Ombrelli Rotti

  • Quando la lode è un martello

    Quando la lode è un martello

    Per uno straniero, ricevere un complimento pubblico o essere scelto come esempio di successo di fronte ai colleghi è quasi sempre motivo di orgoglio. Ci si sente riconosciuti, valorizzati. In Giappone, tuttavia, una situazione simile può trasformarsi in un momento di profondo imbarazzo, un’esperienza che un occidetale farebbe fatica a comprendere.

    Il fulcro di questo disagio risiede nel proverbio giapponese che reicita: “Il chiodo che sporge viene martellato”. Essere messi sotto i riflettori, anche per una lode, significa “sporgere” rispetto all’armonia del gruppo. In una cultura che valorizza l’umiltà, lo sforzo collettivo e il non disturbare l’equilibrio della comunità, essere lodati individualmente può essere interpretato in diversi modi, tutti comunque negativi per l’interessato.

    Innanzitutto, la persona lodata può sentirsi in colpa verso i colleghi, come se il successo individuale mettesse in ombra il contributo del team, temendo di suscitare invidia o risentimento. Invece di un “Bravo!”, nella sua testa risuona un “Perché proprio io? Ora gli altri penseranno che mi sente superiore”. In secondo luogo, l’individuo si sente sotto pressione per dover negare o sminuire il complimento in modo socialmente accettabile. Accettare apertamente una lode sarebbe visto come un atto di arroganza insopportabile. La persone di trova quindi costretta a una serie di frasi di circostanza come: “Tondemonai desu – “Niente affatto” o “Minasan no okage desu – “È tutto merito vostro”, sperando che l’attenzione si sposti da lui il più velocemente possibile.

    Uno straniero con le migliori intenzioni, potrebbe insistere nel complimento, pensando di essere incoraggiante. In realtà, sta solo prolungando l’agonia del suo interlocutore giapponese, “martellando” ancora più a fondo quel chiodo che desidera soltanto tornare a livello degli altri. È un silenzioso panico sociale che svolge dietro un sorriso tirato e ripetuti inchini, un’imbarazzante danza culturale che rimane, per la maggior parte degli stranieri, completamente invisibile.

    Riflettere su l’imbarazzo generato da un lode qui in Giappone significa avventurarsi in un paesaggio mentale dove tutte le nostre certezze occidentali sull’io e sul successo personale si dissolvono. Il panico silenzioso, la frenetica ricerca di umiltà, la danza sociale per deviare l’attenzione. Ma per comprendere il perché di questa reazione, bisogna scavare più a fondo, poiché non si tratta di tic della modernità, bensì di un’eco potente che risuona da un passato molto lontano.

    La risposta, come spesso accade quando si parla di cose Giapponesi, non risiede nel presente ma in un sedimento storico, plasmato da necessità pragmatiche prima ancora che da precetti filosofici. Immaginiamo per un istante il Giappone rurale di secoli fa, una nazione la cui sopravvivenza era legata a un’unica, esigente cultura: il riso. La risicoltura non è un’impresa per solitari; richiede un’incredibile e meticolosa cooperazione. Canali di irrigazione, semina, trapianto e raccolto dovevano essere coordinati alla perfezione all’interno del mura, il villaggio. Un singolo individuo che avesse agito per il proprio tornaconto, deviando l’acqua o anticipando i tempi, avrebbe potuto compromettere il sostentamento dell’intera comunità. In questo contesto, l’individualismo non era un’affermazione di libertà, ma una minaccia esistenziale. Il “chiodo che sporge” non era semplicemente anticonformista; era un pericolo per tutti. L’armonia non era un ideale per lo più astratto, ma la condizione necessaria per la sopravvivenza.

    Su questo pragmatismo agricolo si sono poi innestate le grandi correnti spirituali e filosofiche che hanno fornito una cornice morale a questa necessità materiale. Lo shintō, con la sua enfasi sulla purezza e sull’idea di una comunità legata a un luogo sacro, ha sempre considerato l’armonia del gruppo un valore supremo. Romperla significava creare una sorta di kegare, di impurità spirituale. Parallelamente, il buddismo, giunto sul suolo nipponico attraverso Cine e Corea, ha introdotto il concetto di muga, l’anatta, ovvero la vacuità dell’io, l’idea che l’ego e il desiderio di affermazione personale siano la radice di ogni sofferenza. Sminuire se stessi e i propri successi diventa allora non solo una norma sociale, ma anche un esercizio spirituale per trascendere l’illusione dell’ego e raggiungere la liberazione dalla sofferenza. A questa due correnti si è aggiunto in seguito il confucianesimo, che ha cementato una rigida etica sociale basata sulla lealtà, sul rispetto delle gerarchie e sul corretto adempimento del proprio ruolo all’interno della comunità. L’individuo esiste e trova il suo senso solo in relazione agli altri.

    Esiste un aneddoto storico, o meglio un sistema istituzionalizzato, che cristallizza questa mentalità in modo quasi spietato: il sistema dei gonin-gumi (五人組) perfezionato durante lo shogunato Tokugawa (1603-1868). In questo sistema, le famiglie venivano raggruppate in entità di cinque e rese collettivamente responsabili per le azioni, le tasse e il comportamento di ogni singolo membro. Se una persona commette un crimine o infrange una regola, l’intera unità veniva punita. Conformarsi, mimetizzarsi e assicurasi che nessuno “sporgesse” divenne una strategia di sopravvivenza non solo individuale, ma familiare e comunitaria. La pressione sociale non era solo un sentimento, ma una legge dello “Stato”.

    Questo imprinting non è svanito con la fine dello shogunato e l’avvento della modernità. È stato traslato con sorprendente efficacia dal villaggio rurale a molte aziende del XX secolo, dove la lealtà al gruppo e l’enfasi sul team sono diventati pilastri del miracolo economico del Giappone del dopoguerra. L’impiegato che oggi si sente a disagio per una lode, quindi, non sta semplicemente recitando una parte; sta inconsciamente rispondendo a un imperativo culturale forgiato da secoli di risaie, dottrine spirituali e controllo sociale. Quella che per molti stranieri è una semplice parola di incoraggiamento, per lui è una vibrazione che disturba una quiete secolare, un riflettore che lo isola pericolosamente dal rassicurante corpo della collettività. Comprendere questo sottile imbarazzo significa, in fondo, iniziare a comprendere l’anima del Giappone.

  • Il mare prima dei kami

    Il mare prima dei kami

    Questo articolo si lega al precedente “Dove il mare è destino”.

    Sono trascorsi molti anni da quando ho messo piede per la prima volta in Giappone, e in tutto questo tempo credevo di aver compreso il profondo vincolo che lega questo popolo alle sue acque. Lo associavo istintivamente allo Shintō, a una cornice spirituale affascinante e onnipresente. Eppure, solo di recente ho iniziato a interrogarmi più a fondo, a sentire che quella spiegazione, per quanto corretta, non era completa. Mi sono reso conto che ridurre questa relazione ancestrale alla sola fede sarebbe come ammirare la Grande Onda di Hokusai e notare solo la schiuma in superficie, ignorando la massa immensa e la potenza abissale che la genera. Ho capito che lo Shintō non è la causa di questo legame, ma il sublime linguaggio spirituale attraverso cui esso prende voce. La relazione stessa è un tessuto esistenziale molto più antico, i cui fili sono l’ineluttabilità della geografia, la necessità economica, il terrore primordiale e, solo alla fine, la sacralità.

    Il mio primo passo, in questa riflessione, è stato spogliarmi di ogni sovrastruttura per tornare all’evidenza più lampante: il Giappone è un arcipelago, una shima-guni (nazione insulare). Una definizione che per anni ho usato quasi meccanicamente, senza coglierne appieno il peso. Vivere qui significa che nessun punto della nazione dista più di centocinquanta chilometri dalla costa. Il mare non è un’opzione, un panorama da scegliere per le vacanze, ma un vicino costante, a volte ingombrante. È il confine che definisce e la via che chiama. È solo ora che inizio a comprendere come questa prossimità abbia forgiato una mentalità unica, intrisa di un senso di vulnerabilità e, allo stesso tempo, di un splendido isolamento che ha permesso a questa cultura di chiudersi al mondo e di riaprirsi ad esso, sempre e solo attraverso le sue porte d’acqua.

    Vivere così, costantemente abbracciati dal mare, ha installato nell’anima collettiva qualche cosa che ho impiegato anni a decifrare: un ambivalenza profonda, un equilibrio perenne tra la più devota gratitudine e la più atavica paura. Il mare è innanzitutto sostentatore, la fonte della megumi, la benedizione. La dieta stessa è un inno ai suoi doni, che qui chiamano con un’espressione meravigliosa: umi no sachi, i “tesori del mare”. Questi tesori, che includono alghe e molluschi oltre al pesce, hanno garantito per millenni la sopravvivenza in una terra montuosa e avara di suolo. Ma questo stesso mare, ho imparato a mie spese, e anche la più grande minaccia collettiva, kyōi. La parola tsunami è un termine che il Giappone ha tragicamente donato al mondo. La Grande Onda di Kanagawa, che prima vedevo come un’icona estetica, ora la percepisco per quello che forse è: la rappresentazione sublime della fragilità umana. Quei pescatori, rannicchiati nelle loro barche, non sono eroi, ma esseri minuscoli in balia di una forza cosmica e indifferente.

    Ed è qui, in questa fessura tra amore e paura, che ho finalmente capito il ruolo autentico dello Shintō. In quanto fede animista, nata dal paesaggio stesso del Giappone, non ha creato il vincolo con il mare, ma lo ha elevato a sacro, gli ha dato un ordine e una grammatica. Ha offerto gli strumenti per dialogare con l’inconciliabile dualità di megumi e kyōi. Il pantheon si è popolato di divinità marine come watatsumi, che governa gli abissi, e i Sumiyoshi sanjin, protettore dei marinai. Venerare questi kami è diventato il modo per ringraziare i “tesori del mare” e, al contempo, un tentativo disperato di placarne la furia. L’acqua salata stessa è diventata un agente di purificazione, il misogi un rito per lavare le impurità. I maestosi torii che sorgono dall’acqua, come quello immortale di Itsukushima, non sono solo un artificio scenico; ho imparato a vederli come la soglia visibile tra il nostro mondo e un mondo in cui il mare non è sfondo, ma protagonista divino.

    Ma la mia riflessione non poteva fermarsi qui. Se il legame fosse solo religioso, si sarebbe affievolito con il passare del tempo. Invece, la sua eco risuona, potente e trasformata, anche nella cultura moderna. In Mishima, il mare non è più un dio, ma diventa simbolo di un ordine trascendente, di una purezza assoluta e crudele, indifferente alle piccole vicende umane. E rileggendo le parole di un altro straniero che ha amato profondamente questo paese, Donald Richie, ho trovato un’altra conferma: “L’acqua è sempre stata la vera strada maestra del Giappone. È ancora il legame tra le sue parti…Questo senso di connessione attraverso l’acqua e qualcosa che la terraferma non può dare”. Il mare quindi non è ciò che separa le isole che formano il Giappone, ma il tessuto connettivo che le unisce.

    Alla fine, questo viaggio mi ha portato a una conclusione quasi disarmante nella sua semplicità. La relazione tra i giapponesi e il loro mare è una simbiosi nata da una necessità geografica e forgiata nel fuoco di un’eterna contraddizione tra vita e morte. Lo shintoismo offre una grammatica spirituale per articolarla, un vocabolario fatto di riverenza e paura. Ma il legame stesso è più antico e viscerale di qualunque dottrina: è la consapevolezza, che sento ora più vicina, incisa nell’anima di un popolo, di vivere perennemente sull’orlo di un abisso magnifico e terribile.

  • Dove il mare è destino

    Dove il mare è destino

    Nonostante l’enorme volume di lavoro di quest’ultimo periodo, tra nuovi contratti, nuovi progetti e lo studio continuo per non rimanere avvinto dalle pieghe del tempo, ho scelto di concedere a me e alla mia famiglia la quiete di questi giorni a casa. Pur continuando a compulsare documenti da quella che era nata come una gaming room ma si è ormai trasformata nel mio ufficio casalingo, l’atmosfera che si respira è quella di una festività, una pausa nel ritmo sincopato della quotidianità. La ragione di questa tregua risiede in una celebrazione profondamente radicata nell’anima di questa nazione: l’umi no hi, la giornata del mare.

    Questa ricorrenza, che cade il terzo lunedì di luglio, non è un mero pretesto per un fine settimana allungato, bensì un momento di sentita gratitudine verso l’oceano per i suoi doni e un auspicio di prosperità per il Giappone. Per comprendere appieno la portata di tale celebrazione, è necessario spogliarsi della nostra concezione mediterranea del mare, spesso legata alla villeggiatura, al divertimento estivo, a un orizzonte di svago. Qui il mare è vita, nutrimento, via di comunicazione, ma anche forza temibile e indomita. È un’entità con cui il popolo giapponese ha stretto un patto millenario, un legame viscerale che ne ha plasmato la cultura, l’economia e la stessa identità. Essendo il Giappone una nazione insulare, la cui esistenza stessa è intrinsecamente legata alle acque che la cingono, il mare è il fulcro di un retaggio storico e spirituale che pervade ogni aspetto della vita. Io stesso, proveniente da una zona più prossima alle alte vette dolomitiche che alle rive del mare, non ho mai coltivato un simile legame, e forse proprio per questa distanza riesco a cogliere con maggior stupore la profondità della riverenza nipponica.

    Le origini di questa festività ci riportano indietro nel tempo, al 1876. Fu in quell’anno che l’imperatore Meiji, figura cardine della modernizzazione del paese, fece ritorno al porto di Yokohama il 20 Luglio, al termine di un lungo viaggio che lo aveva impegnato nella visita delle regioni settentrionali del Tōhoku e dell’Hokkaidō. L’imbarcazione che lo ricondusse a casa non era una nave qualsiasi, ma la Meiji Maru, un piroscafo di costruzione scozzese che incarnava il progresso tecnologico e la nuova apertura del Giappone al mondo. Quel ritorno divenne il simbolo di un viaggio non solo fisico, ma anche metaforico, verso un futuro prospero guidato dall’innovazione.

    Per commemorare un evento di tale portata simbolica, nel 1941 venne istituita la “Giornata commemorativa del mare”, umi no kinenbi, fissata proprio il 20 luglio. Tuttavia, fu necessario attendere fino al 1996 perché questa giornata assumesse lo status di festa nazionale, specchio di una società in cambiamento, dal 2003 la festività è stata spostata al terzo lunedì del mese di luglio, in accordo con la politica governativa conosciuta come “Happy Monday System”, volta a creare più fine settimana di tre giorni per favorire il riposo e il turismo interno.

    Ed è così, che dalla mia stanza, tra una pila di documenti e l’altra, osservo questa giornata dipanarsi. Il mare poco distante riflette i raggi del sole e credo che sia un’occasione perfetta per riflettere non solo sulla dipendenza di un’intera nazione dall’oceano, ma anche sull’urgenza di preservare l’equilibrio. È un momento in cui il fragore delle onde sembra riecheggiare la storia, la cultura e le speranze di un popolo che, nel mare, ha sempre trovato il proprio destino.

  • Tra cicale e fuochi d’artificio: vivere l’estate giapponese

    Tra cicale e fuochi d’artificio: vivere l’estate giapponese

    Le conversazioni serali sull’arredamento e sulla tipologia di climatizzazione della nostra nuova cassa, un tema ricorrente tra me e mia moglie, ci hanno condotti, non si come, a una riflessione più profonda: quale sia la vera essere dell’estate in Giappone. Contrariamente alla percezione occidentale, dove l’estate sovente si traduce in lunghe interruzioni della routine e nella quiete delle vacanze, qui l’esperienza del periodo estivo è ben più stratificata e complessa. È un mosaico di sensazioni, riti e sinfonie naturali che affonda le proprie radici in un passato remoto e vibrante.

    Per cogliere appieno l’anima dell’estate nipponica, è d’obbligo un’immersione nel tempo in lui la percezione dell’anno era dettata dal calendario lunare. L’estate, o natsu, non era una mera porzione dell’anno, bensì un intervallo cruciale, approssimativamente da maggio a luglio, di vitale importanza per la coltivazione del riso. L’avvento della pioggia, lo tsuyu, che inonda il paese tra giugno e luglio, non era percepito come un inconveniente, bensì come una benedizione celeste, linfa vitale per i campi e garanzia di un raccolto prospero. Questa profonda connessione con la terra, con la crescita rigogliosa e con la gratitudine verso la natura, è un filo ininterrotto che lega il passato al presente.

    Nonostante il passaggio al calendario gregoriano abbia alterato la successione dei mesi, l’anima di questa stagione persiste. Oggi, l’estate è indissolubilmente legata a un calore spesso opprimente e a un’umidità pervasiva, sapientemente descritta dai giapponesi con il termine mushi-atsui. È la stagione del canto assordante e incessante delle cicale, che funge da colonna sonora onnipresente dall’alba al tramonto. Un periodo che mette a dura prova la nostra tempra fisica, tanto da aver generato un’espressione specifica, natsubate, per denotare la spossatezza e la fatica indotte dal rigore estivo.

    Eppure, l’estate giapponese e anche l’attesa febbrile dei fuochi d’artificio, gli hanabi. Lungi dall’essere semplici esibizioni pirotecniche, le hanabi taikai sono sovente eventi grandiosi, vere e proprie competizioni tra maestri artigiani che dipingono il cielo notturno con creazioni effimere di una bellezza mozzafiato. Famiglie, amici, innamorati si radunano lungo le rive dei fiumi o sulle spiagge, stendono un telo e condividono cibi e bevande, con lo sguardo rivolto al cielo, in un silenzio quasi reverenziale, interrotto solo da esclamazioni di meraviglia.

    Il palato estivo è plasmato dai dettami della stagione. Si prediligono spesso piatti rinfrescanti come i sōmen, sottili spaghetti di grano serviti freddi, o l’anguilla (unagi), che secondo la tradizione aiuta a rinvigorire il corpo e a combattere gli effetti del caldo. È il sapore dolce e succoso dell’anguria, spesso consumata in compagnia, magari partecipando al suikawari, un gioco in cui si tenta di rompere il cocomero con un bastone, bendati.

    Vivere l’estate in Giappone significa dunque abbracciare i suoi intrinsechi contrasti. È sopportare un clima difficile, ma trovare immediato sollievo nella maestosità di un fuoco d’artificio che esplode nel cielo. È sentire il peso della fatica fisica ma riscoprire l’energia nella gioia contagiosa di un matsuri di quartiere. È un’esperienza che coinvolge tutti i sensi: il ronzio persistente delle cicale, l’aroma sacro dell’incenso durante l’obon, il sapore rinfrescante di un granita, la visione incantevole di una lanterna di carta che si illumina al crepuscolo. Non è una semplice pausa della vita quotidiana, bensì un periodo in cui la vita stessa si manifesta con un’intensità maggiore, legando indissolubilmente il presente a un passato che non cessa mai di permeare ogni istante.

  • Il gracchiare degli dei

    Il gracchiare degli dei

    Nel cielo del Sol Levante, un’ombra nera danza instancabile, un ritornello visivo che accompagna l’alba e il tramonto. È il corvo, l’onnipresente signore dei cieli urbani, un sovrano pennuto che osserva dall’alto le nostre vite indaffarate con un’intelligenza che a tratti inquieta, a tratti affascina. Non si può sfuggire al suo richiamo roco, “ka-ka-” che è divenuto la colonna sonora non ufficiale delle metropoli giapponesi, un suono così familiare da confondersi con il brusio del traffico e le melodie delle stazioni dei treni.

    Questo volatile, vestito di un piumaggio che ruba la luce, è un maestro di adattamento, un genio incompreso del mondo animale. Lo si osserva con un misto di ammirazione e fastidio mentre risolve complessi problemi per procurarsi il cibo. Lo si vede far cadere noci sulle strisce pedonali, attendendo pazientemente che il semaforo diventi verde e le auto, ignare complici, le schiaccino per lui. Un’astuzia che strappa un sorriso, se non fosse che la sua ingegnosità si applica con la medesima perizia a un’altra, meno nobile, attività.

    Ed è qui che l’ammirazione cede il passo all’esasperazione, trasformando il nostro astuto corvo in un vera e propria piaga sociale. All’alba, prima ancora che la città si desti del tutto, orde di questi becchi affilati si avventano sui punti di raccolta dei rifiuti. Con una precisione chirurgica, lacerano i sacchetti, spargendo in un tripudio di caos i resti della nostra opulenza. L’immondizia, meticolosamente separata la sera prima, diventa un banchetto a cielo aperto, un mosaico desolante di avanzi e confezioni sparse sul selciato. E così, quasi ogni mattina, si rinnova la silenziosa battaglia tra cittadini armati di reti protettive e i corvi, imperterriti e sempre un passo avanti.

    Eppure in questo paese che oggi lo combatte a colpi di reti e dissuasori, il corvo non è sempre stato un paria. È un animale profondamente ambivalente, un essere che cammina sul filo sottile che separa il sacro dal profano. Se da un lato è considerato un “kami no tsukai”, un messaggero divino, dall’altro la sua ombra si allunga su aspetti più oscuri, legandosi a volte all’idea di maledizione. Basta scalfire la superficie del quotidiano per scoprire un’anima antica, un rispetto ancestrale che affonda le radici nella notte dei tempi. Se si lascia la giungla d’asfalto e ci si addentra nel silenzio ovattato di un santuario shintoista, l’immagine del corvo trasfigura.

    Qui, esso abbandona le sue spoglie di razziatore di rifiuti seriale per indossare quelle sacre dello yatagarasu, il corvo a tre zampe, guida celeste e araldo divino. La leggenda narra che fu proprio questo essere mitologico, inviato dalla dea del sole Amaterasu, a guidare il primo imperatore del Giappone, Jimmu, attraverso le impervie montagne, assicurando la fondazione di una nazione. Le sue tre zampe, si dice, rappresentano il cielo, la terra e l’umanità, un simbolo potente di unione e armonia.

    Questa dualità si riflette in usanza popolari quasi sussurrate, come i karasu kanjō (烏勧請), antichi rituali in cui l’uomo cerca di ingraziarsi questa creatura ambigua. Si offrono piccoli doni, come mochi o dango, non per scacciarla, ma per invitarla, per pregarla di farsi tramite con il divino, come suggerisce lo stesso termine kanjō. Si credeva, e in alcune comunità rurali si crede ancora, che dal modo in cui il corvo becca l’offerta si possano trarre presagi, decifrare il futuro, propiziarsi la fortuna. Un gesto di pace, un tentativo di dialogo con l’uccello che è tanto detestato quanto venerato.

    Purtroppo, come molte tradizioni che richiedono tempo e silenzio, anche i karasu kanjō stanno lentamente scomparendo, inghiottiti dalla fretta del mondo moderno. Sopravvivono tenacemente nelle campagne, ultimo baluardo di un passato ricco di significato, un legame con un tempo in cui l’uomo sapeva ancora ascoltare la voce degli dei attraverso il gracchiare di un corvo.

    E così, il Giappone, vive questa sua curiosa dicotomia. Alza gli occhi al cielo con un sospiro di rassegnazione nel vedere l’ennesimo stormo dirigersi verso i cassonetti, ma poi si inchina con riverenza davanti a un’immagine dello stesso uccello incisa su un amuleto. Un ladro sfacciato e un messaggero divino, un fastidio quotidiano e un oracolo alato. In questa duplice natura, forse, risiede il vero fascino del corvo giapponese: un promemoria costante che la bellezza e la seccatura, il sacro e il profano, spesso volano con le stesse ali.

  • Le nozze delle tenebre

    Le nozze delle tenebre

    Nelle pieghe più recondite della tradizione giapponese, lontano dal clamore delle metropoli, sopravvivono usanze che risuonano come echi di un tempo antico, sussurri di fede nati dal più profondo dei terrori.Tra queste, forse nessuna è così straziante e solenne come il meikon (冥婚), il “matrimonio delle tenebre”. Non è una tradizione per le masse, ma un rito intimo e raro, custodito nel cuore di alcune comunità, un estremo atto d’amore che fiorisce dove le dottrine ufficiali del buddismo e dello shintoismo lasciano spazio al silenzio. È un cerimoniale per offrire le nozze a chi la vita ha strappato via prima che potesse conoscere l’unione con un’altra persona.

    Per discendere i meandri di questa pratica, occorre prima soffermarsi su un oggetto umile e onnipresente nei luoghi sacri del Giappone: le tavolette ema (絵馬). Appese in rastrelliere silenziose di speranze, queste piccole tavolette di legno sono il veicolo di preghiere e desideri. Il loro nome, “immagine di cavallo”, ci riporta a un’epoca in cui i nobili destrieri, considerati messaggeri divini, venivano offerti ai santuari per guadagnare il favore dei kami. Con il tempo, il cavallo in carne e ossa, dono per pochi, lasciò lo spazio alla sua effige, evolvendosi infine in queste tavolette su cui chiunque può incidere una speranza da affidare al cielo.

    Ma cosa accade quando la preghiera non è più per una gioia futura, ma per chiudere una ferita insanabile del passato? È qui che il sentiero si fa più oscuro, conducendo nel mondo del meikon. Una morte prematura, prima del matrimonio, è come una lacerazione nell’ordine cosmico. Si annida la terribile credenza che l’anima del defunto, privata del compimento coniugale e della promessa di una discendenza, sia condannata a un’eterna irrequietezza. Questi spiriti, frustati e incompleti, diventano muenbotoke (無縁仏), “anime senza legami”, spettri freddi e soli, incapaci di trovare pace e il cui tormento si crede, possa angosciare anche il mondo dei vivi. Il meikon nasce da questo terrore, dal peso insopportabile di immaginare il proprio figlio vagare nel gelo dell’aldilà. È un rito per offrire, oltre la soglia della morte, quella felicità negata, affidandosi non a spoglie mortali, ma alla potenza evocativa di simboli carichi d’amore.

    Nella prefettura di Yamagata, questo gesto assume la forma del mukasari ema. “Mukasari”, nel dialetto locale, significa proprio “matrimonio”. Le famiglie spezzate dal lutto commissionano una tavoletta ema che non chiede, ma dona. Su di essa non si scrive un desiderio, ma si dipinge un sogno; la scena nuziale del proprio caro, un passato che non è mai stato. L’immagine, spesso dai colori vivaci quasi a voler sfidare il buio della morte, ritrae il defunto in abiti da cerimonia accanto a un consorte immaginario, sereno e finalmente completo. Una regola sacra e inviolabile preserva il confine tra i mondi: la sposa o lo sposo dipinto sull’ema non può mai essere una persona viva.

    Questo dipinto è più di un omaggio; è un kūyō, un servizio commemorativo, disperato e potentissimo. La storia di una donna di Shizuoka ne trasmette la forza. Tormentata da un’inquietudine che non le dava pace dopo la morte improvvisa del fratello diciottenne, una notte lo sognò. La sua voce era un lamento freddo: “Voglio andare in un luogo più luminoso. Qui fa freddo. Il rito non è stato svolto nel modo adeguato”. Stremata dal dolore, la donna scoprì i mukasari ema e, tramite il tempio Wakamatsu, fece dipingere il fratello sorridente, accanto a una sposa radiosa. Dopo la consacrazione della tavoletta, il fratello le apparve un’ultima volta in sogno: non più un’anima gelida, ma il ragazzo che era, che la ringraziò con un sorriso prima di offrirle un congedo sereno e svanire nella pace.

    Risalendo ancora più a nord, nella prefettura di Aomori, il peso del lutto si manifesta nelle hanayome ningyō (花嫁人形), il “rituale della bambola sposa”. Anche questa usanza nacque dall’eco di un dolore collettivo, quello dei genitori che avevano perso i figli sui campi di battaglia. Una coppia, annientata dal dolore, si rivolse a una miko, una sciamana, per udire una parola dal figlio caduto. Il messaggio che giunse nell’oltretomba fu un sussurro che squarciò il loro cuore: “Avrei voluto sposarmi” (kekkon-shitakatta). In risposta a quel desiderio non esaudito, la madre fece creare una bambola vestita da sposa e la consacrò alla memoria del figlio. Oggi, in una sala del tempio Kōbōji, un silenzioso gruppo di quasi mille bambole testimonia questo rito. Per un uomo, si pone una bambola sposa accanto alla sua fotografia; per una donna, un’effige maschile in abiti scuri prende il posto della sua immagine. A volte, il dolore e l’amore dei genitori sono così grandi da spingere ad aggiungere una bambola di un bambino, nel tentativo di costruire per il proprio caro un’intera famiglia felice nell’eternità.

    Sia i dipinti di Yamagata che le bambole di Aomori sono rituali nati da una tragedia, me perpetrati da un bisogno umano universale e fortemente radicato in Giappone: quello di prendersi cura dei propri amati oltre ogni confine.

    Rappresentano un ponte fragile, costruito con le lacrime e la devozione dei sopravvissuti, un modo per completare una vita spezzata, alleviando il proprio fardello e offrendo, con un ultimo, tenerissimo gesto, la pace. In questi atti intimi e potenti, il velo tra il visibile e l’invisibile di assottiglia, e ci ricorda che, anche quando il corpo svanisce, l’anima, e l’amore che la circonda, continuano a vibrare nell’infinito.

  • Dove riposano i morti senza pace

    Dove riposano i morti senza pace

    Il fragore dell’acqua che tutto inghiotte non fa distinzioni. Non si arresta davanti alle case dei vivi, né alle dimore silenziose dei morti. È un’onda nera che cancella la memoria, strappando le fotografie dagli album e i nomi dalla lapidi con la stessa indifferente ferocia. Quando, l’11 marzo 2011, il grande tsunami del Tōhoku si è ritirato, ha lasciato dietro di sé un paesaggio di annientamento che andava ben oltre la rovina materiale. Ha spalancato un abisso non solo nelle vite di chi è sopravvissuto, ma anche nell’ordine sacro del mondo degli spiriti, gettando nel caos il delicato equilibrio tra chi cammina sulla terra e chi vi riposa.

    In occidente, il nostro sguardo si ferma spesso sulla conta dei corpi, al dolore tangibile di chi ha perso un figlio, un coniuge, un genitore o la famiglia intera. La nostra empatia si concentra sulla tragedia dei vivi. Ma in Giappone quella tragedia si è sdoppiata, riflessa in uno specchio invisibile, ma non meno reale: il mondo dei defunti. L’acqua ha spazzato via migliaia di tombe di famiglia, le haka, piccoli monumenti di pietra che per generazioni avevano custodito le ceneri degli antenati, fungendo da ponte tra passato e presente. Interi cimiteri, affacciati lungo le coste colpite dallo tsunami, luoghi di pace e preghiera, sono stati profanati, le loro lapidi divelte e trascinate via come fuscelli, disperdendo le ceneri e cancellando l’identità fisica dell’eterno riposo. Per i sopravvissuti, per i vivi, ciò non ha significato solo perdere un luogo di commemorazione, ma subire la recisione di un legame vitale, la violazione di un dovere filiale che si estende dopo la morte. Come onorare gli antenati, se il loro santuario è stato distrutto? Come parlare con loro, se il punto di contatto e stato inghiottito dal fango?

    A questo si aggiunge l’angoscia più profonda, quella che non trova pace, quella per le anime che vagano senza un corpo. Migliaia di persone sono state dichiarate disperse, mai restituite dalle acque. Per la sensibilità buddista giapponese, questa è una ferita insanabile. Un defunto, per trovare la pace e iniziare il suo viaggio nell’aldilà, necessità di riti precisi: il suo corpo deve essere ritrovato, cremato, e le sue ceneri raccolte con devozione e poste nell’urna funeraria, all’interno della tomba di famiglia. I suoi cari devono poter pregare per lui bruciando l’incenso davanti al butsudan, l’altare domestico, scandendo il nome postumo. Ma come si può pregare per un ombra? Come si può onorare chi non ha un tomba, chi è rimasto prigioniero del mare? Questa assenza non è un vuoto, ma una presenza costante e dolorosa. È uno scompiglio che tormenta i sogni di chi resta, un senso di colpa che attanaglia il cuore: il fallimento nel compiere l’ultimo, fondamentale atto d’amore e di rispetto. I vivi si sentono responsabili per l’inquietudine dei loro morti, immaginandoli persi, confusi, incapaci di attraversare il ponte verso la Terra Pura.

    In questo paesaggio di desolazione fisica e spirituale, sono nate storie di una tenacia straziante, di una devozione che sfida la disperazione. Uomini e donne che per anni hanno continuato a cercare, a camminare lungo spiagge devastate, a setacciare i detriti, aggrappati alla speranza di trovare un frammento, un resto, qualcosa che potesse dare un nome a un’assenza e un luogo alla memoria. Come Takamatsu Yasuo, un uomo che, dopo aver perso la moglie nello tsunami, ha imparato a fare immersioni subacquee. Ogni settimana, per anni, si è immerso nelle acque gelide al largo della costa di Onagawa, cercando il suo corpo. Non cercava la morte, ma un modo per far continuare la vita, quella spirituale di sua moglie. “Sento che potrebbe essere da qualche parte qui vicino”, diceva con una calma carica di dolore. La sua ricerca non era solo un atto personale, ma il simbolo della lotta di un’intera comunità contro l’oblio imposto dalla catastrofe. Era il tentativo di restituire un ordine al caos, di compiere un rito funebre che la natura gli aveva negato.

    In questo abisso, la religione buddista non ha offerto risposte semplici, ma ha fornito strumenti per convivere con un dolore incommensurabile. I monaci buddisti sono diventati figure centrali, non solo come guide spirituali, ma come operatori di un primo soccorso dell’anima. Hanno camminato tra le rovine, ascoltato storie di perdita senza fine, e hanno adattato spesso riti secolari a una tragedia senza precedenti. Sono stata organizzate cerimonie collettive per i “dispersi”, riti funebri senza un corpo presente, dove le preghiere non erano rivolte a un singolo defunto in una bara, ma a migliaia di anime perdute nel mare. Hanno insegnato che, anche in assenza di un corpo, la memoria e l’intenzione del cuore potevano creare un ponte. Hanno consacrato nuovi spazi, eretto monumenti comuni dove i nomi dei dispersi sono incisi sulla pietra, offrendo ai sopravvissuti un luogo fisico dove dirigere il loro lutto, le loro preghiere, le loro lacrime. Hanno aiutato le persone a capire che il legame con i defunti non risiede esclusivamente nelle ceneri o nelle pietra tombale, ma nell’amore incrollabile di chi ricorda.

    La catastrofe del Tōhoku ci ha insegnato che quando la terra trema e il mare si solleva, non distrugge solo il presente, ma minaccia di cancellare anche il passato e di ipotecare il futuro spirituale. Ha mostrato al mondo intero la profondità di una cultura in cui i morti non sono relegati in un lontano passato, ma continuano a vivere accanto ai loro discendenti, in un dialogo silenzioso e costante. I sopravvissuti, con la loro disperata e dignitosa ricerca, con la loro fede tenace, non hanno cercato solo di ricomporre le proprie vite. Hanno combattuto una battaglia più grande: quella di ricomporre il mondo invisibile, per dare la pace ai loro cari e per riaffermare che nemmeno la furia più devastante del mare può spezzare il filo sacro che unisce il mondo dei vivi da quello dei morti.

  • Quella notte appesa alla Via Lattea

    Quella notte appesa alla Via Lattea

    Oggi è il sette luglio. Guardo fuori dalla finestra del mio ufficio, qui a Sasebo, e il cielo è carico di quella classica umidità estiva che conosco fin troppo bene. È una giornata che per molti scorre via come tante, ma non per me. Non oggi. Oggi e il settimo giorno del settimo mese del settimo anno dell’era Reiwa (令和七年七月七日) qui in giappone. Un triplo sette, il lucky seven. E io sono una persona che di carattere non ho mai creduto troppo alle coincidenze.

    La mente torna indietro, a un altro tanabata, non molto tempo fa. Ricordo il fruscio leggero dei rami di bambù carichi di desideri. Io e quella che oggi e mia moglie, in mezzo alla folla festosa, con in mano le nostre striscioline di carta colorata, i tanzaku li chiamano qui in Giappone. C’era un’energia nell’aria, una speranza palpabile che saliva verso il cielo notturno.Tutti scrivevano i loro sogni più intimi, affidandoli a un’antica promessa.

    La promessa di Orihime e Hikoboshi. La principessa tessitrice e il mandriano, separati dalla Via Lattea, a cui era concesso di incontrarsi solo in questa notte. Ho sempre pensato che fosse una storia romantica quanto crudele, ma quella sera ho capito. La loro attesa carica queste notte di una magia speciale, la convinzione che se due stelle possono attraversare un fiume celeste per amore, forse anche i nostri desideri possono trovare una strada per diventare realtà.

    Abbiamo scelto con cura la nostra striscia di carta. Non ricordo bene il colore, ma credo fosse gialla. Ricordo solo le nostre mani unite mentre scrivevano poche, semplici parole. Un desiderio che sembrava, quasi impossibile, ma che in quel momento, appeso a quel ramo di bambù, sembrava un po più vicino, un po più vero.

    In Giappone dicono che il numero sette è un numero fortunato. Non è solo un modo di dire. Lo vedi ovunque. Pensi alle Sette Divinità della fortuna, gli Shichifukujin, che solcano i mari sulla loro nave del tesoro portando prosperità. Pensi alle sette erbe di gennaio o ai riti di passaggio dei bambini. È un numero che porta con sé un’eco di benevolenza, di cose buone che devono accadere. E quel giorno era il sette di luglio. Un doppio sette. Chissà, forse quelle divinità sorridenti stavano passando proprio da quelle parti, sbirciando tra i rami di bambù.

    Il tempo è passato. La vita è andata avanti, con i suoi alti e suoi bassi, e quel desiderio scritto sul tanzaku era diventato un ricordo dolce e un po ‘sbiadito di una calda notte di luglio.

    E poi è successo. È successo davvero.

    Il nostro desiderio si è avverato. Non con fuochi d’artificio o annunci celestiali, ma con la quiete e la meravigliosa concretezza della realtà. È entrato nelle nostre vite in punta di piedi, e un giorno ci siamo guardati e abbiamo capito. Quel sogno, affidato a una stella lontana in una notte d’estate, era lì con noi.

    Oggi, in questo giorno speciale, un sette che si ripete tre volte, non posso fare a meno di sorridere. Sento un senso di gratitudine così profondo da togliere il fiato. Non so se sia stata la magia di Orihime e HIkoboshi, la benevolenza delle Sette Divinità della Fortuna o semplicemente l’aver creduto in qualcosa con tutto il cuore, assieme alla persona che amo. Forse è stato un po ‘di tutto questo.

    Quello che so è che una semplice tradizione, un pezzo di carta colorato legato a un ramo, è diventato per noi il simbolo tangibile che i sogni, a volte, trovano davvero la loro strada. E che il numero sette, per me (sono nato il sette marzo), non sarà mai più solo un numero. Sarà sempre il suono di un desiderio che si avvera.

  • O-chūgen: il filo invisibile della gratitudine giapponese

    O-chūgen: il filo invisibile della gratitudine giapponese

    In ufficio, in questi primi giorni di luglio, si respira un’aria frizzante e quasi febbrile, un’agitazione che non ha nulla a che vedere con le solite scadenze di fine mese. Sulle nostre scrivanie sono comparsi eleganti cataloghi patinati contenenti foto di confezioni di birra pregiata, gelatine colorate e cesti di frutta così perfetti da sembrare finti. Per me, straniero in questa complessa e affascinante realtà aziendale giapponese, è arrivato di nuovo quel momento dell’anno: il tempo degli o-chūgen. E quest’anno più degli altri tocca di nuovo anche a me, con una lista di clienti tra le mani, inoltrarsi nuovamente in questo rito sociale che è tanto radicato quanto, per un occidentale, inizialmente enigmatico.

    Mentre sfoglio le pagine, cercando il regalo giusto che esprima gratitudine senza essere eccessivo, la mia mente vaga. Non posso fare a meno di pensare a quanto sia profonda la storia dietro questo semplice gesto di donare una scatola di dolci o un set di olio da cucina. Non è un’invenzione del marketing moderno, né una semplice cortesia aziendale. È l’eco lontana di storie antiche, un filo che lega il mio gesto di oggi a credenze millenarie.

    Il viaggio degli o-chūgen comincia in un tempo il cui il sacro e il profano danzavano insieme, in una Cina permeata di taoismo. Il nome stesso, chūgen (中元), significa letteralmente “origine di mezzo”, e si riferisce a una delle tre festività taoiste principali. Il quindicesimo giorno del settimo mese del calendario lunare era il momento per pregare la divinità della terra che si credeva avesse il potere di perdonare i peccati degli uomini. In questo giorno, si facevano offerte per chiedere perdono e benedizioni. Era un momento solenne di espiazione e gratitudine verso le forze che governano il mondo.

    Quando queste credenza viaggiarono fino in Giappone, trovarono un terreno fertile e si fusero con una tradizione buddista già esistente e potentissima: l’Obon, la festa per onorare gli spiriti degli antenati. Il periodo coincideva, e così il concetto di offerta di espansione. Non si faceva più solo l’offerta per chiedere il perdono divino, ma anche agli altari di famiglia, le kyōshoku, per accogliere le anime dei propri cari di ritorno per qualche giorno nel mondo dei vivi. Queste offerte, che consistevano in cibi e bevande, dopo essere state presentate agli spiriti, venivano consumate e condivise tra i membri della famiglia e con i vicini. Il gesto si stava già trasformando: da atto puramente religioso a pratica comunitaria, un modo per rafforzare i legami attraverso la condivisione e la gratitudine.

    Furono proprio i mercanti, con il loro acuto intuito, a trasformare questa tradizione. Iniziarono ad inviare doni ai loro clienti più importanti durante il periodo estivo, sovrapponendo un’astuta pratica commerciale al profondo significato di gratitudine dell’ Obon. Il loro messaggio era chiaro: “grazie per gli affari conclusi nella prima metà dell’anno, continuiamo a prosperare insieme”. La coincidenza temporale tra le offerte religiose e questa nuova usanza commerciale fu così forte che le due pratiche si fusero. Lentamente, la parola stessa – chūgen – si spogliò del suo significato puramente calendariale per vestire quello dell’atto stesso del donare.

    Tuttavia, la vera espansione dell’ochūgen come consuetudine nazionale avvenne con l’era Meiji (1869-1912). La modernizzazione del Giappone agì da catalizzatore: la popolazione si concentrò nelle grandi città, allargando a dismisura le cerchie sociali, e l’industrializzazione permetteva per la prima volta la commercializzazione di massa dei regali. L’impatto decisivo venne però dai grandi magazzini, sorti uno dopo l’altro nel boom economico seguito alle guerre sino-giapponese e russo-giapponese. Con le loro imponenti campagne pubblicitarie su giornali e riviste, non solo vendettero prodotti e shōhin-kitte (gli antenati dei buoni regalo), ma radicarono il gesto nella cultura urbana.

    In una società che abbandona le certezze del villaggio per l’anonimato della città, le antiche regole sociali non bastavano più. La gente aveva perso i propri punti di riferimento su cosa fosse appropriato fare. I grandi magazzini colmarono questo vuoto, diventando una sorta di arbitri del buon gusto, le cui proposte funzionavano come guida sicura su cosa, come e a chi donare. Fu così che il gesto su consolidò in un’etichetta sociale indispensabile, un modo per mantenere buone relazioni non solo negli affari, ma anche nella vita privata, esprimendo riconoscenza verso maestri, medici o chiunque ci avesse aiutato in un momento di difficoltà.

    Ed eccomi qui, secoli dopo, un impiegato straniero in un Giappone moderno, che partecipa allo stesso identico rituale. La scelta del regalo è carica di significati. Una confezione di sōmen, i sottili spaghetti di grano da mangiare freddi, non è solo cibo, ma un augurio di freschezza durante la calda e umida estate giapponese. Una confezione di birra è un invito alla convivialità da condividere con la famiglia o i colleghi. Ogni articolo nel catalogo è pensato per essere pratico, di qualità e condivisibile, un’eco diretta di quelle antiche offerte che venivano distribuite nella comunità.

    Domani andrò dal mio primo cliente della lista. Avrò con me un pacco elegante avvolto, con la tradizionale carta noshi che indica un dono formale. E mentre porgerò quel pacco con un leggero inchino, non starò semplicemente consegnando un prodotto. Sarò l’ultimo anello di una catena secolare, un messaggero che porta con sé un sentimento di antica gratitudine, nato da miti taoisti e riti buddisti e levigato dall’uso sociale di generazioni di mercanti e gente comune. In quel momento, il gesto cesserà di essere un dovere lavorativo e diventerà una piccola, personale comprensione di cosa significhi davvero far parte di questa cultura: mantenere l’armonia, onorare i legami e non dare mai nulla per scontato.

  • L’anima del Giappone in una notte di festa

    L’anima del Giappone in una notte di festa

    Immagina di camminare per le strade ordinate di una città giapponese, dove ogni gesto sembra misurato. Poi un giorno, l’aria cambia. Si sente un’eco profonda, un rimbombo che non viene dagli altoparlanti di un negozio, ma dal cuore pulsante di un taiko. Le lanterne di carta rossa si accendono lunghe le vie rubando la scena alle insegne dei negozi, e l’ordine lascia spazio a un’energia vibrante e gioiosa. Questo è l’inizio di un matsuri, un festival giapponese, un evento che è molto più di una semplice festa. È l’anima di una comunità che si risveglia. Per capire un matsuri, non bisogna pensare al carnevale o a una fiera di paese, ma a un filo invisibile che lega il Giappone tecnologico di oggi a un passato ancestrale fatto di risaie, spiriti della natura e gratitudine.

    Ogni matsuri nasce da una preghiera. Centinaia, a volte migliaia di anni fa, la vita dipendeva dal ritmo della terra. Si pregavano i kami, gli spiriti shintoisti che abitano in ogni albero, fiume e montagna, per chiedere un buon raccolto di riso, per ringraziare per la pioggia o per allontanare malattie e catastrofi. Il matsuri era questo: un dialogo diretto e collettivo con le forze della natura. Era un modo per dire “grazie”, “per favore, proteggici”. Ancora oggi, quando vedi un mikoshi ondeggiare pesantemente sulle spalle di dozzine di uomini e donne che sudano e urlano all’unisono “wasshoi! wasshoi!”, non stai guardando solo una sfilata mai stai assistendo al trasporto dello spirito divino attraverso il quartiere, un modo per benedire le case, i negozi e le persone. Il peso sulle spalle di quelle persone è il peso simbolico della comunità stessa, un fardello sacro che portano tutti assieme con orgoglio e fatica.

    E mentre il sacro sfila tra la folla, il profano lo celebra in un tripudio di sensi. L’aria umida della sera si riempie del profumo dolce e salato del cibo della bancarelle: spiedini di carne grigliata, polpette di polpo fumanti, soba saltati sulle piastre. Bambini in leggeri yukata corrono con in mano una mela caramellata, cercando di pescare pesciolini rossi con retini di carta fragilissimi. È in questo momento che vedi la fusione perfetta tra antico e moderno. Un ragazzo si sistema lo yukata mentre controlla lo smartphone, una bambina indossa una maschera di un personaggio dell’anime del momento accanto ad una maschera folkloristica. Il matsuri non è una rievocazione storica; è una tradizione viva, che respira e si adatta, accogliendo il presente senza mai dimenticare il passato.

    Forse, per un occidentale che assiste ad un matsuri, il significato più profondo è questo: il matsuri è il momento culminante in cui il “noi” prevale sull’ “io”. In una società spesso percepita come formale e dai contatti limitati, il festival è un’esplosione di gioia. È il vicino di casa che magari non saluti mai che ora solleva il mikoshi accanto a te. È il legame non scritto tra le generazioni, con i nonni che insegnano ai nipoti canti e ritmi tramandati negli anni. È il battito del cuore di un quartiere, un suono che ricorda a tutti che, nonostante i grattacieli e i treni proiettile, le radici sono ancora li, forti e profonde, nutrite dalla festa, dalle risate e dalla preghiera condivisa. È la prova che, almeno per qualche giorno, si può ancora fermare il tempo per onorare gli spiriti, la comunita e la semplice meravigliosa gioia di stare assieme.

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