi successivi.

    Sanjū no oshie: le tre obbedienze

    La società giapponese del periodo Edo, profondamente influenzata dal Confucianesimo, imponeva alle donne un ruolo rigidamente definito. Il principio conosciuto come sanjū no oshie (三従の教え), le ‘tre obbedienze’, costringeva le donne a una subordinazione che si estendeva dalla giovinezza, quando dovevano obbedire ai genitori, alla vita matrimoniale, dedicata al servizio del marito, fino alla vecchiaia, quando l’obbedienza si spostava sui figli.

    Questa rigida struttura sociale ha limitato drasticamente le opportunità delle donne, relegandole alla sfera domestica e gettando le basi per le disuguaglianze di genere che persistono ancora oggi. Anche dopo la Restaurazione Meiji, sebbene le donne abbiano ottenuto maggiori diritti, l’eredità del Confucianesimo e le aspettative sociali tradizionali hanno continuato a influenzare le loro vite, rendendo difficile la piena realizzazione del loro potenziale.

    La restaurazione Meiji e i semi del cambiamento

    La Restaurazione Meiji (1868) segnò una svolta nella storia giapponese, inaugurando un periodo di rapida modernizzazione. Il nuovo governo introdusse idee e istituzioni occidentali, incluso un nuovo sistema educativo che, per la prima volta, offriva alle ragazze l’accesso alla scuola. Tuttavia, nonostante queste riforme, gli atteggiamenti sociali profondamente radicati fecero sì che la posizione fondamentale delle donne nella società rimanesse sostanzialmente invariata nell’immediato.

    Dopo la Seconda Guerra Mondiale, sotto l’occupazione alleata, il Giappone subì significative riforme sociali e politiche. La Costituzione del 1947 concesse alle donne il diritto di voto e garantì la loro uguaglianza di fronte alla legge, segnando un passo avanti significativo.

    Da allora, le donne giapponesi hanno compiuto notevoli progressi in vari campi, tra cui istruzione, imprese e politica. Tuttavia, nonostante questi progressi, raggiungere una vera uguaglianza di genere rimane una lotta continua. Atteggiamenti e stereotipi tradizionali persistono e le donne continuano a subire varie forme di discriminazione sul posto di lavoro e in altri ambiti della vita.

    Le radici della povertà femminile

    Le cause della povertà femminile in Giappone sono molteplici e interconnesse. Tra queste, spicca la discriminazione sul posto di lavoro: nonostante le leggi sull’uguaglianza, le donne continuano a subire discriminazioni salariali e a essere sotto-rappresentate nei ruoli dirigenziali, spesso relegate a lavori part-time o a tempo determinato, con minori opportunità di carriera e pensioni meno generose rispetto ai colleghi uomini.

    A ciò si aggiunge il divario salariale di genere, ancora significativo e dovuto a fattori come la segregazione occupazionale, la discriminazione nelle promozioni e le aspettative sociali che spingono le donne a interrompere o ridurre la loro carriera per occuparsi della famiglia.

    La mancanza di servizi per l’infanzia accessibili e a prezzi contenuti nelle grandi città rende difficile per le donne conciliare lavoro e famiglia, costringendole spesso a scegliere tra la carriera e la cura dei figli, con conseguenze negative sulla loro indipendenza economica.

    Gli stereotipi di genere profondamente radicati nella società giapponese continuano a influenzare le scelte di vita delle donne, limitando le loro opportunità lavorative e le espongono a un rischio maggiore di povertà, così come la precarietà del lavoro, con la diffusione di contratti a termine, part-time e a chiamata, che rende le donne particolarmente vulnerabili a shock economici e licenziamenti.

    Conseguenze della povertà femminile

    La povertà femminile ha conseguenze significative non solo per le donne direttamente coinvolte, ma per l’intera società. Essa alimenta un ciclo della povertà che si trasmette di generazione in generazione, limitando le opportunità dei figli e perpetuando le disuguaglianze.

    Inoltre, è associata a una salute precaria, sia fisica che mentale, con donne che hanno meno accesso a cure mediche e sono più esposte a stress e isolamento sociale che è una conseguenza diretta della povertà, che limita le possibilità di partecipare alla vita della comunità e di costruire relazioni significative. Infine, la povertà femminile ha un impatto negativo sull’economia, riducendo il consumo e limitando il potenziale di crescita del paese.

    Verso un futuro più equo?

    Per affrontare il problema della povertà femminile in Giappone è necessario un intervento su più fronti sui quali il governo, anche se molto lentamente, sta cercando di intervenire. È fondamentale promuovere l’uguaglianza sul posto di lavoro, facendo rispettare le leggi sull’uguaglianza salariale, combattendo la discriminazione e incentivando le aziende a offrire condizioni di lavoro più flessibili.

    È necessario investire in servizi per l’infanzia, espandendo l’accesso a servizi di assistenza di alta qualità e accessibili, per permettere alle donne di conciliare lavoro e famiglia. Occorre rafforzare le reti di sicurezza sociale, garantendo un reddito minimo alle famiglie in difficoltà e promuovendo l’inclusione sociale.

    Infine, è cruciale un cambiamento culturale che sfati gli stereotipi di genere e promuova una cultura più equa ed inclusiva, che valorizzi i contributi delle donne in tutti gli ambiti della vita.

    Nonostante le difficoltà, molte donne giapponesi hanno dimostrato una straordinaria resilienza e determinazione. Sono sempre più presenti in tutti i settori della società, dalla politica all’economia, dalla cultura allo sport. Molte donne stanno sfidando le convenzioni e aprendo nuove strade per le generazioni future.

    La storia delle donne in Giappone, come nel resto del mondo, è una storia di conquiste e di lotte. È una storia che ci insegna che il cambiamento è possibile, anche quando le radici delle disuguaglianze sono profonde e radicate. La forza e determinazione di molte donne stanno contribuendo a costruire un futuro più giusto ed equo per tutti.

  • Goemonburo: la tradizionale vasca da bagno giapponese e la leggenda di Ishikawa Goemon

    Goemonburo: la tradizionale vasca da bagno giapponese e la leggenda di Ishikawa Goemon

    Immaginate di immergervi in un bagno caldo e fumante dopo una lunga giornata, il calore avvolge il vostro corpo e scioglie lo stress. Ora, immaginate che questa vasca sia un grande calderone di ferro riscaldato direttamente da un fuoco sottostante. Questa è l’essenza del goemonburo (五右衛門風呂), una tradizionale vasca da bagno giapponese con una storia affascinante e un sorprendente legame con un leggendario fuorilegge.

    Le origini del goemonburo: un bagno nella storia

    Le origini del goemonburo non sono ben definite, ma si ritiene che queste vasche si siano diffuse maggiormente durante il periodo Edo (1603-1868). In un’epoca precedente all’idraulica moderna e all’acqua calda facilmente disponibile, il goemonburo offriva una soluzione pratica per riscaldare l’acqua del bagno. Queste vasche, tipicamente in ferro, venivano poste direttamente sopra il fuoco che riscaldava il fondo della vasca, scaldando l’acqua al suo interno.

    Le immagini della galleria sono di un romanzo comico di periodo Edo, il “Tōkaidōchū Hizakurige” (東海道中膝栗毛, tradotto anche in italiano) scritto da Jippensha Ikku ( 十返舎一九). Nell’episodio ambientato alla stazione di posta di Odawara, i due protagonisti non sapevano che nel goemonburo si usava immergere una gesuita (ゲス板). Pensando che fosse semplicemente il coperchio della vasca, la tolsero ed entrarono direttamente nel goemonburo, rischiando di scottarsi le piante dei piedi. Allora, indossando dei sandali per recarsi in bagno, entrarono nella vasca, finendo per sfondarne il fondo.

    Periodo Edo e la diffusione del goemonburo

    Il periodo Edo fu un’epoca di relativa pace e prosperità in Giappone, che portò anche a uno sviluppo delle abitudini igieniche e della cultura del bagno. Il goemonburo divenne un elemento comune nelle case, soprattutto nelle zone rurali, offrendo un momento di relax e socializzazione.

    Ishikawa Goemon: il fuorilegge e il suo tragico destino

    Il nome “goemonburo” è indissolubilmente legato alla figura leggendaria di Ishikawa Goemon (石川五右衛門), un fuorilegge simile a Robin Hood che, secondo la tradizione popolare, visse alla fine del XVI secolo. È considerato una figura storica e i testi giapponesi disponibili forniscono ulteriori dettagli sulla sua vita.

    Nel 1594, durante il regno di Toyotomi Hideyoshi, Goemon e la sua banda furono catturati e Goemon incontrò una fine orribile: fu condannato a essere bollito vivo (kama-iri no kei – 釜煎の刑 – letteralmente “pena della bollitura in un calderone”) assieme al figlio piccolo (a seconda della versione della storia) di fronte al Nanzen-ji, a Kyōto. La leggenda vuole che Goemon abbia salvato il figlioletto tenendolo sospeso sopra la testa. Questa è solo una delle versioni dell’esecuzione di Goemon.

    Esecuzione di Ishikawa Goemon. Fonte: Wikipedia

    Kama-iri: un’antica forma di esecuzione

    Il racconto della condanna di Ishikawa Goemon fu arricchito di dettagli nel corso del tempo, soprattutto durante il periodo Edo, contribuendo a creare la sua immagine leggendaria. Il kama-iri (釜煎 – bollitura in un calderone) era una forma brutale di esecuzione in uso in alcune zone del Giappone durante il periodo Sengoku, che prevedeva di bollire il condannato in un grande calderone pieno di olio o acqua.

    Questa pratica, seppur in contesti diversi, trova un eco anche in opere di finzione moderne, come nel manga e anime One Piece, dove la morte di Oden Kōzuki, bollito vivo in olio bollente per la sua ribellione, richiama la stessa immagine di sofferenza e ingiustizia. Entrambe le scene, pur appartenendo a mondi narrativi distinti, sottolineano la crudeltà di tali punizioni e il loro impatto duraturo sulla memoria collettiva.

    Il calderone ritrovato

    Per uno strano scherzo del destino, il calderone stesso utilizzato per queste esecuzioni fu ritrovato nel 1906. Il dottor Ogawa Shigejiro (小河滋次郎), un importante amministratore carcerario e studioso di diritto dell’era Meiji, lo trovò abbandonato nel carcere di Nara e lo fece trasferire a Tōkyō.

    Questa riscoperta riportò il calderone, e quindi il ricordo del destino di Goemon, alla coscienza pubblica. Il calderone fu poi esposto in varie mostre dall’Associazione delle Prigioni, diventando una popolare attrazione. Purtroppo, il calderone è ora perduto, anche se la sua forma documentata corrisponde alle testimonianze storiche.

    Sebbene l’autenticità di questo particolare calderone non possa essere provata definitivamente, è un potente ricordo di questo oscuro capitolo della storia. Il Ministero della Giustizia e altre istituzioni correlate conservano numerosi e preziosi documenti storici, e la conservazione di questi materiali per le generazioni future è una responsabilità cruciale.

    Goemonburo e la vita quotidiana

    In passato, il goemonburo ha svolto un ruolo significativo nella vita quotidiana in Giappone. Preparare un bagno era un processo laborioso. Innanzitutto, bisognava raccogliere la legna da ardere e accendere il fuoco sotto la vasca. Bisognava prestare attenzione a regolare il fuoco per evitare di surriscaldare l’acqua o danneggiare la vasca. Spesso, una tavola o una griglia di legno veniva posta sul fondo della vasca per evitare che i bagnanti si scottassero con il metallo caldo.

    Il goemonburo non era solo un luogo per lavare il corpo; era anche uno spazio sociale dove famiglie e comunità potevano riunirsi e rilassarsi. Questi bagni erano particolarmente comuni nelle zone rurali e sono stati un elemento fondamentale delle case giapponesi per un considerevole periodo di tempo.

    Declino ed eredità moderna

    Sebbene sia difficile individuare cronologie precise, diverse fonti giapponesi suggeriscono che il goemonburo rimase in uso fino al periodo Shōwa (昭和時代, 1926-1989), soprattutto nelle zone rurali dove l’accesso all’idraulica moderna arrivò più lentamente. Alcune fonti indicano che era ancora in uso in alcune case anche nella prima parte della seconda metà del XX secolo, anche se la loro diffusione diminuì significativamente dopo la seconda guerra mondiale con la crescente disponibilità di scaldabagni a gas ed elettrici e vasche da bagno moderne.

    La transizione dal goemonburo fu guidata da fattori come la comodità, i problemi di sicurezza legati alle fiamme libere e la disponibilità di alternative più moderne ed efficienti. L’introduzione dei bagni pubblici (sentō – 銭湯) fornì anche un’ alternativa, contribuendo ulteriormente al declino del goemonburo nelle case private, soprattutto nelle aree urbane.

    Il goemonburo oggi

    Sebbene l’idraulica moderna abbia in gran parte sostituito il goemonburo nelle case giapponesi, la sua eredità permane. È ancora possibile trovare queste vasche tradizionali in alcune zone rurali, nei ryokan (旅館) le locande tradizionali e occasionalmente negli onsen (温泉 – sorgenti termali). La loro presenza funge da collegamento tangibile con il passato del Giappone, ricordandoci un tempo in cui fare il bagno era un’esperienza più comunitaria e laboriosa.

    Immergersi in un goemonburo oggi è più che fare un bagno; è immergersi nella storia e vivere un aspetto unico della cultura giapponese. È un’occasione per connettersi con il passato e apprezzare l’ingegno e la resilienza di coloro che ci hanno preceduto. Mentre l’immagine della tragica fine di Ishikawa Goemon potrebbe persistere, il goemonburo si è evoluto in un simbolo di calore, relax e connessione con il ricco patrimonio del Giappone.

  • Il concetto di ujigami e il manga Dandadan: un’interpretazione moderna del folklore giapponese

    Il concetto di ujigami e il manga Dandadan: un’interpretazione moderna del folklore giapponese


    Disclaimer: mi preme precisare che le considerazioni espresse in questo articolo riguardo alle possibili connessioni tra il manga Dandadan e il folklore giapponese, in particolare il concetto di ujigami, sono frutto di un’interpretazione personale e non intendono fornire una lettura univoca dell’opera.


    Ujigami

    Gli ujigami (氏神) sono divinità tutelari di specifiche regioni o comunità in Giappone. Originariamente legati al culto degli antenati di un clan (ujizoku/shizoku 氏族), il loro significato si è evoluto nel tempo, includendo anche divinità legate a luoghi specifici, indipendentemente dai legami di sangue. Gli ujigami sono profondamente radicati nella storia, cultura e vita delle persone che proteggono, rappresentando un elemento cruciale della loro identità locale. Il loro potere è intrinsecamente legato al territorio che custodiscono, un concetto chiave per comprendere diverse dinamiche narrative.

    Dandadan

    Dandadan, il manga di Yukinobu Tatsu, intreccia elementi horror, fantascientifici, d’azione e comici, attingendo a piene mani dal folklore giapponese. Yōkai, spiriti e divinità popolano le sue pagine, offrendo una reinterpretazione moderna di antiche credenze. In questo contesto, emergono interessanti connessioni con il concetto di ujigami.

    Punti di connessione tra ujigami e Dandadan

    Legame con la terra e il concetto di confine (結界, kekkai)

    Una caratteristica distintiva di Dandadan è la forte connessione tra le manifestazioni soprannaturali e luoghi specifici: case abbandonate, cimiteri, montagne, antichi alberi e santuari diventano teatri di eventi misteriosi. Questo riecheggia il legame territoriale degli ujigami, divinità che proteggono e incarnano lo spirito di un luogo. La “turbo nonna”, ad esempio, è un’entità legata a un luogo preciso, incarnando la connessione tra un luogo e le sue leggende.

    Questo parallelismo riflette la profonda connessione degli ujigami con la storia e le tradizioni della loro terra. Ma in Dandadan questo legame si manifesta spesso attraverso la creazione di veri e propri confini spirituali, kekkai, che delimitano l’area di influenza di una determinata entità. Questi confini non sono solo fisici, ma anche spirituali, e la loro violazione può scatenare reazioni violente. Questo concetto è strettamente legato all’idea di kegare (穢れ), impurità spirituale, che spesso richiede l’istituzione di barriere per contenerla e proteggere il mondo “puro”. La presenza di questi confini in Dandadan enfatizza la territorialità del potere delle entità soprannaturali, proprio come per gli ujigami.

    Protezione e conflitto: l’ambivalenza delle entità

    Tradizionalmente, gli ujigami sono considerati protettori delle comunità locali. Tuttavia, la loro natura non era sempre puramente benevola. Potevano punire la mancanza di rispetto, portare malattie o calamità se trascurati. Questa dualità si riflette in Dandadan, dove le entità soprannaturali non sono sempre benevole nei confronti degli umani.

    Il manga esplora un complesso rapporto di coesistenza, conflitto e talvolta persino collaborazione tra umani e queste entità. Questo riflette una visione più complessa delle divinità, che possono essere sia fonte di protezione che di pericolo, un’ambivalenza presente anche in alcune figure del folklore giapponese. Ad esempio, alcuni yōkai in Dandadan, pur essendo legati a un luogo specifico, non esitano a minacciare o attaccare gli umani se si sentono minacciati o se il loro territorio viene violato. Questa ambivalenza è una caratteristica chiave sia degli ujigami che delle entità presenti in Dandadan.

    Elementi folkloristici e il ruolo dei rituali

    Dandadan attinge a un ricco patrimonio di folklore giapponese, strettamente legato al culto degli antenati e alle credenze sugli ujigami. La presenza di yōkai, spiriti, leggende urbane e altre figure mitologiche contribuisce a creare un’atmosfera che richiama un mondo spirituale radicato nelle tradizioni.

    Le rappresentazioni di queste entità sono spesso basate su storie e leggende tramandate oralmente in diverse regioni del Giappone, offrendo ai lettori uno spaccato della cultura e delle credenze popolari. Sebbene in Dandadan non ci siano rappresentazioni dirette di rituali nel senso tradizionale, si possono individuare delle “offerte” o interazioni che legano gli umani alle entità soprannaturali. Il rispetto per i luoghi, la conoscenza delle leggende locali, la paura e il terrore che suscitano queste entità possono essere visti come una forma di “offerta” che alimenta il loro potere. Anche la distruzione di un luogo legato a un’entità può essere vista come un atto che scatena la sua ira, dimostrando l’importanza del rispetto, anche involontario, verso il soprannaturale.

    Il potere limitato degli ujigami e il ruolo di Seiko

    Un aspetto fondamentale del concetto di ujigami è la territorialità del loro potere. La loro influenza è confinata al territorio che proteggono, che coincide con i confini del villaggio, del quartiere o, nel caso di Seiko, con il suo santuario. Questo significa che:

    • Potere locale: l’efficacia di un ujigami è massima all’interno del suo territorio, dove può esercitare la sua protezione, influenzare gli eventi e interagire con il mondo fisico.
    • Limitazioni territoriali: al di fuori di questo confine, l’ujigami perde gran parte, se non tutto, il suo potere. Non può più intervenire direttamente o proteggere con la stessa efficacia.

    In Dandadan, la nonna di Momo, Seiko, incarna questo principio. In quanto rappresentante della divinità legata al suo santuario, il suo potere è massimo tra le sue mura. Qui, Seiko può manifestare appieno le sue capacità soprannaturali. Tuttavia, quando Momo si allontana dal santuario, Seiko non può più aiutarla direttamente. Questa limitazione, coerente con il concetto di ujigami, può avere diverse funzioni narrative:

    • Aumenta la tensione e il pericolo: l’impossibilità per Momo di contare sull’aiuto diretto di sua nonna al di fuori del santuario crea situazioni di maggiore pericolo e suspense.
    • Forza la crescita del personaggio: questa difficoltà spinge Momo a sviluppare le proprie capacità e a diventare più indipendente, contribuendo alla sua evoluzione.
    • Rafforza il legame con il folklore: la limitazione territoriale del potere degli ujigami è un elemento centrale del folklore giapponese, e il suo utilizzo in Dandadan contribuisce a creare un’atmosfera autentica e a rafforzare il legame con le tradizioni culturali giapponesi.

    Seiko come un moderno ujigami?

    La nonna di Momo, Seiko, incarna in modo esemplare il concetto di ujigami in Dandadan. Legata al suo santuario, il suo potere è massimo all’interno di quei confini. Tuttavia, Seiko presenta alcune interessanti deviazioni rispetto al concetto prettamente tradizionale di ujigami tradizionale:

    • Personalità e relazioni: Seiko è un personaggio reale con una personalità definita, emozioni e relazioni personali, a differenza degli ujigami tradizionali spesso considerati divinità impersonali.
    • Potere personale: i suoi poteri, sebbene legati al santuario, sono manifestati in modo più personale e diretto, riflettendo la sua individualità.
    • Relazione con gli umani: la sua relazione con Momo è più simile a quella di una nonna e una nipote che a quella tra una divinità e un devoto, creando un legame più profondo e intimo.

    Seiko quindi potrebbe rappresentare così una rivisitazione moderna del concetto di ujigami, dove il potere divino si intreccia con l’umanità, creando un personaggio complesso e affascinante.

    Paure, protezione e ambiente

    Il tema della paura è centrale sia nel culto degli ujigami che in Dandadan. La paura del sovrannaturale, il rispetto per i luoghi sacri e la consapevolezza dei poteri delle entità soprannaturali sono elementi ricorrenti. Allo stesso tempo, gli ujigami sono considerati protettori delle comunità, e anche in Dandadan vediamo come alcune entità, pur imponenti, possono essere fonte di protezione e guida.

    Inoltre, il legame degli ujigami con la terra e l’ambiente trova un’eco in Dandadan, dove la natura e i luoghi sacri sono spesso al centro degli eventi soprannaturali. Il manga solleva così importanti questioni sull’impatto dell’uomo sull’ambiente e sulla necessità di rispettare la natura e le creature che la abitano.

    La modernità e la perdita di connessione con il folklore

    Dandadan mostra un mondo in cui il folklore si scontra con la modernità. Le leggende e le antiche credenze sono ancora presenti, ma spesso vengono dimenticate o ignorate. Questa tensione tra passato e presente è un tema ricorrente nel manga. Dandadan riflette la perdita di connessione con le tradizioni e il tentativo di recuperare un legame con il passato attraverso l’incontro con il soprannaturale.

    L’impatto di questi incontri è anche di natura psicologica: i personaggi sono costretti a confrontarsi con l’ignoto, con la paura, lo stupore e la necessità di dare un senso a ciò che non comprendono. Questo processo di adattamento e comprensione del soprannaturale influenza profondamente la loro crescita personale.

    Interpretazione moderna del concetto di ujigami in Dandadan

    Dandadan, pur non trattando esplicitamente il tema degli ujigami, ne riprende diversi aspetti fondamentali, offrendo una reinterpretazione moderna di antiche credenze. La rappresentazione delle entità soprannaturali non è manichea: alcune cercano la coesistenza con gli umani, altre instaurano relazioni complesse, riflettendo la natura ambivalente di molte figure divine del folklore. Questa ambivalenza potrebbe richiamare l’idea che gli ujigami, pur essendo protettori, non sono sempre portatori di solo bene, riflettendo le forze della natura, a volte benevole, a volte distruttive.

    Conclusione

    Attraverso la sua narrazione, Dandadan offre una prospettiva contemporanea sul concetto di ujigami, invitando il lettore a riflettere sul rapporto tra uomo, natura e soprannaturale nella cultura giapponese. Anche senza riferimenti diretti, l’atmosfera intrisa di folklore e la dinamica tra umani e yōkai creano un’eco delle antiche credenze, rendendo l’opera un’interessante esplorazione delle radici culturali del Giappone.

  • Ippon-jime: la tradizione giapponese del battito di mani

    Ippon-jime: la tradizione giapponese del battito di mani

    Immaginate di trovarvi a una festa aziendale (enkai, 宴会) in Giappone. La serata volge al termine e, improvvisamente, tutti iniziano a battere le mani all’unisono. Non si tratta di un semplice applauso, ma di un rituale con un profondo significato culturale: l’ippon-jime (一本締め) o l’icchō-jime (一丁締め). Queste usanze tradizionali, utilizzate per concludere eventi, esprimere gratitudine e simboleggiare unità, offrono uno spaccato affascinante delle dinamiche sociali giapponesi, in particolare nel contesto lavorativo.

    Etimologia e significato

    Ippon-jime: un rituale di chiusura

    Ippon-jime (一本締め) si traduce letteralmente con “una chiusura” o “un compattamento”. Il termine ippon (一本) significa “uno”, ma in questo contesto si riferisce a una specifica sequenza ritmica di battiti, non a un singolo battito isolato. È importante notare che, sebbene ippon significhi “uno”, il rituale prevede una sequenza di battiti ben precisa.

    Icchō-jime: una versione semplificata

    Icchō-jime (一丁締め), invece, significa letteralmente “chiusura chō‘”. Chō (丁) è un’antica unità di misura di lunghezza, ma in questo contesto indica un singolo battito secco, rendendo l‘ icchō-jime una versione semplificata dell’ ippon-jime, più rapida e informale.

    Origini storiche

    Le radici shintoiste e il mito del kuniyuzuri

    Le origini di queste usanze affondano le radici nei tradizionali rituali celebrativi con battito di mani (hakushu, 拍手) tipici dello shintoismo, un legame ulteriormente rafforzato da una connessione mitologica. Il Kojiki (古事記), un’antica cronaca giapponese, narra il mito del kuniyuzuri (国譲り), letteralmente “cessione del paese” o “trasferimento della terra”.

    Questo mito racconta di come Ōkuninushi (大国主命), una divinità terrestre (kunitsukami, 国津神) che governava la terra di Izumo, fu persuaso a cedere il controllo del Giappone alla dinastia divina celeste (amatsukami, 天津神) guidata da Amaterasu (天照大神), la dea del Sole.

    Questo evento mitologico è considerato un momento cruciale nella mitologia giapponese, che sancisce il passaggio del potere dalle divinità terrestri a quelle celesti. Quando la richiesta viene comunicata a suo figlio maggiore, Kotoshironushi (事代主神), questi esprime il suo consenso con un battito di mani, un gesto interpretato come segno di rispetto e accettazione. Questo mito suggerisce un’origine antica e quasi divina per questa pratica in Giappone, collegandola a concetti di armonia e risoluzione pacifica.

    Quando si usa l’ippon-jime?

    L’ippon-jime (一本締め) è spesso utilizzato al termine di diverse occasioni, come feste di addio (sōbetsukai 送別会), eventi aziendali (come le già citate enkai), matrimoni e incontri di comunità locali. Si tratta di un’usanza diffusa a livello nazionale, sebbene la forma e il ritmo specifici possano variare leggermente a seconda della regione. Ad esempio, nella regione del Kansai è diffusa una variante chiamata sanbon-jime (三本締め), che prevede tre sequenze di battiti.

    L’ ippon-jime nel mondo del lavoro

    Nonostante le opportunità di praticare l’ippon-jime siano forse diminuite con la diffusione del lavoro da remoto, esso rimane un elemento importante dell’etichetta aziendale giapponese. Ad esempio, può essere usato al termine di una lunga riunione di lavoro per sancire il raggiungimento di un obiettivo, la conclusione positiva di un progetto o la firma di un contratto. Lo schema ritmico “Pa-pa-pan, pa-pa-pan, pa-pa-pan, pan” (dieci battiti) riveste un significato simbolico: i primi nove battiti corrispondono al carattere kanji per “nove” (九), che in giapponese si pronuncia “ku“, suono che può essere associato alla sofferenza (苦). L’ultimo battito, aggiungendosi ai precedenti, forma il carattere per “cerchio” (丸, maru), a simboleggiare una conclusione armoniosa e di successo, superando le difficoltà rappresentate dal “nove”.

    Icchō-jime nei contesti informali

    L’ icchō-jime, al contrario, è una versione molto più semplice, che consiste in un singolo battito di mani secco. Questa forma semplificata viene spesso impiegata in contesti più informali o quando il tempo è limitato, ed è talvolta considerata una forma abbreviata dell’ ippon-jime. Ad esempio, l’ icchō-jime può essere usato in un contesto informale tra amici per salutarsi velocemente, per concludere una breve riunione informale o per esprimere un rapido ringraziamento.

    Significato sociale e culturale

    Unità, gratitudine e formalità

    L’ ippon-jime e l’ icchō-jime assolvono diverse importanti funzioni sociali. Innanzitutto, marcano chiaramente la fine di un evento o di un’attività, offrendo un senso di completezza e di chiusura formale. Inoltre, l’ ippon-jime è un modo per esprimere gratitudine e rispetto (kansha, 感謝 in giapponese) verso coloro che hanno contribuito al successo dell’evento o del progetto.

    Piuttosto che una serie di ringraziamenti individuali, si tratta di un’espressione collettiva di apprezzamento per il lavoro svolto, i risultati ottenuti e un augurio di successo per il futuro.

    Il battito di mani sincronizzato promuove anche un forte senso di unità ( ittai-kan, 一体感), creando un’esperienza condivisa e rafforzando la coesione del gruppo ( rentai-kan, 連帯感). Queste usanze contribuiscono all’importanza che la cultura giapponese attribuisce all’armonia, un valore fondamentale che permea la società giapponese e che ricerca l’equilibrio e la concordia all’interno del gruppo, fornendo un modo strutturato e rispettoso per concludere gli incontri.

    L’ ippon-jime passo per passo

    Ruolo dell’ organizzatore e le fasi rituali

    L’ ippon-jime è solitamente guidato dall’organizzatore ( detto kanji 幹事, in giapponese), la persona responsabile dell’evento, che riveste un ruolo importante nel coordinamento e nella gestione del gruppo. La procedura è ben precisa:

    • Osservazioni introduttive ( kōjō 口上): l’ organizzatore pronuncia alcune parole di apertura per preparare i partecipanti al rituale, ringraziando per la partecipazione e riassumendo brevemente i momenti salienti dell’evento.
    • Invito all’azione: l’ organizzatore invita i presenti a battere le mani con frasi formali come “O-te o haishaku” (お手を拝借, “Posso prendere in prestito le vostre mani?”) o espressioni più informali come “iyo~” (いよ〜) o “saa, shimemashō!” (さあ、締めましょう! “Bene, concludiamo!”).
    • Esecuzione: inizia il battito ritmico vero e proprio: “Pa-pa-pan, pa-pa-pan, pa-pa-pan, pan” (dieci volte). È importante che il ritmo sia mantenuto da tutti i partecipanti per creare un effetto di unisono.
    • Osservazioni conclusive: al termine del battito, l’organizzatore esprime i suoi ringraziamenti finali (arigatō gozaimashita, ありがとうございました), concludendo ufficialmente l’evento. Queste parole finali sono essenziali per dare un senso di compiutezza e armonia.

    L’etichetta prevede inoltre che, dopo l’ ippon-jime, i partecipanti applaudano quando l’organizzatore o un rappresentante esprime i suoi ringraziamenti. In caso di dubbio, soprattutto per i nuovi assunti, è consigliabile seguire l’esempio degli altri colleghi.

    Attraverso l’ ippon-jime e l’ icchō-jime, non solo si conclude un evento, ma si celebrano l’armonia, la gratitudine, il rispetto reciproco e il senso di appartenenza al gruppo, valori profondamente radicati nella cultura giapponese. Comprendere queste usanze significa aprire una finestra sulla complessità e la bellezza delle interazioni sociali in Giappone, e in particolare nel contesto lavorativo.

  • Kyōtsū Tesuto: il trampolino o l’ostacolo per l’università in Giappone

    Kyōtsū Tesuto: il trampolino o l’ostacolo per l’università in Giappone

    Gennaio in Giappone, tra festività e tensione

    Gennaio in Giappone è un mese di vivaci celebrazioni, dalla solennità del Capodanno (元日, ganjitsu) alle gioiose festività del giorno della maggiore età (成人の日, seijin no hi) e alle tradizionali osservanze del Piccolo Capodanno (小正月, koshōgatsu).

    Eppure, in mezzo all’atmosfera festosa, aleggia una palpabile tensione, soprattutto per gli studenti dell’ultimo anno delle superiori: il test comune di ammissione all’università (大学入学共通テスト, daigaku nyūgaku kyōtsū tesuto), un esame cruciale che può influenzare significativamente il loro futuro.

    La storia del kyōtsū tesuto

    Questo esame, semplicemente chiamato kyōtsū tesuto, è diventato un momento cruciale nella vita di innumerevoli studenti giapponesi. Le sue origini risalgono al 1979 con l’introduzione dell’”esame comune di primo grado” (共通一次試験, kyōtsū ichiji shiken). Questa prima versione mirava a fornire una valutazione standardizzata per l’ingresso alle università statali. Nel 1990, il test subì un cambio di nome e lievi revisioni, diventando l’”esame nazionale unificato di ammissione all’università” (センター試験, sentā shiken). Questa versione rimase in vigore per oltre tre decenni, diventando un elemento consolidato del panorama accademico giapponese.

    Infine, nel 2021, il test si è evoluto nella sua forma attuale, il kyōtsū tesuto, riflettendo un cambiamento di rotta verso la valutazione non solo della memorizzazione mnemonica, ma anche del pensiero critico, del giudizio e delle capacità espressive.

    Struttura e funzionamento dell’ esame

    Gestito dal “centro nazionale per gli esami di ammissione all’università” (独立行政法人大学入試センター, dokuritsu gyōseihōjin daigaku nyūshi sentā), il kyōtsū tesuto rappresenta il primo passo fondamentale per gli studenti che desiderano accedere alle università pubbliche attraverso la procedura ordinaria di ammissione.

    L’importanza di questo esame è ulteriormente sottolineata dall’uso che ne fanno numerose università private, che integrano i punteggi ottenuti dagli studenti nel kyōtsū tesuto, nel loro processo interno di selezione, (共通テスト利用, kyōtsū tesuto riyō), coinvolgendo così un vasto numero di aspiranti universitari.

    L’ autovalutazione e la scelta dell’università

    Il test, che si tiene tipicamente di sabato e domenica intorno a metà gennaio, prevede la risposta a domande a scelta multipla su fogli ottici in una vasta gamma di materie. Sebbene i risultati ufficiali non vengano rilasciati immediatamente, i candidati possono valutare autonomamente la propria performance confrontando le proprie risposte con quelle pubblicate poco dopo il test. Questa autovalutazione svolge un ruolo cruciale nel decidere a quali università candidarsi per i successivi esami secondari specifici per l’università (二次試験, niji shiken).

    L’impatto sociale: il juken jigoku

    Pressione e competizione

    L’importanza sociale del kyōtsū tesuto non può essere sottovalutata. Rappresenta il culmine di anni di studio e preparazione rigorosi, e il successo all’esame è spesso visto come una porta d’accesso a migliori prospettive di carriera e mobilità sociale. Questa enfasi sul successo accademico ha creato un ambiente altamente competitivo, che spesso porta a un’immensa pressione sugli studenti. L’intensa concentrazione sulla preparazione all’esame, nota come juken jigoku (受験地獄, letteralmente “inferno degli esami”), può avere conseguenze negative sul benessere mentale e fisico degli studenti.

    Il juken jigoku non è una semplice metafora, ma una realtà fatta di studio incessante, pressione familiare e sociale, isolamento e competizione spietata. Molti studenti trascorrono innumerevoli ore a studiare, spesso frequentando i juku (istituzioni private molto diffuse in Giappone, simili a dopo scuola, che offrono lezioni extrascolastiche a studenti di tutte le età, dall’asilo fino alle superiori, in preparazione degli esami di ammissione) serali e nei fine settimana, sacrificando il sonno, il tempo libero e le interazioni sociali. La pressione per il successo, alimentata dalle aspettative familiari e dalla forte enfasi sociale sul rendimento scolastico, può portare a gravi problemi di salute mentale e fisica, tra cui ansia, stress, depressione e disturbi del sonno. La competizione per l’ammissione alle università più prestigiose è feroce, e coloro che non superano gli esami possono diventare rōnin (浪人), studenti che trascorrono un altro anno a prepararsi per riprovare l’anno successivo, con un ulteriore aggravio di stress e costi. La pressione per ottenere buoni risultati può portare ad ansia, stress e persino depressione.

    Critiche al sistema

    Sebbene il kyōtsū tesuto miri a fornire una valutazione equa e standardizzata, i critici sostengono che enfatizzi ancora fortemente la memorizzazione mnemonica e potrebbe non cogliere appieno i diversi talenti e le diverse abilità degli studenti. L’enfasi sui test standardizzati contribuisce anche all’ambiente, spesso considerato oppressivo, che circonda l’ingresso al mondo universitario giapponese.

    Il sistema di ammissione alle università giapponesi

    Kyōtsū tesuto e niji shiken

    La struttura delle ammissioni universitarie in Giappone è complessa. Le università pubbliche generalmente impiegano un processo a due fasi: il kyōtsū tesuto e il niji shiken. Il peso dato a ciascuno varia a seconda dell’università. Ad esempio, l’Università di Tōkyō, l’istituzione più prestigiosa del paese, utilizza il kyōtsū tesuto principalmente per la selezione iniziale e, il niji shiken, che ha un peso significativamente maggiore per la selezione finale. Ci sono alcune università, tuttavia, si affidano esclusivamente al kyōtsū tesuto per le ammissioni.

    I niji shiken si tengono in date diverse, consentendo agli studenti di candidarsi a più università. Le università nazionali offrono in genere due opportunità: il “periodo anticipato” (前期日程, zenki nittei) e il “periodo posticipato” (後期日程, kōki nittei). Le università private hanno i propri esami di ammissione indipendenti, offrendo spesso più date per i test.

    Il kyōtsū tesuto rimane un’appuntamento significativo per gli studenti giapponesi. Sebbene si sforzi di fornire una valutazione standardizzata e oggettiva delle capacità accademiche, evidenzia anche l’intensa pressione e l’alta posta in gioco associate all’ingresso all’università in Giappone.

    L’evoluzione dell’esame nel corso dei decenni riflette gli sforzi continui per migliorare l’equità e la completezza del processo di valutazione, ma l’impatto sociale ed emotivo sugli studenti rimane una preoccupazione critica.

  • La consegna delle cartoline di capodanno in Giappone

    La consegna delle cartoline di capodanno in Giappone

    In Giappone, il nuovo anno è un momento speciale, celebrato con l’invio e la ricezione di cartoline chiamate nengajō (年賀状). Queste cartoline rappresentano un modo per salutare amici e familiari, esprimere gratitudine per l’anno trascorso e augurare buona fortuna per quello nuovo. Un aspetto unico di questa tradizione è la consegna coordinata di queste cartoline proprio il primo giorno dell’anno.

    Nengajō

    Le poste giapponesi svolgono un ruolo cruciale in questo evento annuale. Raccolgono e smistano enormi quantità di nengajō nei giorni precedenti il Capodanno, conservandole per garantire che la maggior parte venga consegnata il primo giorno dell’anno. Questa pratica è un’impresa logistica considerevole, che coinvolge molto personale e una pianificazione meticolosa.

    Storicamente, le nengajō venivano consegnate a mano, ma con la modernizzazione del sistema postale, la pratica si è spostata sulla consegna organizzata da parte dei postini. Sebbene il volume di nengajō sia diminuito negli ultimi anni a causa dell’aumento della comunicazione digitale, rimane un evento culturale significativo e un’operazione su larga scala per le poste giapponesi.

    Foto: ANN News

    Raccolta e smistamento

    Da metà dicembre, vengono allestite cassette postali speciali appositamente per le nengajō. Gli uffici postali lavorano instancabilmente per smistare le cartoline per area di consegna.

    Evidenziata bianco la buca delle lettera riservata per le nengajō. (Può essere diversa a seconda dell’ufficio postale)

    Preparativi per la consegna

    Postini e dipendenti delle poste spesso lavorano durante la notte del 31 dicembre per finalizzare lo smistamento e prepararsi per le consegne del giorno successivo.

    Consegna il primo dell’anno

    Il 1° gennaio, i postini iniziano i loro giri di consegna di buon mattino per recapitare le nengajō. È comune vedere postini su motociclette o biciclette, carichi di pile di cartoline, effettuare le consegne durante tutta la giornata.

    L’importanza simbolica delle nengajō

    La consegna delle nengajō il primo giorno dell’anno ha un peso simbolico. Rappresenta un nuovo inizio, connessioni rinnovate e la continuazione di una cara tradizione culturale.

    La mattina del 1° gennaio, presso molti uffici postali in tutto il Giappone, si tiene una cerimonia formale prima della partenza dei postini per la consegna delle nengajō. Questa cerimonia, chiamata shuppatsu-shiki (出発式), ha diversi scopi:

    Motivazione e incoraggiamento

    La cerimonia punta a dare una carica positiva ai postini che affronteranno una giornata di lavoro intensa.

    Sicurezza stradale

    I discorsi dei dirigenti durante la cerimonia servono anche ad enfatizzare la sicurezza stradale e la guida prudente.

    Riconoscimento del servizio

    La cerimonia mira a sottolineare il valore culturale e sociale della consegna delle nengajō.

    Immagine pubblica delle poste

    L’azienda punta anche al rafforzamento di un’immagine positiva delle poste giapponesi.

    Gli elementi tipici della cerimonia includono discorsi dei dirigenti, una dichiarazione di intenti da parte di un rappresentante dei postini, un controllo dei mezzi di trasporto e la partenza in gruppo dei postini. L’atmosfera è formale ma anche festosa, con un senso di orgoglio e appartenenza.

    Il numero di nengajō inviate ogni anno è in calo a causa del maggiore utilizzo di e-mail e social media per gli auguri di Capodanno. Tuttavia, molti giapponesi apprezzano ancora la natura tangibile della ricezione di una cartolina fisica e la tradizione continua ad avere un posto speciale nella cultura giapponese. Le poste giapponesi si sono adattate a questi cambiamenti offrendo vari servizi, come la creazione e la stampa di nengajō online.






  • Iwai-bashi: le bacchette per le celebrazioni di Capodanno

    Iwai-bashi: le bacchette per le celebrazioni di Capodanno

    Nella cultura giapponese, le occasioni speciali come il Capodanno (shōgatsu) e altre celebrazioni richiedono utensili da tavola unici, tra cui spiccano le iwai-bashi (祝い箸). Queste bacchette speciali, spesso associate all’osechi ryori (おせち料理, il sontuoso banchetto di Capodanno) e all’ozoni (お雑煮), incarnano un profondo simbolismo culturale e religioso.

    Le iwai-bashi si distinguono per la loro lunghezza, di circa otto sun (寸, un’antica unità di misura giapponese che corrisponde a circa 24 cm). Il kanji per otto (八) si allarga verso il basso, simboleggiando prosperità e buon auspicio. Questo articolo esplora le origini, il simbolismo e le usanze legate a queste sacre posate, offrendo una guida completa per comprendere il loro ruolo nella tradizione giapponese.

    Il termine iwai-bashi (祝い箸) è composto da due kanji:

    祝い (iwai)

    significa “celebrazione”, “congratulazioni” o “festa”, indicando l’uso di queste bacchette durante occasioni gioiose.

    箸 (hashi)

    he significa semplicemente “bacchette”

    La combinazione di questi caratteri definisce chiaramente le iwai-bashi come bacchette specificamente destinate ai pasti celebrativi.

    Queste bacchette sono conosciute anche con altri nomi, ognuno con una propria sfumatura di significato:

    Ryōkuchi-bashi (両口箸)

    Tradotto letteralmente come “bacchette a doppia bocca”, questo nome si riferisce alla caratteristica forma affusolata di entrambe le estremità. Questo design unico simboleggia la condivisione del pasto tra gli umani e i kami (le divinità shintoiste), un concetto noto come shinjin kyōshoku (神人共食), ovvero “pasto condiviso tra i kami e l’uomo”.

    Yanagi-bashi (柳箸)

    Questo termine indica che le bacchette sono tradizionalmente realizzate in legno di salice (柳, yanagi). Il salice, nella cultura giapponese, è simbolo di buon auspicio per la sua vitalità e la sua associazione con l’allontanamento degli spiriti maligni. Rappresenta inoltre la longevità, essendo considerato un albero medicinale. Il termine yanagi può essere anche scritto con i seguenti kanji “家内喜”, che significa “gioia familiare”.

    Tawara-bashi (俵箸)

    Questo nome si riferisce alla forma delle bacchette, più spesse al centro, che ricordano proprio una tawara (俵), un sacco di paglia di riso intrecciata, tradizionalmente utilizzato in Giappone per conservare e trasportare il riso, ma anche altri cereali, semi e persino sale. Questa forma simboleggia la preghiera per un raccolto abbondante ed è anche chiamata futobashi (太箸, bacchette spesse) o haramibashi (はらみ箸, bacchette della gravidanza), simboli di fertilità e prosperità della discendenza.

    Tawara

    Simbolismo e legame con i kami

    La caratteristica più significativa delle iwai-bashi sono le loro estremità affusolate. A differenza delle bacchette di tutti i giorni, che sono affusolate solo su un’estremità, le iwai-bashi sono progettate in modo che entrambe le estremità possano essere utilizzate per mangiare. Questo design unico si collega alla credenza shintoista dello shinjin kyōshoku (神人共食) che si traduce come “condivisione del cibo tra kami (divinità) e persone”.

    Shinjin kyōshoku

    Questo termine si riferisce a un’antica pratica rituale giapponese in cui si credeva che le persone condividessero un pasto con i kami, spesso attraverso offerte di cibo durante festival o cerimonie. Questo atto simboleggiava una connessione spirituale e una comunione tra il mondo umano e quello divino.

    Un’estremità è simbolicamente usata dai kami, mentre l’altra è usata dalla persona, a significare un’esperienza condivisa e una connessione con il divino. Questa pratica esprime gratitudine ai kami per le benedizioni ricevute, specialmente durante le celebrazioni di Capodanno quando l’osechi ryori è offerto come pasto sacro.

    Sakasa-bashi

    Usare le bacchette al contrario, una pratica nota come sakasa-bashi (逆さ箸) o kaeshi-bashi (返し箸), è considerata una grave violazione dell’etichetta delle bacchette in Giappone. Sakasa significa “inverso” o “sottosopra”, e kaeshi significa “ritorno” o “rovesciare”, quindi questi termini descrivono direttamente l’azione di prelevare il cibo da piatti condivisi usando l’altra estremità delle bacchette. Questo è considerato maleducato perché l’altra estremità è tenuta con le mani, che non sono considerate pulite.

    Anche con le iwai-bashi, usare l’estremità opposta è strettamente proibito. Questo perché, come detto precedentemente, un’estremità delle iwai-bashi è simbolicamente riservata ai kami. Pertanto, quando si serve cibo da un piatto comune, è essenziale usare bacchette da portata separate (toribashi) in aggiunta alle iwai-bashi, mantenendo il rispetto sia per la corretta etichetta sia per la natura sacra delle bacchette celebrative.

    Preparare le iwai-bashi

    Un’usanza prevede di scrivere i nomi di famiglia sugli involucri di carta delle iwai-bashi. Il capofamiglia scrive il proprio nome come “主 (shujin)” (capofamiglia) e i nomi degli altri membri della famiglia. Le bacchette avvolte vengono poi offerte al kamidana (神棚, altare domestico) o vicino al kagami mochi (鏡餅) durante l’Ōmisoka (大みそか), la vigilia di Capodanno. Per gli ospiti, il carattere “上 (ue)” (sopra/superiore) è scritto sull’involucro.

    Rituali post-utilizzo

    Le iwai-bashi sono tradizionalmente considerate usa e getta per motivi igienici. Tuttavia, alcune famiglie possono lavarle accuratamente e riutilizzarle alcune volte. Anche lo smaltimento corretto delle iwai-bashi usate è importante. Tradizionalmente, vengono portate a un festival sagichō (左義長), noto anche come dondo-yaki (どんど焼き) o tondo (とんど) a seconda della regione. Questo festival del falò, che si tiene intorno al 15 gennaio (Piccolo Capodanno), prevede il bruciare le decorazioni di Capodanno, comprese le iwai-bashi, a simboleggiare il ritorno dei kami in cielo attraverso il fumo dei falò.

    Dondo-yaki

    Bruciando questi oggetti, le persone esprimono gratitudine e inviano le benedizioni ricevute durante il periodo di Capodanno. In tempi moderni, se non si può partecipare a un festival sagichō, avvolgere le iwai-bashi usate in carta bianca con un pizzico di sale e smaltirle separatamente dagli altri rifiuti è una rispettosa alternativa.

    Le iwai-bashi sono quindi molto più di semplici utensili da cucina: rappresentano un legame tangibile con le tradizioni culturali e religiose del Giappone, incarnando il rispetto per i kami, l’unità familiare e le speranze di buona fortuna per il nuovo anno.




  • Kazunoko: le uova portafortuna del Capodanno giapponese

    Kazunoko: le uova portafortuna del Capodanno giapponese

    Il kazunoko (数の子), con la sua vibrante tonalità gialla e la consistenza piacevolmente croccante, è un elemento essenziale delle celebrazioni del Capodanno giapponese. Questa prelibatezza salata, spesso gustata con il sakè, è un alimento base dell’osechi ryori, la tradizionale cucina di Capodanno. Ma cos’è esattamente il kazunoko e perché occupa un posto così speciale nella cultura giapponese? Immergiamoci nell’affascinante storia di queste uova dorate.

    Il kazunoko sono uova di aringa, specificamente l’ovario dell’aringa. La sua caratteristica consistenza scoppiettante e il colore giallo lo rendono immediatamente riconoscibile. Le uova vengono tipicamente conservate sotto sale, il che conferisce loro un sapore leggermente salato che si sposa perfettamente con l’atmosfera festosa del Nuovo Anno.

    Foto dell’autore: kazunoko durante pranzo del primo giorno dell’anno

    In giapponese, l’aringa è chiamata “nishin” (鯡). Fatto interessante, questa parola può essere scritta anche con i caratteri 二親 (ni-shin), che letteralmente significano “due genitori”. Questa duplice rappresentazione grafica conferisce al kazunoko un valore simbolico legato alla fertilità e alla prosperità familiare, in particolare all’augurio di una discendenza numerosa. Tale simbolismo riveste un ruolo centrale nelle celebrazioni del Capodanno giapponese.

    Sebbene il Giappone un tempo vantasse abbondanti catture di aringhe, la pesca interna è diminuita notevolmente negli ultimi anni. Oggi, la maggior parte provengono sia dall’Oceano Pacifico che dall’Atlantico. Il kazunoko del Pacifico, in particolare quello proveniente dal Canada, è apprezzato per la sua consistenza soda, mentre il kazunoko atlantico, noto per la sua consistenza più umida, viene spesso utilizzato nei prodotti alimentari trasformati. In Giappone, Hokkaido e Tohoku erano un tempo importanti aree di produzione, sebbene le catture siano ora considerevolmente inferiori, il che rende il kazunoko proveniente da queste zone una prelibatezza.

    La presenza del kazunoko nell’osechi ryori è profondamente radicata nel simbolismo e nella tradizione. Non è solo un piatto gustoso; porta con sé anche profondi auguri per l’anno nuovo.

    La ragione principale per cui kazunoko è incluso nell’osechi è la sua associazione con la fertilità e la prosperità dei discendenti. La pura abbondanza di uova all’interno delle ovaie simboleggia il desiderio di avere molti figli e la continuazione della linea familiare. Questo simbolismo è ulteriormente rafforzato, come spiegato in precedenza, dalla connotazione di “due genitori” della parola “nishin“.

    Oltre alla fertilità, si ritiene anche che il kazunoko scacci gli spiriti maligni all’inizio del Nuovo Anno, assicurando un nuovo inizio e un anno pieno di buona fortuna. Durante le celebrazioni del Capodanno giapponese, è consuetudine includere gli iwai-zakana (祝い肴) come parte dell’osechi ryori. Tre piatti sono designati come iwai-zakana, e il kazunoko è uno di questi. Questi piatti vengono tradizionalmente consumati insieme al toso (お屠蘇), un sakè speziato, con l’intento di scacciare gli spiriti maligni e assicurare buona salute e longevità.

    La più antica testimonianza storica della comparsa del kazunoko in Giappone risale a più di 450 anni fa. Esistono documenti che attestano che il kazunoko fu offerto in dono a Ashikaga Yoshiteru, il tredicesimo shogun dello shogunato Muromachi.

    Verso la fine del periodo Muromachi, si svilupparono i trasporti marittimi nell’ura-nihon, il mare del Giappone, e si dice che il kazunoko entrò a Kyōto attraverso Tsuruga, diventando noto ai cuochi della corte imperiale e dello shogunato. Si ritiene che il kazunoko sia stato introdotto dall’ Hokkaido a Kyōto, inizialmente assieme all’alga konbu, che era il principale prodotto di esportazione dell’ Hokkaido in quel periodo. Assieme all’alga fu introdotto anche il komochi konbu (子持ち昆布), che suscitò interesse per le uova stesse.

    Komochi-konbu


    Poiché le numerose uova all’interno del kazunoko evocano immagini di prosperità familiare e di molti discendenti, iniziò a essere usato come “engimono” (縁起物), ovvero un oggetto di buon auspicio ritenuto portatore di fortuna.

    Successivamente, Tokugawa Yoshimune (noto come “abarenbo shōgun“, lo “shōgun selvaggio”), l’ottavo shōgun del periodo Edo, che promosse la frugalità durante le riforme kyōhō, sostenne l’inclusione del kazunoko nell’osechi ryori, dicendo: “Voglio che sia i ricchi che i poveri mangino lo stesso cibo e festeggino durante il Nuovo Anno”. Questo si crede portò al consumo diffuso del kazunoko.

    Oggi, il kazunoko rimane parte integrante delle celebrazioni del Capodanno giapponese. La sua consistenza unica, il sapore salato e il significato simbolico lo rendono un piatto amato, che incarna gli auguri per un anno prospero e fertile. Quindi, la prossima volta che incontrerete queste uova dorate, ricordate la loro ricca storia e le speranze che rappresentano e godetevi un assaggio veramente autentico della tradizione del Capodanno giapponese.




  • Kagami mochi: lo specchio del nuovo anno e il rituale del kagami biraki

    Kagami mochi: lo specchio del nuovo anno e il rituale del kagami biraki

    Immagina un Capodanno dove al posto di luci sfavillanti, troneggiano semplici tortine di riso, intrise di secoli di tradizione e spiritualità. In Giappone, queste non sono semplici tortine: sono kagami mochi (鏡餅), letteralmente “tortine di riso a specchio”, e rivestono un ruolo speciale nei cuori e nelle case dei giapponesi durante le festività di Capodanno (oshōgatsu お正月).

    Prima di addentrarci nel mondo del kagami mochi, scopriamo cosa sono i mochi (餅). Queste tortine di riso gommose e glutinose sono fatte a partire dal mochigome (糯米), una varietà di riso a chicco corto, bianco opaco e dal contenuto di amido molto elevato. Il riso viene cotto al vapore e poi pestato fino a ottenere un impasto liscio ed estremamente elastico. Il risultato è una delizia appiccicosa e delicatamente dolce, base di molti dolci e piatti giapponesi.

    Il termine kagami mochi (鏡餅) deriva da kagami (鏡), che significa “specchio”. Nell’antichità, gli specchi di bronzo erano considerati oggetti sacri, simboli del divino e della verità. L’aggiunta di mochi (餅), che indica la tortina di riso, crea un’immagine potente: una tortina che riflette la divinità. Questa connessione con lo specchio, che riflette la realtà e l’anima, conferisce al kagami mochi un significato spirituale profondo.

    La tradizione del kagami mochi affonda le radici nel periodo Heian (794-1185 d.C.) e si è evoluta da antichi rituali in onore di divinità e antenati. Era un’offerta votiva al toshigami (年神), il kami del nuovo anno, considerato portatore di buona fortuna, salute e abbondanti raccolti.

    Nello shintoismo, la religione autoctona giapponese, gli yorishiro (依り代) sono oggetti o luoghi che si ritiene attraggano i kami. Sono quindi delle dimore temporanee per gli spiriti. Durante il Capodanno, il toshigami viene accolto nelle case e il kagami mochi funge proprio da yorishiro, un recipiente temporaneo per lo spirito del kami. Ma non solo, il kagami mochi è anche considerato il ricettacolo del mitama (御霊) del toshigami.

    Il termine mitama (御霊) si riferisce all’aspetto spirituale o all’anima di una divinità. È la forza vitale, l’essenza divina che risiede all’interno di un kami. Nel contesto del kagami mochi, si crede che il mitama del toshigami discenda e risieda temporaneamente all’interno del mochi, conferendogli un potere sacro e benedicente. Questo concetto è strettamente legato alla nozione di tamashii (魂, anima), che nella cultura giapponese è considerata l’energia vitale, la forza che anima ogni essere vivente. Anticamente si credeva che, all’inizio dell’anno, la tamashii del kami (神, divinità) venisse condivisa con tutti gli esseri viventi, donando una parte della propria anima per conferire a tutte le creature la forza necessaria per affrontare il nuovo anno.

    Il kagami mochi, quindi, non è solo un contenitore del mitama, ma anche un veicolo attraverso il quale questa energia vitale viene distribuita e condivisa. Offrendo una dimora confortevole al mitama del toshigami, le famiglie sperano di ricevere benedizioni di salute, prosperità e felicità per l’anno nuovo.

    Normalmente, nelle famiglie giapponesi, l’esposizione del kagami mochi avviene una volta terminate le pulizie di fine anno, preparandosi all’arrivo del nuovo anno. È consuetudine evitare di esporlo il 29 dicembre, giorno considerato nefasto. A differenza di altre offerte che si fanno durante l’anno, il kagami mochi non è un semplice ornamento. Essendo considerato uno shintai (神体), un oggetto che incarna una divinità, si crede che al suo interno dimori il toshigami, la divinità del nuovo anno. Per questo motivo, non è consuetudine conservarlo per tutto l’anno o riporlo dopo le feste. Aprendolo durante il kagami biraki, si permette al toshigami di uscire, compiere la sua benedizione sulla famiglia e poi fare ritorno al suo luogo di origine.

    Il kagami mochi non viene semplicemente appoggiato su una superficie qualsiasi; tradizionalmente, viene esposto su un supporto di legno chiamato sanpō (三宝), che letteralmente significa “tre tesori”. Sopra il sanpō viene posto un foglio di carta speciale chiamato shihōbeni (四方紅), letteralmente “rosso quattro lati”. La funzione di questo foglio non è puramente ornamentale, ma ha un significato apotropaico, ovvero serve come augurio e protezione verso l’abitazione contro eventuali incendi. Oltre a questi elementi, il kagami mochi viene spesso ornato con una striscia di alga konbu (昆布) e con una piccola striscia di cachi essiccati.

    Il kagami mochi è composto due mochi rotondi sovrapposti, con quello più piccolo posto sopra quello più grande. Questa struttura apparentemente semplice è ricca di simbolismo:

     I due mochi rappresentano diverse dualità:

    • In e yō (陰陽, Inyō): le forze fondamentali di equilibrio nell’universo, l’equivalente giapponese di yin e yang.
    • Tsuki e taiyō (月と太陽): la Luna e il sole, corpi celesti che rappresentano diversi aspetti della natura e del tempo.
    • Kyonen e kotoshi (去年と今年): l’anno passato e l’anno che verrà, una riflessione sul passato e uno sguardo al futuro.

    Come per alte decorazioni di Capodanno sulla cima del mochi più piccolo si trova una daidai (橙), una tipica arancia giapponese dal gusto amarognolo. Il nome daidai (代々) suona simile alla parola giapponese per “generazioni”, che simboleggia la continuazione della stirpe familiare attraverso le generazioni. Questo frutto infatti raramente cade anche quando maturo, così frutti vecchi e nuovi possono essere visti sullo stesso albero, simboleggiando la continuazione delle generazioni.

    Dopo la visita del toshigami (di solito intorno all’11 gennaio), il kagami mochi viene rimosso e rotto in un rituale chiamato kagami biraki (鏡開き), letteralmente “aprire lo specchio”. È fondamentale notare che il mochi non viene tagliato con un coltello, poiché rappresenterebbe sia il taglio dei legami o la rottura della buona fortuna e un riferimento diretto alla pratica del seppuku. Invece, viene rotto a mano o con un martello di legno (kizuchi 木槌). Questo atto di rottura non è distruttivo, ma piuttosto un’ “apertura” simbolica per condividere il potere e le benedizioni del kami del nuovo anno. Si crede che in questo modo l’anima del toshigami contenuta nel mochi venga liberata e distribuita tra i partecipanti, portando fortuna e prosperità.

    Essendo considerato uno shintai si crede che al suo interno dimori la divinità del nuovo anno e aprendolo si permette a quest’ultima di uscire, compiere la sua benedizione sulla famiglia per poi fare ritorno al suo luogo di origine.

    Nella società dei samurai dei periodi Sengoku ed Edo (circa XV-XIX secolo), esisteva un rituale chiamato gusoku-iwai (具足祝い) o gusoku-biraki (具足開き) in cui il mochi veniva offerto di fronte al kacchū (甲冑), l’armatura e le spade, considerate l’anima del samurai, e poi mangiato dopo il Capodanno. Questo rituale sottolinea ulteriormente il legame del mochi con la forza, la protezione e la buona fortuna.

    La cerimonia del kagami biraki segnava la fine del nuovo anno e l’inizio dei lavori dell’anno nuovo. Si dice che i samurai aprissero i loro forzieri, i mercanti i loro magazzini e i contadini iniziassero l’anno con la semina del riso. Poiché questo rituale ebbe origine all’interno della classe dei samurai, era proibito tagliare questi dolci usando coltelli o altre lame, in quanto il gesto veniva associato al seppuku. La gente iniziò a romperli a mano o con un martello. Fu inoltre deciso di utilizzare la parola biraki (dal verbo hiraku), ovvero aprire piuttosto che la parola waru (割る, rompere) perché si credeva portasse sfortuna.

    Il kagami mochi e il kagami biraki sono più di semplici usanze; sono una finestra sulla ricca cultura e spiritualità giapponese. Ci ricordano l’importanza della famiglia, della tradizione e del legame con il divino. La prossima volta che vedrai queste semplici ma profonde tortine di riso, ricorda la storia che raccontano: una storia di accoglienza, benedizioni e il potere duraturo della tradizione.











  • Kōhaku uta gassen: una tradizione di Capodanno

    Kōhaku uta gassen: una tradizione di Capodanno

    Mentre le ultime ore dell’anno scorrono in Giappone, le famiglie si riuniscono davanti alla televisione, non per il conto alla rovescia di una sfera che scende, ma per un vibrante spettacolo musicale: il kōhaku uta gassen (紅白歌合戦), letteralmente “battaglia di canto rossa e bianca”. Questa tradizione annuale di Capodanno, trasmessa dalla NHK, è stata un punto fermo della cultura giapponese per oltre sette decenni, segnando il passaggio da un anno all’altro con musica, competizione amichevole e un tocco di unità nazionale.

    Il kōhaku è più di un semplice concerto televisivo; è un fenomeno culturale. Il programma mette a confronto due squadre di artisti musicali popolari: la squadra rossa (akagumi, 紅組), tradizionalmente composta da artiste donne, e la squadra bianca (shirogumi, 白組), tradizionalmente composta da artisti uomini. Queste squadre eseguono una selezione delle loro canzoni più popolari dell’anno passato e gli spettatori votano per determinare la squadra vincitrice. Sebbene l’aspetto competitivo aggiunga eccitazione, il kōhaku è in definitiva una celebrazione della musica giapponese e un’esperienza condivisa per le famiglie di tutta la nazione.

    Le radici del kōhaku possono essere fatte risalire a un programma radiofonico, kōhaku ongaku jiai (紅白音楽試合) “competizione musicale rossa e bianca”, trasmesso la notte di Capodanno nel 1945, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. La trasmissione televisiva iniziò nel 1951, diventando rapidamente un’amata tradizione di fine anno. Il nome del programma, “kōhaku“, ha un significativo peso culturale. L’abbinamento di rosso e bianco ha radici profonde nella cultura giapponese, che vanno oltre le semplici combinazioni di colori.

    Il termine “kōhaku” (紅白) è usato in vari contesti, che significano sia divisione che celebrazione. Negli eventi sportivi, “kōhaku-sen” (紅白戦) o “kōhaku-jiai” (紅白試合) si riferisce a partite tra squadre rosse e bianche, proprio come il kōhaku uta gassen stesso. Questa divisione riecheggia la storica Guerra Genpei (1180-1185), dove il clan Taira combatté sotto bandiere rosse e il clan Minamoto sotto bandiere bianche, consolidando l’associazione di questi colori con forze opposte.

    Tuttavia, il termine “kōhaku” porta anche connotazioni di buon auspicio. Il rosso e il bianco sono frequentemente usati insieme in contesti celebrativi, come “kōhaku-maku” (紅白幕) (tende rosse e bianche usate in festival e cerimonie), “kōhaku-manjū” (紅白まんじゅう) (panini al vapore rossi e bianchi serviti durante le celebrazioni) e “mizuhiki no kōhaku-musubi” (水引の紅白結び) (nodi decorativi rossi e bianchi sulla confezione regalo). Nella tradizione shintoista, il rosso è spesso associato all’allontanamento degli spiriti maligni e il bianco alla purezza, rendendo la loro combinazione un simbolo di buona fortuna e purificazione, adatto al passaggio a un nuovo anno.

    Il kōhaku uta gassen si è evoluto nel corso degli anni, adattandosi ai cambiamenti nell’industria musicale e alle tendenze sociali. Sebbene le tradizionali divisioni di squadra basate sul genere siano state un elemento centrale, gli anni recenti hanno visto una maggiore flessibilità, con gruppi misti e performance speciali che trascendono le linee di squadra. Questa evoluzione assicura che il kōhaku rimanga rilevante e continui a risuonare con il pubblico di tutte le età.

    Mentre le famiglie di tutto il Giappone si riuniscono per guardare il kōhaku, partecipano a un’esperienza culturale condivisa, riflettendo sull’anno passato e guardando al futuro, il tutto accompagnato dalla colonna sonora della musica più amata del Giappone. È una testimonianza del potere della musica e della tradizione di unire le persone, rendendo il kōhaku uta gassen un modo davvero speciale per dare il benvenuto al nuovo anno.






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