Ah, il water giapponese. Per la maggior parte dei turisti che si recano qui in vacanza, è un universo di meraviglia, confusione e, ammettiamolo, un pizzico di timore reverenziale. Ti accomodi, la tavoletta è piacevolmente calda (pura beatitudine!), e ti ritrovi davanti a una plancia di comando che farebbe invidia allo Star Destroyers. Pulsanti per lavare, asciugare, oscillare….e che diamine combina quel tasto con la nota musicale?! (Tranquilli, ci arriviamo!)
Ma mentre ci spelliamo le dita delle mani per queste meraviglie hi-tech, sapevate che il percorso per arrivare fin qui è stato a dir poco rocambolesco? Dimenticate le noiose lezioni di storia: quella del wc giapponese e un’avventura costellata di invenzioni geniali, igiene talvolta discutibile e persino astuzie da campo di battaglia!
Riavvolgiamo il nastro. Molto, molto tempo fa, nell’antico Giappone, le cose erano….beh, basilari. Del tipo: trova un cespuglio o un fiume e via, senza troppi problemi. Inventarono il “kawa-ya” (川屋), praticamente una semplice struttura di legno, a volte composta solamente da un asse, sospesa sopra un fiume. Smaltimento dei rifiuti eco-sostenibile, diremmo oggi? Speriamo solo che nessuno si lavasse più a valle. Durante il periodo Nara si diffuse la voce che in Cina i maiali venissero usati come – ehm – riciclatori organici, ma il Giappone, declino altezzosamente: “Nah, i maiali non fanno per noi”. Così, per un bel pezzo, se non c’era un fiume nelle vicinanze, si faceva dove capitava….e basta.
Balzo in avanti nell’elegante periodo Heian. Mentre i nobili se la spassavano con lussuosi gabinetti provvisti di scarico (che altro non era che un rigolo d’acqua deviato dal canale vicino per poi farvi ritorno), la plebe era ancora…all’aria aperta. Pare che Heian-kyō, l’allora capitale, emanasse un olezzo degno di un vespasiano durante la canicola estiva. E come ci si puliva all’epoca? Con una “kuso-bera”, letteralmente un “bastone per la pupù”. Avete capito bene, una semplice spatola di legno. Meditateci sopra un istante. Di colpo, quei mille pulsati enigmatici dei wc moderni non vi sembrano poi così male, vero?
Poi, SBAM! Arriva il periodo Sengoku – il periodo degli stati combattenti! Uno penserebbe che l’igiene fosse l’ultima delle preoccupazioni. E invece no! È qui che la faccenda si rivela sorprendentemente sofisticata. Capirono che i rifiuti umani potevano essere un fertilizzante strepitoso – “oro marrone”, se preferite! Iniziarono a compostarli per eliminare i parassiti e migliorare i raccolti. Le latrine a fossa, le “potton benjo” (ポットン便所) presero piede, non solo per la loro comodità, ma per raccogliere quella preziosissima risorsa. I daimyō, astuti, arrivarono a costruire latrine con l’apertura verso l’esterno, per non farsi sorprendere…ehm… con le braghe calate! E sul campo di battaglia? I guerrieri indossavano i classici pantaloni hakama ma con uno spacco strategico all’altezza del cavallo, per rapide….manovre tattiche. La necessità aguzza l’ingegno, persino quando si tratta delle pause bagno mentre si è sotto assedio.
Finalmente, giunge il “pacifico” periodo Edo. E con esso, udite udite, esplode la tecnologia dei sanitari! Pensate che lo shōgun in persona disponeva di un “goyōsho” (御用所), un “gabinetto d’onore”, talmente sfarzoso da includere un medico addetto al controllo quotidiano del “prodotto finale”, per monitorare lo stato di salute del signore. (E noi che ci lamentiamo delle visite mediche annuali!). In questo periodo iniziò a diffondersi tra la popolazione comune l’utilizzo della carta per le pulizie finali. Fecero la comparsa i primi bagni pubblici. E indovinate un po? Fiori un’interna industria di raccoglitori di feci i “mokkō-ya”! Questi professionisti, trasportavano i rifiuti dalle case di città alle fattorie, rendendo Edo sorprendentemente pulita. Si sono trovati scritti di visitatori stranieri di quel periodo che erano rimasti basiti dall’ordine e dalla pulizia della città, che in parte era dovuto ai mokkō-ya.
Ora, torniamo a quel pulsante con la nota musicale sul washlet della vostra stanza di albergo nella moderna Tōkyō. Si, proprio quello che se premuto emette un suono di sciacquone o una musichetta discreta. Quella piccola funzione, che spesso viene chiamata “oto-hime” (音姫). Questo l’ho scoperto poco tempo fa mentre leggevo la scheda tecnica dei vari wc per la nostra nuova casa qui in Giappone. Nelle note all’interno del pamphlet di un noto produttore appariva questa spiegazione:
“Per ovviare allo spreco d’acqua causato dalla pratica diffusa tra molte donne nei bagni pubblici di lasciare scorrere l’acqua per mascherare i suoni ed evitare imbarazzi, è stato sviluppato il dispositivo sonoro “Otohime“. Il nome, coniato dalla sviluppatrice del sistema, unisce “oto” (suono) a “Otohime–sama“, che da “bella principessa” è passato a simboleggiare l’antica cultura della riservatezza giapponese”
Questa funzione non è solo una semplice stramberia adottata da qualche avido produttore di wc ma affonda le radici in un profondo e tanto agognato desiderio di privacy e discrezione, forse quasi un eco modernissima di quei giorni lontani di epoca Heian tra le vie della maleodorante Heian-kyō, o dallo slancio trovato in periodo Edo verso la pulizia urbana e il rispetto altrui. Si tratta di minimizzare qualsiasi suono potenzialmente imbarazzante, garantendo che tutti si sentano a proprio agio.
Dunque la prossima volta che troverete seduti sulla tiepida tavoletta di un wc in Giappone, mentra contemplate quale getto d’acqua selezionare, ripensate al mio racconto: da un fiume (quando andava bene) e un bastone, passando per i fortificati bagni dei samurai, fino ad approdare a un trono hi-tech degno di un moderno shōgun che diffonde musica. È una storia tutt’altro che di m….!
Ieri, approfittando dello Shōwa no Hi– festività nazionale dedicata sia alla riflessione sul complesso periodo del regno dell’Imperatore Hirohito (1912-1989) sia al futuro del paese – ho deciso di trascorrere la giornata con la mia famiglia in un luogo carico di storia.
Un viaggio nella storia: perché Hirado?
Abbiamo scelto Hirado, un’isola-città nella prefettura di Nagasaki, a breve distanza dalla nostra abitazione: circa mezz’ora di macchina.
Hirado: la prima finestra del Giappone sull’occidente
Sebbene il nome Hirado possa risultare sconosciuto a molti, questo fu un luogo di cruciale importanza secoli addietro, rappresentando la prima, seppur cauta, apertura del Giappone verso il mondo occidentale. Oggi, camminare in questi luoghi non è una banale gita, ma un’opportunità straordinaria per percepire da vicino le origini di un incontro commerciale e culturale che ha plasmato in modo irrevocabile il destino del Giappone.
L’avamposto commerciale olandese
L’imponente edificio che ammiriamo (nella foto in basso) e una meticolosa e storicamente fedele ricostruzione dell’avamposto commerciale olandese di Hirado (Hirado-oranda shōkan, 平戸オランダ商館, in giapponese), oggi adibito a museo. Questa struttura è ben più di un semplice museo: è una vera e propria finestra spalancata sul vibrante passato di questa zona. Un passato che si lega indissolubilmente al primo periodo Edo (1603-1867), un’era definita non solo dal consolidamento del potere dello shogunato Tokugawa, ma anche da una iniziale e marcata curiosità verso le novità provenienti dall’occidente.
Foto dell’autore dell’avamposto commerciale olandese di Hirado
La compagnia olandese delle Indie Orientali sbarca in Giappone
Tutto ebbe inizio nel 1609 quando la potentissima Compagnia Olandese delle Indie Orientali, uno dei più grandi conglomerati commerciali del tempo, desiderosa di espandere le sue rotte e di assicurare rifornimenti continui delle preziose merci asiatiche – spezie, seta e porcellane – chiese e ottenne un permesso speciale dallo shogunato che gli consenti di stabilire una base operativa stabile in Giappone. Hirado, grazie alla sua posizione strategica di crocevia sulle rotte marittime dell’Asia orientale, divenne naturalmente il fulcro di queste prime ma intense interazioni.
Hirado: un dinamico crocevia di commerci e idee
Tra il 1609 e il 1641, l’avamposto commerciale olandese di Hirado rappresento un dinamico crocevia, cruciale non solo per gli scambi commerciali olandesi, ma anche, e forse in misura maggiore, per la circolazione di idee, conoscenze scientifiche e tecnologiche. Questo fervore mercantile vedeva la pregiata seta e le porcellane giapponesi scambiate con zucchero, spezie e tessuti dalle indie, portando al contempo nella “terra di Yamato” innovative armi da fuoco, orologi meccanici e manufatti mai visti prima.
I nanban-jin
Fu in questo contesto che fecero la loro comparsa i nanban-jin (南蛮人), letteralmente “i barbari del sud”. Con questo termine si identificavano i mercanti che giungevano in Giappone dalle regioni meridionali come le Filippine o Macao. Inizialmente usato per indicare i portoghesi e spagnoli, il vocabolo fu ben presto esteso anche a olandesi e inglesi, i quali divennero presenze familiare a Hirado.
Questi europei, riconoscibili per i loro strani abiti, portarono con sé non solo beni materiali, ma anche nuove usanze, avanzate tecniche di cartografia e navigazione, e importanti conoscenze in campo medico e astronomico. Introdussero inoltre la religione cristiana, un elemento di grande impatto che in futuro sarebbe stato causa di notevoli controversie e sofferenze.
Foto dell’autoreFoto dell’autore
Questo intenso scambio culturale e scientifico gettò le basi per la nascita del rangaku (蘭学) – letteralmente “studi olandesi” – un termine che venne a definire le scienze occidentali. Questa apertura al sapere straniero sarebbe sopravvissuta e avrebbe continuato a svilupparsi anche durante il successivo periodo di completo isolamento del Giappone.
Curiosità e D\diffidenza: la complessità dell’incontro
L’incontro culturale tra il Giappone del primo periodo Edo e l’Europa del tardo rinascimento e del Barocco fu un fenomeno complesso ma profondamente affascinante. Fu un’interazione intrisa di reciproca curiosità quanto di una crescente e latente diffidenza.
Da un lato, l’élite giapponese, composta da samurai e mercanti, nutriva un vivo interesse per le nuove tecnologie occidentali. Le armi da fuoco (teppō), in particolare, impiegate da figura come Oda Nobunaga e Tokugawa Ieyasu nella battaglia di Nagashino, contro Takeda Katsuyori, rivoluzionarono non solo il modo di combattere, ma probabilmente influenzarono in modo determinante il corso storico del paese. I mercanti, dal canto loro, mostravano interesse per la cartografia, gli strumenti scientifici e le tecniche artistiche europee.
Tuttavia, parallelamente a questa apertura, cresceva una netta diffidenza verso gli usi e costumi dei “nanban-jin”, esacerbata in particolare dalla rapida conversione di parte della popolazione giapponese al cristianesimo. Già oggetto di severa repressione sotto il governo Tokugawa, la fede cristiana era vista dallo shogunato come un potenziale sovvertimento dell’ordine gerarchico e un rischio per la stabilità politica. Vi era il forte sospetto che essa potesse prefigurare un tentativo di colonizzazione del Giappone, sulla falsariga di quanto già avvenuto nelle Filippine.
Anche gli inglesi tentarono di inserirsi nel florido commercio con il Giappone, riuscendo a stabilire una base a Hirado nel 1613. Tale successo fu in larga parte dovuto all’intercessione di Williams Adama, noto in Giappone come Miura Anjin, che aveva guadagnato la fiducia di Tokugawa Ieyasu come suo consigliere.
Tuttavia, l’avventura commerciale britannica in terra nipponica si rivelò di brevissima durata. Furono sopraffatti dalla spietata concorrenza olandese, che dimostrava un approccio decisamente più pragmatico: concentrati esclusivamente sul profitto commerciale, gli olandesi non si facevano scrupoli a impedire ai propri religiosi qualsiasi attività di proselitismo.
A questo svantaggio competitivo si sommo una minore sensibilità da parte inglese nel comprendere e gestire le complesse dinamiche sociali giapponesi. Di conseguenza, decisero di chiudere la propria stazione commerciale e ritirarsi dal paese nel 1623.
Verso il sakoku: l’editto del 1639 e la chiusura del paese
La crescente cautela dello shogunato Tokugawa verso qualsiasi forma di influenza straniera non controllata, intensificata dalla rivolta di Shimabara (1637-1638), condusse a una drastica accelerazione delle politiche isolazioniste. Queste culminarono nell’editto del 1639, che decretò non solo l’espulsione di tutti i portoghesi, ma anche la distruzione degli edifici in pietra dell’avamposto commerciale olandese di Hirado. Tali strutture erano infatti percepite come un simbolo eccessivo e permanente della presenza straniera. Fu un segnale inequivocabile della ferrea politica nota come sakoku (鎖国), letteralmente “paese incatenato”, che il Giappone stava per abbracciare completamente, chiudendo ogni contatto con l’esterno.
Da Hirado a Dejima: l’unica finestra sull’occidente
Successivamente, nel 1641, agli olandesi fu ordinato di trasferire tutte le loro attività commerciali nella minuscola isola artificiale di Dejima (出島), costruita all’interno della baia di Nagasaki. Questo trasferimento segnò la fine dell’epoca di Hirado come principale porta di accesso del Giappone al mondo occidentale e l’inizio di oltre due secoli durante i quali Dejima sarebbe rimasta l’unica, strettissima e controllatissima finestra socchiusa sull’occidente.
Foto dell’autore. Targa votiva che ricorda la storia degli olandesi presso Hirado e Dejima esposta all’esterno dell’avamposto commericale.
L’eredità di Hirado
Nonostante la sua chiusura forzata e il successivo declino, l’avamposto commerciale olandese di Hirado non ha mai perso la sua importanza storica. Già nel 1922 fu inserito nella lista dei siti storici nazionali, a eterna testimonianza del suo ruolo cruciale nella storia del paese. L’edificio che oggi i visitatori hanno il privilegio di esplorare è una scrupolosa ricostruzione, inaugurata nel 2011 e basata su attenti studi storici e archeologici. Esso ospita ora un museo che offre un ponte di contatto tangibile con quel tempo lontano. Attraverso i suoi spazi e gli oggetti esposti, è possibile ripercorrere l’avvincente storia di questo intenso periodo e comprendere la complessità dell’incontro tra le culture giapponese e olandese.
Si percepisce così l’eco potente di un capitolo fondamentale non solo per la storia del Giappone, ma anche per le relazioni globali tra oriente e occidente.
Immagina una frase antica, quasi dimenticata, che affonda le sue radici nel mito stesso della creazione del Giappone. Una frase che, nelle sua origine leggendaria, sembrava sussurrare un sogno di unità universale, di un mondo raccolto sotto un unico grande tetto. Questo rappresentava inizialmente hakkō ichiu(八紘一宇). Eppure, questa espressione, evocativa e quasi poetica, nel giro di pochi decenni si trasformò in qualcosa di molto più oscuro: divenne lo slogan principale che accompagnò l’espansione militare del Giappone imperiale, un grido di battaglia usato per giustificare la conquista e la guerra. Come è potuto accadere? Come può un concetto apparentemente volto all’unificazione trasformarsi in giustificazione per il dominio? Ripercorriamo insieme l’affascinante e terribile percorso di hakkō ichiu, da eco mitologico a strumento di propaganda bellica.
Significato
Prima di addentrarci nella sua storia controversa, è utile scomporre questa espressione per capirne il significato letterale, che già ci da un indizio della sua portata ambiziosa. La prima parte, hakkō (八紘), combina il kanji di “hachi” (八), il numero otto – un numero che nella cosmologia dell’asia orientale spesso simboleggia la totalità o l’infinito – con “kō” (紘), che si riferisce a corde o fili, ma in senso figurato rappresenta le direzioni cardinali e intermedie (Nord, Sud, Est, Ovest, Nord-est e così via). Il termine “hakkō” diventa così una metafora per indicare “le otto direzioni” o “gli otto angoli del mondo”, rappresentando in pratica il mondo intero o l’ecumene conosciuto.
La seconda parte “ichi-u (一宇), unisce “ichi” (一), che significa semplicemente “uno”, con “u” (宇), che significa “tetto” o, per estensione, “casa”, “edificio” e persino “universo” in alcuni contesti. “Ichi-u” evoca quindi l’immagine suggestiva di “un solo tetto” o “una sola casa” implicando un ordine unificato e armonioso.
Unendo questi elementi, hakkō ichiu si traduce letteralmente come “gli otto angoli del mondo sotto un unico tetto”. L’idea intrinseca è quella di unificare tutti i popoli del mondo come un’unica, grande famiglia, portando pace e ordine sotto un’unica struttura. Tuttavia, come la storia ci insegna, la questione cruciale ad un certo punto divenne: sotto quale tetto? E chi avrebbe definito le regole di questa “casa”? La risposta data dell’interpretazione successiva fu inequivocabilmente: quello giapponese, sotto la guida dell’Imperatore.
Un’eco del mito
Hakkō ichiu non è un’invenzione del XX secolo. Le sue origini ci portano indietro fino all’alba della storia giapponese, o almeno alla sua narrazione mitologica ufficiale. Si ritiene che derivi da una frase attribuita al leggendario primo Imperatore del Giappone, Jinmu – figura mitica considerata discendente diretta della dea del sole Amaterasu Ōmikami, la principale divinità dello shintoismo – riportata nel Nihon-shoki (日本書紀, “Annali de Giappone”), un’antica cronaca compilata nel VIII secolo d.C, compilata per legittimare la linea imperiale e consolidare un’identità nazionale. Secondo quanto riportato nel testo, dopo aver consolidato il suo potere nella regione di Yamato (considerata la culla della nazione giapponese), durante la sua ascensione al trono, l’Imperatore Jinmu pronunciò la seguente frase:
掩八紘而爲宇
Ame no shita wo ooute ie to nasan
“Che io possa coprire le otto direzioni e farne la mia dimora”
Fonte: Wikipedia
Per secoli, questa frase rimase confinata negli annali storici, un riferimento noto agli studiosi ma privo di rilevanza politica nell’immediato. Fu solo all’inizio del XX secolo, nel 1903, che un influente pensatore della scuola buddista di Nichiren e fervente nazionalista, Tanaka Chigaku (田中智學), la riporto alla luce, coniandola nella forma moderna e coincisa hakkō ichiu. Tanaka, fondatore della Kokuchū-kai (国柱会), un’organizzazione che promuoveva un nazionalismo basato su un’ambigua interpretazione degli insegnamenti di Nichiren, vide in questa antica dichiarazione l’espressione della missione divina del Giappone (国体, l’essenza nazionale incentrata sull’Imperatore): guidare il mondo verso l’armonia e la pace universale, unificando sotto l’egida benevola dell’Imperatore, discendente degli dei e incarnazione vivente della nazione. Forse nelle intenzioni iniziali di Tanaka, c’era un barlume di idealismo, un sogno di una fratellanza universale – seppur dannatamente gerarchico, nippo-centrico – e basato sulla presunta superiorità spirituale e morale del Giappone imperiale. La sua visione, seppur presentata come pacifica, conteneva già i semi di una supremazia giapponese destinata a realizzarsi, se necessario, anche con la forza.
Quando un ideale diventa slogan di guerra
Ma come accade spesso con concetti tanto potenti quanto ambigui, anche hakkō ichiu venne presto strappata dal suo contesto filosofico-religioso e gettata nell’arena politica infuocata degli anni ‘30, un decennio segnato dalla grande depressione, dall’instabilità politica interna (il tentato colpo di stato passato alla storia come “l’incidente del 26 Febbraio 1936”), e soprattutto dall’ascesa del militarismo e di un nazionalismo aggressivo ed espansionista. L’economia giapponese necessitava disperatamente di risorse naturali (gas, gomma e metalli) e di mercati sicuri per sostenere la sua industrializzazione e la sua crescente popolazione, e l’ideologia dominante esaltava la presunta superiorità razziale e spirituale del popolo giapponese (la cosiddetta “razza Yamato”).
In questo clima surriscaldato, i leader militari (in particolare le fazioni più radicali dell’esercito e della marina) e i politici ultranazionalisti videro in questo slogan uno strumento perfetto per diverse ragioni tra loro interconnesse. Innanzitutto, il suo legame con il passato mitico e divino dell’Imperatore Jinmu conferiva alle ambizioni espansionistiche moderne un’aura sacra, fornendo loro una sorta di legittimità storica e spirituale quasi inattaccabile nel quadro ideologico definito del kokka shintō (国家神道), ovvero “lo shintoismo di stato”.
In secondo luogo, forniva una giustificazione, a loro detta “nobilitante” e persino “altruistica”: trasformava la brutale realtà della conquista territoriale, dello sfruttamento economico e dell’imposizione politica in una presunta “missione civilizzatrice” per “liberare” il continente asiatico dal colonialismo occidentale e unificarla sotto la guida paterna dell’Imperatore Shōwa, mascherando così l’imperialismo giapponese come un atto volto a portare “ordine”, “armonia” e “prosperità” condivisa.
Infine, hakkō ichiu, fungeva come un potente collante interno, uno slogan capace di mobilitare la popolazione, compattare le diverse fazioni nazionaliste e giustificare gli immani sacrifici richiesti dalla guerra totale, sia sul fronte militare che su quello interno.
Il punto di non ritorno fu raggiunto nel luglio del 1940. L’allora Primo Ministro, il principe Fumimaro Konoe, in un famoso discorso radiofonico che delineava la “Politica Nazionale Fondamentale” (Kihon Kokusaku Yōkō, 基本国策要綱), dichiaro che la politica nazionale mirava a stabilire un “Nuovo Ordine in Asia Orientale” – che si sarebbe in seguito evoluto nel concetto di “Sfera di Co-prosperità della Grande Asia Orientale” – basandosi proprio su hakkō ichiu. Da concetto filosofico-religioso riportato in auge da un pensatore nazionalista, era diventato ufficialmente politica di stato e la principale giustificazione ideologica per l’imminente espansione verso il sud-est e asitico e l’area del Pacifico.
Un esempio tangibile dell’adozione di questo slogan fu la costruzione nel 1940 di una torre dedicata – poi ribattezzata “la torre della pace” – presso la città di Miyazaki, luogo legato al mito della discesa di Niniji no Mikoto (il nonno di Jinmu). La torre, alta 37 metri e dedicata a Jinmu e allo spirito di hakkō ichiu, fu costruita utilizzando pietre provenienti da tutti i territori occupati dai giapponesi, simboleggiano l’unificazione del mondo sotto il Giappone.
Fonte: Wikipedia. Cerimonia di inaugurazion della torre presso Miyazaki
La realtà brutale dietro lo slogan
Dietro la retorica di “unire il mondo sotto un unico tetto” per portare pace e prosperità, la realtà pratica di hakkō ichiu durante la Seconda Guerra Mondiale fu devastante per milioni di persone nei territori occupati. In primo luogo, funzionò come copertura ideologica per l’aggressione militare: l’invasione della Manciuria prima e delle altre zone del Pacifico in seguito, venivano presentate all’opinione pubblica giapponese e internazionale come passi necessari per realizzare questa ipotetica grande unificazione e liberare i popoli asiatici dal giogo occidentale. Il Giappone si auto proclamava “liberatore” dal colonialismo europeo e statunitense, imponendo però a sua volta un dominio altrettanto, se non più, spietato e predatorio.
Il progetto della “Sfera di Co-prosperità della Grande Asia Orientale”, che sulla carta prometteva collaborazione economica e politica tra le nazioni asiatiche indipendente sotto la guida illuminata del Giappone, si tradusse ovunque in una realtà ben diversa, caratterizzata da: un’occupazione militare brutale, sfruttamento sistematico delle risorse, imposizione culturale e linguistica, repressione di ogni forma di dissenso o resistenza senza dimenticare gli atroci crimini di guerra.
Fonte: Wikipedia
Parallelamente, una propaganda martellante faceva risuonare lo slogan hakkō ichiu in tutto il Giappone – nelle scuole (dove era entrato a far parte dell’educazione morale), sui giornali, alla radio, nei film, nei discorsi pubblici e sui manifesti affissi nelle città. L’obiettivo era chiaramente infiammare il nazionalismo, innalzare lo spirito di sacrificio, convincere il popolo giapponese della correttezza divina della propria causa spingendolo a sopportare privazioni e sacrifici immani in nome dell’Imperatore e della presunta “missione” nazionale di unificare il mondo. Questa propaganda funzionò efficacemente, almeno sul fronte interno per gran parte delle durata del conflitto, perché faceva proprio leva su sentimenti profondi e radicati come l’orgoglio nazionale, una venerazione quasi religiosa della figura dell’Imperatore considerato divino (riprendendo il termine “arahito-gami” , 現人神, usato nel Nihon-shoki), il senso di un destino unico e superiore per il Giappone, e la convinzione, alimentata ad arte, di agire per un bene superiore universale, mascherando in questo modo le più terrene e brutali motivazioni di potere, controllo e espansione territoriale. La percezione al di fuori del Giappone, specialmente nei territori occupati e tra le potenze alleate, era invece nettamente diversa: lo slogan hakkō ichiu era visto come il velo ideologico che copriva la brama imperialista giapponese.
Fonte: Wikipedia. Moneta da 10 sen con impressa la torre di hakkō ichiu
Un’eredità scomoda
Con la resa incondizionata del Giappone nell’agosto del 1945, le forze di occupazione guidate dal Generale MacArthur, identificarono subito lo slogan hakkō ichiu come una dei pilastri ideologici chiave che avevano sostenuto e alimentato il militarismo e l’ultranazionalismo. Di conseguenza, attraverso direttive specifiche volte a smantellare lo shintoismo di stato, promuovere la libertà di pensiero e religione eliminando l’ideologia militarista dall’educazione e dalla vita pubblica, l’uso di hakkō ichiu e di altri slogan fu fortemente scoraggiato e di fatto eliminato dalla sfera pubblica. Non fu tecnicamente bandito con una legge specifica, ma la sua intrinseca tossicità divenne tale che cadde in disuso rapidamente.
Oggi rimane uno slogan principalmente legato al contesto storico del periodo bellico. Un chiaro esempio di come un’ideologia nazionalista ed espansionista possa essere costruita, manipolata attraverso la propaganda e utilizzata per giustificare qualsiasi voglia aggressione. Ogni sua evocazione, al di fuori di un contesto puramente storico, è rara e controversa, vista la pesante eredità che porta con sé. La stessa torre costruita a Miyazaki ha visto rimosse le iscrizioni originali facenti diretto riferimento allo slogan, nel tentativo di dissociare il monumento dal passato militarista.
L’evoluzione di hakkō ichiu rimane secondo me un monito potente, rilevante non solo per il Giappone ma per il mondo intero. Dimostra come un concetto dalle radici antiche, possa essere distorto e trasformato in un’arma ideologica a giustificazione dell’imperialismo più feroce e delle indicibili sofferenze inflitte a milioni di persone. Comprendere il viaggio di hakkō ichiu – da mito fondatore legato all’idea di un ordine cosmico a slogan di guerra usato per mascherare la brutalità della conquista – non solo ci aiuta a capire meglio le tragiche e complesse dinamiche del Giappone del periodo bellico, ma ci ricorda anche una necessità universale di rimanere vigili a qualsiasi ideologia che promette unità e liberazione attraverso la dominazione.
La seduzione di molti slogan può essere potente, ma la storia ci insegna a esaminare sempre le implicazioni reali e le possibili conseguenze umane.
Il 25 aprile si è svolta a Hiji, nella prefettura di Ōita (Kyūshū), una cerimonia commemorativa presso il santuario Kaiten (Kaiten jinja, 回天神社), in memoria dei caduti nelle operazioni “kaiten“, i siluri umani utilizzati dalla Marina Imperiale Giapponese durante le fasi finali della Seconda Guerra Mondiale.
I partecipanti erano circa una sessantina, tra cui autorità locali e familiari che hanno osservato un minuto di silenzio in onore dei caduti. La cerimonia assume un significato particolare poiché cade nell’anno che segna l’80° anniversario della fine del conflitto nel Pacifico.
Fonte: kaiten jinja web-site
Sviluppati nelle fasi finali della guerra del pacifico, quando la sconfitta del Giappone appariva ormai inevitabile, i kaiten (回転), conosciuti anche come ningen-gyorai (人間魚雷, siluro umano), erano un’arma d’attacco speciale: siluri modificati per essere guidati da un pilota destinato a schiantarsi contro le navi nemiche, sacrificando la propria vita in missioni suicide, proprio come facevano i piloti tokkōtai a bordo dei loro aerei.
Nella cittadina di Hiji si trovava la base di Ōga, una delle quattro basi dedicate all’addestramento e alle operazioni dei kaiten. Sul sito di questa ex base sorge oggi il santuario kaiten, che custodisce la memoria dei 1.073 militari morti in operazioni o durante addestramenti legati ai kaiten in tutto il paese.
La data del 25 aprile è stata scelta perché ricorda il giorno del 1945 in cui fu costituita l’unità kaiten proprio nella base di Ōga. Uno dei partecipanti, il cui padre (morto di recente) fu addestrato come pilota di kaiten ma sopravvisse alla guerra, lo ricorda come una “una persona che parlava poco della sua esperienza durante la guerra” e riporta un racconto terribile, legato all’addestramento con i kaiten a cui fu sottoposto il padre. “Durante un’esercitazione si incagliò su una spiaggia sabbiosa, rimanendo bloccato all’interno del siluro per diversi giorni.” L’uomo poi conclude: “Fortunatamente, la guerra finì prima che partisse per una missione. Credo che ogni anno fosse profondamente grato di essere sopravvissuto e ricordasse con rispetto i 1.073 caduti che oggi ricordiamo presso questo santuario.”
Nonostante la sua importanza storica, moltissimi giapponesi, compresi anche gli abitanti della zona, conoscono poco la storia della base di Ōga e dei suoi addestramenti. Per mantenere viva la memoria di questo complesso capitolo della storia giapponese, in un parco è stato installato un modello in scala reale del siluro kaiten, assieme a fotografie e reperti storici.
Fonte: kaiten jinja
La cerimonia presso il santuario kaiten e l’esistenza del parco commemorativo a Hiji sono fondamentali per contrastare l’oblio che minaccia queste pagine dolorose di storia, specialmente considerando la limitata conoscenza attuale persino tra i residenti locali. Ricordare il sacrificio estremo dei 1.073 giovani piloti dei kaiten non è solo un dovere verso la loro memoria individuale e collettiva, ma anche un potente invito a riflettere profondamente sulle tragiche conseguenze dei conflitti e sulla disperazione che può generare la guerra. Il suono del silenzio osservato durante la commemorazione e la muta testimonianza del siluro esposto nel parco riecheggiano come un monito perenne, riaffermando con forza l’inestimabile valore della pace, un bene da coltivare e difendere strenuamente, oggi più che mai.
Il Giappone nel XXI secolo è il paese pacifico per eccellenza, e a buon ragione. Io stesso, che ho abitato i due terzi della mia vita in questo paese, possono testimoniare che la violenza è assente al punto tale che se ne avverte la mancanza. È tutto un po’ troppo tranquillo, pacifico per essere vero, in particolare nel caso dei giapponesi, la cui storia è probabilmente una delle più brutali e distruttive che ci siano mai state.
Basti il semplice fatto che i giapponesi sono stati guerrieri eccezionalmente sanguinari, tanto che una parte della loro paga veniva da teste di nemici recise che il loro padrone comprava. Il Taikō, Toyotomi Hideyoshi, faceva impalare i bambini di coloro che sconfiggeva. Tokugawa Ieyasu non esitò a far giustiziare il suo stesso figlio e a far decapitare sulla pubblica piazza un bambino di sette anni. Ieyasu è colui cui Hideyoshi morente affidò la propria famiglia perché la proteggesse. Lui la distrusse. Tutto questo senza contare che questi combattimenti erano sempre fra giapponesi. Le vittime erano i giapponesi quanto i carnefici. Visto che la guerra dei Genpei è finita nel 1985, che il periodo successivo è iniziato con lotte fra clan per la supremazia a Kamakura finite 40 anni dopo,, che nel 1333 Kamakura è stata conquistata e arsa da Nitta Yoshisada, che ci era nato, che i tre secoli successivi sono una guerra dietro l’altra, è palese che i giapponesi hanno sempre combattuto guerre civili fino al 1900.
La tragedia dei veterani della guerra civile
E quindi non solo legittimo, ma necessario domandarsi quando e come questo popolo, indubbiamente grande ma certamente anche difficile, sia cambiato, e per mano di chi.
Certamente non nel XVII secolo. Come mostrato in un altro mio scritto, dopo una guerra civile di fenomenale lunghezza, 133 anni, il Giappone fu quasi sopraffatto da un’ondata di violenza dovuta ai veterani di quella guerra, licenziati di punto in bianco il giorno dopo la vittoria di Yeyasu a Sekigahara. Si trattava di un persone che avevano combattuto a lungo in una guerra straordinariamente violenta e sanguinosa, per giunta fra fratelli, soldati che avevano di conseguenza riportato ferite fisiche e mentali considerevoli. Non solo erano stati licenziati, ma era stato loro proibito di cambiare professione, presumibilmente per vivere quindi di aria e poco altro.
Si ebbe un’ondata di tsujigiri, vale a dire agguati in cui persone venivano tagliate a pezzi con una spada senza nessuna ragione plausibile, verosimilmente proprio da quei reduci che la classe dei samurai aveva tradito, burocratizzandosi una volta venuta la “pace”. L’unica ipotesi che spiega il loro comportamento è che si trattasse di una forma di terrorismo volta a tenere presente al pubblico il problema dei veterani.
La guerra civile nel 1615 continuò con i disperati combattimenti che finirono con la presa del castello di Osaka, dove il figlio di Hideyoshi si era rifugiato. Alla difesa del castello accorsero ben 90.000 reduci, fra cui famose figure come Sanada Yukimura, Gotō Matabei, Akashi Morishige e Kimura Shigenari. Era la loro ultima speranza, ma Ieyasu la spense nel sangue. Coloro che più avevano sofferto, i veterani, si trovarono ad essere vittime di una campagna che li voleva distrutti. Ho ancora davanti agli occhi dei veterani della Guerra del Vietnam marciare portando un cartello che diceva: “We killed, we bled, we died for WORSE than nothing.” Abbiamo ucciso, siamo stati feriti, siamo morti per meno di niente.
La ribellione di Shimabara, cui parteciparono altri veterani, fu addirittura del 1637. Non è sorprendente che una guerra civile così lunga avesse degli strascichi di questo peso, ed è imprudente pensare che dopo di essi il ritorno all’ordine fosse completo. Un’intera classe sociale stava venendo distrutta in una delle più grandi catastrofi della storia del paese.
Miyamoto Musashi, il famoso spadaccino, si trovò Ronin dopo aver combattuto a Sekigahara, a Osaka e a Shimabara. Sappiamo che era molto attivo dopo il 1630, con duelli frequenti. Tutto questo ci dice che il XVII secolo era un’epoca in cui avere armi era comune, come era comune servirsene. Musashi, che io sappia, non fu mai incarcerato nonostante fosse responsabile probabilmente di 30 omicidi. Il duello era quindi tollerato ed anzi apprezzato, dato che Miyamoto Musashi divenne ciò nonostante la leggenda che è.
Saigo Takamori nel 1877 muore di propria mano dopo avere combattuto una guerra che era destinato a perdere, una ribellione per far tornare quelli che (dimostrando di non aver capito la sua stessa storia) lui riteneva essere stati gli anni d’oro, quelli dei Tokugawa (e quindi dei samurai, lui credeva).
Il continuo problema dei reduci della guerra civile, ancora vivo e vegeto ben 11 anni dopo l’inizio della restaurazione Meiji, ci garantisce che il paese era ben lontano dall’essere non violento.
fino al 1945 in Giappone vige il militarismo. Inutile domandarsi come I giapponesi abbiano fatto per comportarsi come si sono comportati in Cina, ad esempio a Nanking. Hanno semplicemente trattato I cinesi come di solito trattavano sé stessi.
Finita la guerra, la violenza fisica per punire la servitù era ancora normale, e io conosco personalmente una persona il cui genitori praticavano questa forma di violenza su base quotidiana. Notare che questa non era violenza qualsiasi. È violenza istituzionale, un diritto della classe superiore su quella inferiore, nulla di illegale o di negativo. A meno che non sbloccasse nell’omicidio, bastonare i servi non ho mai portato nessuno in galera.
La violenza dei militari nei confronti delle altre classi fino al 1945 è ben nota., come lo è stata la sorpresa dei giapponesi quando si resero conto che gli occupanti americani li trattavano meglio di quanto facessero i militari del loro paese.
Siamo arrivati al 1945 e la violenza non è ancora scomparsa dalle vite dei giapponesi. Come l’episodio della mia amica in cui i genitori battevano la servitù dimostra, non è scomparsa all’improvviso dal 20mo secolo. Ma allora chi?
Il Giappone, un tempo simbolo di inarrestabile progresso, si trovò improvvisamente a fronteggiare una realtà inaspettata: la stagnazione economica. Gli anni ’90 segnarono l’inizio di un’era di incertezza, in cui il sogno di una prosperità eterna si infranse contro il muro della recessione. Ma al di là delle cifre e dei grafici, questa crisi ebbe un volto umano, quello di una generazione intera costretta a fare i conti con un futuro precario. Questo articolo prova ad esplorare le cause e le conseguenze della stagnazione economica giapponese, concentrandosi in particolare sull’impatto devastante sulla cosiddetta “generazione perduta” e sulla cosidetta “era glaciale della ricerca di lavoro”
Introduzione alla stagnazione economica giapponese
ll miracolo economico giapponese del dopoguerra, che catapultò la nazione a un ruolo di primo piano sulla scena mondiale, si interruppe bruscamente nei primi anni ’90. Questo periodo, noto come il “decennio perduto” (失われた十年, Ushinawareta Jūnen), fu segnato da una prolungata stagnazione economica e da profondi mutamenti sociali. In tale contesto emersero due fenomeni interconnessi che lasciarono un’impronta indelebile su un’intera generazione: la ushinawareta sedai (失われた世代, “generazione perduta”) e la shūshoku hyōgaki (就職氷河期, “era glaciale della ricerca di lavoro”). Per comprendere appieno questi concetti, è essenziale analizzarne il contesto storico, le cause scatenanti e le conseguenze a lungo termine.
Contesto storico: lo scoppio della bolla speculativa
Il “decennio perduto” ebbe origine dal collasso della bolla speculativa dei prezzi degli asset all’inizio degli anni ’90. Sul finire degli anni ’80, il Giappone attraversò un boom economico senza precedenti, alimentato da investimenti speculativi nel settore immobiliare e nel mercato azionario. Tassi di interesse bassi e una deregolamentazione finanziaria favorirono un ricorso eccessivo al credito, gonfiando i valori degli asset a livelli insostenibili. Quando la bolla scoppiò, le conseguenze furono devastanti, segnando l’inizio di una crisi economica dalle profonde ripercussioni.
La generazione perduta
Il termine ushinawareta sedai, o “generazione perduta”, identifica coloro che raggiunsero l’età adulta ed entrarono nel mercato del lavoro durante questa recessione. Il crollo della bolla provocò una brusca contrazione economica, con fallimenti aziendali a catena e una drastica riduzione delle opportunità di impiego. Le imprese, tradizionalmente legate al sistema dello shūshin koyō (終身雇用, “impiego a vita”), si trovarono costrette a ristrutturarsi, tagliare i costi e limitare fortemente le assunzioni. Nacque così una generazione che si affacciò al mondo del lavoro nel momento più sfavorevole della storia recente giapponese.
L’era glaciale della ricerca di lavoro
Il concetto di shūshoku hyōgaki descrive in modo più specifico le condizioni eccezionalmente difficili affrontate dai neolaureati tra gli anni ’90 e i primi 2000. Il tradizionale sistema di assunzione primaverile, noto come shūshoku katsudō (就職活動), attraverso il quale le aziende reclutano ancora oggi in massa dalle università, subì un duro colpo. Le imprese ridussero significativamente il numero di neolaureati assunti, innescando una competizione feroce per le poche posizioni disponibili. Questo scenario rese estremamente arduo per i giovani trovare un impiego stabile e a tempo pieno.
La cosiddetta “generazione shūshoku hyōgaki” (就職氷河期世代) si riferisce agli individui, nati prevalentemente tra il 1970 e il 1982 (e in alcuni casi fino al 1984), che cercarono lavoro come neolaureati in quel periodo. Nel 2021, questi individui avevano tra i 37 e i 51 anni. Spesso identificati anche come “generazione perduta”, essi affrontarono sfide occupazionali senza precedenti. La shūshoku hyōgaki si protrasse per circa un decennio, dal 1993 al 2005, caratterizzata da un mercato del lavoro ostile.
Dopo il crollo economico del 1990, le aziende che negli anni del boom avevano assunto su larga scala adottarono strategie di contenimento dei costi. Con una riduzione drastica delle quote di assunzione, i neolaureati di questa generazione si scontrarono con ostacoli enormi. Il termine shūshoku hyōgaki, coniato da Recruit Co., Ltd., emerse come un problema sociale rilevante, tanto da essere candidato al premio “Buzzword of the Year” nel 1994.
La situazione peggiorò ulteriormente tra la fine degli anni ’90 e il 2000, con l’instabilità finanziaria e il crollo della bolla informatica, trasformando la ricerca di lavoro in una “super crisi occupazionale”. Secondo i dati del Ministero della Salute, del Lavoro e del Welfare, il rapporto tra posti di lavoro e candidati crollò dal 2,77% nel 1990 allo 0,99% nel 2000, una diminuzione di circa due terzi. Anche i tassi di assunzione scesero dal 94,5% nel 1997 al 91,1% nel 2000, riflettendo la riluttanza delle aziende ad assumere neolaureati dopo lo scoppio della bolla.
Di conseguenza, molti giovani non solo non riuscirono a ottenere i lavori desiderati, ma spesso accettarono ruoli ben diversi dai loro interessi o ambizioni. Questa mancata corrispondenza compromise il loro potenziale e, anche quando assunti come dipendenti permanenti, alcuni furono licenziati dopo poco tempo. Molti si ritrovarono relegati a posizioni non regolari, come lavoratori temporanei (haken shain, 派遣社員) o part-time (furītā, フリーター), segnando un distacco dal modello tradizionale di stabilità lavorativa.
Il grafico mostra l’andamento andamento del tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) dopo gravi crisi economiche evidenzia uno schema ricorrente. Intitolato “Andamento del tasso di disoccupazione giovanile dopo una grande crisi economica”, il grafico mostra come, in vari paesi, la disoccupazione tra i giovani aumenti significativamente dopo una crisi e rimanga elevata per anni. Le linee rappresentano nazioni come Finlandia, Spagna, Svezia, Norvegia, Stati Uniti e Giappone, ciascuna associata all’anno d’inizio della rispettiva crisi (per il Giappone, il 1992). L’asse orizzontale misura gli anni trascorsi dalla crisi, mentre quello verticale indica la variazione del tasso di disoccupazione in punti percentuali rispetto al pre-crisi.
La cosa che salta subito all’occhio è che, per tutti i paesi, c’è una sorta di “impennata” iniziale. Appena la crisi colpisce (siamo all’anno “0”), il tasso di disoccupazione giovanile comincia a salire, come se fosse una reazione immediata al trauma economico. Poi, questo tasso continua a crescere per un po’, raggiungendo un picco, un punto massimo. E qui viene il punto cruciale: non è un aumento temporaneo, una fiammata che si spegne subito. No, il grafico ci dice che, una volta raggiunto il picco, il tasso di disoccupazione giovanile rimane lì, su livelli elevati, per diversi anni. È come se l’economia facesse fatica a riassorbire i giovani che hanno perso il lavoro o che non riescono ad entrare nel mondo del lavoro.
Ora, se ci concentriamo sul Giappone, che è quella linea tratteggiata più in basso, vediamo che anche lì c’è questo schema: la crisi del 1992 porta con sé un aumento della disoccupazione giovanile. Però, se confrontiamo la linea giapponese con quelle di altri paesi, soprattutto quelle più “alte” come Spagna, Finlandia e Stati Uniti (le linee continue più spesse), notiamo subito una differenza importante. L’aumento del tasso di disoccupazione in Giappone sembra essere stato meno pronunciato, meno forte. Il picco raggiunto dalla linea giapponese è più basso, meno accentuato rispetto a quello di altri paesi. E anche se la disoccupazione giovanile in Giappone rimane elevata per un certo periodo, come succede un po’ ovunque, i livelli che raggiunge sono comunque inferiori rispetto a quelli che vediamo in altri paesi.
Verso la fine del periodo che il grafico ci mostra, notiamo che la linea giapponese comincia a scendere leggermente, suggerendo che finalmente l’economia si sta riprendendo e la disoccupazione giovanile sta diminuendo. Ma anche qui, questa discesa sembra essere più lenta, più graduale rispetto a quella che vediamo, ad esempio, per gli Stati Uniti. È come se la ripresa in Giappone fosse un processo un po’ più faticoso, un po’ più lento.
Il grafico illustra l’andamento del tasso di occupazione dei neolaureati in Giappone dal 1985 al 2019, evidenziando il periodo critico della “generazione perduta” (1993-2004). Durante questa fase, il tasso di occupazione dei laureati universitari è crollato di oltre 10 punti percentuali rispetto alla media, mentre quello dei diplomati delle scuole superiori ha subito una diminuzione di circa 7 punti. Questo calo drastico riflette l’impatto devastante della recessione economica degli anni ’90 sulle opportunità di lavoro per i giovani, segnando un’epoca di precarietà e difficoltà nell’inserimento nel mondo del lavoro.
Cause principali: deflazione, ristrutturazione aziendale e globalizzazione
Il crollo della bolla speculativa fu il catalizzatore principale, innescando un lungo periodo di deflazione che frenò gli investimenti e alimentò la stagnazione economica. Le aziende, alle prese con crediti inesigibili e un clima di incertezza, avviarono profonde ristrutturazioni, abbandonando gradualmente i pilastri tradizionali come l’impiego a vita e i sistemi salariali basati sull’anzianità. Si orientarono invece verso strategie più flessibili e orientate al risparmio, riducendo drasticamente l’assunzione di neolaureati.
Questa riorganizzazione aziendale comportò un allontanamento dai pilastri tradizionali giapponesi dell’impiego a vita e dei sistemi salariali basati sull’anzianità. Al contrario, le aziende iniziarono ad adottare strategie di impiego più adattabili e orientate alla riduzione dei costi, in particolare riducendo l’assunzione di neo-laureati.
Fattori amplificatori
Inoltre, l’intensificarsi della globalizzazione e l’aumento della concorrenza internazionale esercitarono un’immensa pressione sulle imprese giapponesi affinché migliorassero l’efficienza e riducessero le spese per la manodopera. Pur non essendo un fattore scatenante diretto della crisi iniziale, l’evoluzione demografica del Giappone, caratterizzata da una popolazione che invecchia e da un calo del tasso di natalità, amplificò le sfide economiche esistenti e favorì un senso pervasivo di inquietudine riguardo al futuro della nazione.
Precarietà e impatto sociale
La shūshoku hyōgaki e la “generazione perduta” ebbero effetti profondi e duraturi, sia a livello individuale che sociale. Per molti, questo periodo segnò l’inizio di una precarietà occupazionale cronica. Relegati a lavori part-time, temporanei o a contratto, definiti come “impieghi non regolari”, questi individui godevano di salari più bassi, scarsi benefit e una sicurezza lavorativa minima rispetto al modello tradizionale. La difficoltà a trovare stabilità ritardò tutte quelle tappe ritenute fondamentali come il matrimonio, l’acquisto di una casa o la formazione di una famiglia, costringendo molte persone a didendere dai genitori ben oltre l’età adulta.
La stagnazione salariale e l’instabilità lavorativa acuirono la disuguaglianza economica e sociale, rendendo arduo accumulare ricchezza. Sul piano psicologico, la competizione feroce nel mercato del lavoro generò frustrazione, disillusione e ansia, con casi estremi di isolamento sociale e problemi di salute mentale.
Infine, un mercato del lavoro così ferocemente competitivo ha avuto un notevole impatto psicologico, portando a diffusi sentimenti di frustrazione, disillusione e ansia. Tragicamente, alcuni individui hanno anche sperimentato isolamento sociale e problemi di salute mentale come conseguenza.
Ripercussioni a lungo termine
Le conseguenze di questi eventi si fanno sentire ancora oggi. Nonostante una parziale ripresa economica, la crescita salariale in Giappone è rimasta stagnante per decenni, penalizzando in particolare questa generazione. Il mercato del lavoro continua a mostrare una netta divisione tra dipendenti regolari e non regolari, con differenze significative in termini di retribuzione, benefit e sicurezza.
Molti della “generazione perduta” sono rimasti intrappolati in lavori precari, incapaci di sfuggire a un ciclo di instabilità. Inoltre, il basso tasso di natalità, in parte legato all’insicurezza economica di questa cohorte, aggrava le sfide demografiche del paese, mettendo sotto pressione il sistema di welfare e sollevando interrogativi sulla sostenibilità futura.
Conclusione
Sebbene i termini “generazione perduta” e shūshoku hyōgaki siano oggi meno usati, i problemi di precarietà occupazionale e disuguaglianza economica restano attuali per le giovani generazioni giapponesi. Le vicende di questo periodo rappresentano un monito sulle conseguenze durature delle crisi economiche e sull’importanza di reti di sicurezza sociale e politiche mirate a sostenere i giovani nel mercato del lavoro.
Nel ricca tradizione giapponese, il genkan (玄関) è ben più di un mero ingresso; è una soglia profonda, uno spazio meticolosamente progettato che demarca il confine tra il mondo esterno considerato profano e il sacro santuario della casa. Comprendere veramente il genkan significa addentrarsi nel cuore della cultura giapponese, nei suoi valori profondamente radicati di purezza rituale, pulizia e nel delicato equilibrio tra esistenza pubblica e privata, il tutto mentre protetto sottilmente dal kegare (穢れ), l’impurità.
Le radici del genkan e l’evoluzione dell’architettura domestica
La genesi del genkan è profondamente radicata nell’evoluzione dell’architettura domestica giapponese. Sebbene spazi d’ingresso rudimentali esistessero già in precedenza, il genkan come lo conosciamo oggi ha acquisito importanza durante il periodo Edo (1603-1868). Quest’epoca vide le case sempre più definite e separate dagli spazi di lavoro e dalle aree agricole, rendendo necessaria una transizione più formale dal mondo esterno.
Il genkan emerse quindi come risposta a questa evoluzione della coesistenza sociale e spaziale, solidificando questo spazio sia come un punto d’ingresso distinto sia come un luogo dedicato alle interazioni sociali prima di poter entrare nel privato. Nacque quindi da un bisogno sia di separazione sia spaziale che sociale, segnando un chiaro punto d’ingresso e un luogo dedicato alle interazioni sociali prima di accedere alla sfera privata.
Purezza e rispetto
Il significato del genkan è stratificato e profondamente intrecciato con il concetto di kegare. A livello pratico, il genkan funge da area designata per togliersi le scarpe, un’usanza profondamente radicata nella cultura giapponese e intrinsecamente legata alle nozioni di igiene e purezza.
Entrare nel genkan non è solo una questione di praticità; è un atto spesso inconsapevole di purificazione rituale, lasciare indietro il potenziale kegare del mondo esterno, non solo la polvere e la sporcizia ma anche le impurità simboliche, prima di entrare in uno spazio più pulito e ritualmente puro. Questo atto di togliersi le scarpe non riguarda meramente la pulizia fisica; è un gesto di rispetto per la casa e i suoi abitanti, riconoscendo la sacralità della sfera domestica e cercando di prevenire l’intrusione del kegare.
Uchi e soto: il genkan come zona liminale
Oltre al suo ruolo funzionale, il genkan incarna la dicotomia culturale di uchi (内, interno) e soto (外, esterno) di cui abbiamo già parlato all’interno di questo blog.
Il genkan funziona come una zona liminale, uno spazio cuscinetto che gestisce con cura le interazioni tra soto, il mondo esterno, potenzialmente contaminato dal kegare, e uchi, il mondo privato, interno della casa e della famiglia, uno spazio idealmente mantenuto puro e libero da ogni contaminazione.
È uno spazio di transizione dove ci si spoglia dei ruoli sociali e delle energie appartenenti al soto, incluso il potenziale kegare, e ci si prepara a entrare nell’intimità e nella purezza dell’uchi. Questa separazione spaziale, rafforzata dal genkan, rispecchia sottilmente l’enfasi giapponese sul mantenimento dell’armonia sociale in pubblico, valorizzando profondamente la privacy e la preservazione della purezza all’interno della casa.
Interazioni sociali e gerarchia spaziale
Il genkan non è solo una barriera contro il kegare, ma è storicamente anche un luogo destinato alle interazioni sociali. Serviva come luogo per accogliere gli ospiti, condurre brevi scambi e ricevere consegne, il tutto all’interno dello spazio adiacente del soto.
La netta differenza di altezza tra il pavimento del genkan (tipicamente più basso) e il pavimento principale della casa (rialzato) accentuava ulteriormente la separazione di questi regni, rafforzando sia fisicamente che simbolicamente il confine con il mondo esterno. Gli ospiti generalmente erano tenuti a rimanere nel genkan a meno che non fossero esplicitamente invitati ad entrare in casa, una sorta di protocollo spaziale che rifletteva anche le gerarchie sociali e il grado di intimità e fiducia con i visitatori, salvaguardando ulteriormente la parte privata.
Periodo Edo: samurai e gente comune
Durante il periodo Edo, nelle residenze di aristocratici e samurai, il genkan assunse un significato ancora più pronunciato, riflettendo il loro status sociale e la necessaria ricerca di sicurezza. I genkan delle case dei samurai specialmente erano spesso più spaziosi e costruiti in modo più robusto rispetto a quelli delle case comuni, incorporando talvolta elementi che trasmettevano autorità e preparazione all’azione contro eventuali nemici.
Pur mantenendo la funzione principale di separare soto e uchi e prevenire il kegare, questi genkan potevano includere robuste strutture in legno e un senso di formalità che si allineava con il carattere dei samurai.
Al contrario, le nagaya (長屋), le classiche case in legno a un piano dove viveva la gente comune, tipicamente mancavano di un genkan vero e proprio. Queste abitazioni avevano dei pavimenti in terra battuta, con una transizione verso una piccola area con pavimento in legno prima di raggiungere le stanze le stanze più interne.
Questo concetto architettonico può ancora essere osservato nelle moderne case giapponesi, evidenziando l’evoluzione e l’adattamento del genkan attraverso diversi strati sociali e periodi storici. Indipendentemente dalle dimensioni, il genkan è spesso considerato il “volto” della casa. Riflettendo questo, molte famiglie giapponesi lo decorano con dipinti, fiori, bambole o fotografie di paesaggi, infondendo un loro tocco personale a questo spazio di soglia con il mondo esterno.
Tataki e kamachi
Questa enfasi sulla separazione tra interno ed esterno è ulteriormente incarnata nella struttura tradizionale del genkan stesso. Le case giapponesi classiche spesso presentano un ingresso a gradini, che delinea chiaramente il genkan dallo spazio abitativo principale.
Il tataki (叩き), un’area con pavimento in terra battuta o cemento, è spesso al livello più basso, fungendo da spazio immediato per entrare dall’esterno e togliersi le scarpe. Un gradino in legno rialzato, noto come kamachi (框), eleva quindi il pavimento interno, creando un distinto confine fisico e visivo. Questa struttura a gradini è un segno distintivo del design tradizionale del genkan, che rafforza potentemente la transizione dal soto all’uchi e funge da chiara demarcazione contro l’intrusione del kegare.
Adattamento alla modernità
Nel corso del tempo, il genkan si è facilmente adattato all’evoluzione degli stili di vita e all’estetica architettonica moderna. I genkan tradizionali delle case giapponesi più antiche, con i loro spaziosi tataki e kamachi prominenti, sono spesso generosamente proporzionati, dotati di armadietti per le scarpe (下駄箱, getabako) e ampio spazio per il movimento e lo scambio sociale.
Tuttavia, negli appartamenti e nelle case contemporanee, attente all’utilizzo dello spazio, il genkan è spesso diventato più compatto, evolvendosi talvolta in una nicchia snella e stretta. In molte case moderne, sebbene il kamachi possa essere meno pronunciato o addirittura assente per ragioni di accessibilità, l’area designata del genkan e la pratica di togliersi le scarpe persistono. Nonostante queste trasformazioni spaziali, lo scopo fondamentale, separare uchi e soto e fungere da prima linea di difesa contro il kegare, del genkan (玄関) resistono tenacemente all’evolversi delle soluzioni architettoniche.
Genkan contemporaneo
Nelle case giapponesi contemporanee, il genkan rimane un elemento indispensabile, nonostante i design minimalisti. Sebbene le sue dimensioni fisiche possano essersi ridotte e la struttura a gradini semplificata se non del tutto assente, il rituale radicato della rimozione delle scarpe, la transizione da soto ad uchi e dal potenziale kegare (穢れ) alla purezza domestica, rimangono profondamente significativi.
I design moderni del genkan possono incorporare estetiche contemporanee ed eleganti ma continuano a funzionare come la porta d’accesso alla casa, uno spazio che prepara sia il corpo fisico che lo spirito per l’ingresso in un mondo privato e ritualmente protetto.
Un microcosmo culturale
Il genkan, quindi, va oltre la mera funzione architettonica; può essere considerato un potente microcosmo culturale, che riflette i valori giapponesi fondamentali, le dinamiche sociali e le credenze spirituali riguardanti la purezza. È uno spazio di transizione, purificazione, rispetto e sottile difesa rituale, che incarna il delicato equilibrio tra il pubblico e il privato, l’esterno e l’interno, e il puro e il potenzialmente impuro.
Calpestare il pavimento del genkan non è semplicemente entrare in un’abitazione; è varcare una soglia nello stile di vita giapponese, uno spazio dove rituali sottintesi e tradizione si intrecciano fluidamente con la vita quotidiana.
Ieri sera, mentre guardavo la televisione, mi sono imbattuto in un programma che parlava del kanten-hoshi (寒天干し), ovvero l‘agar-agar essiccato. Nonostante sia un ingrediente che qui in Giappone ho spesso gustato in svariati dolci e pietanze, ignoravo completamente il processo di produzione e la sua storia.
Spinto dalla curiosità, ho approfondito l’argomento online, scoprendo dettagli davvero interessanti su questo ingrediente.
Ma cos’è esattamente il kanten-hoshi?
Il termine kanten-hoshi è composto da due parole chiave. La prima è kanten (寒天), il termine giapponese per “agar-agar”. La parola kanten stessa è in realtà una contrazione di “kanzarashi no tokoroten” (寒ざらしのところてん), che letteralmente significa “tokoroten esposto al freddo invernale”. La seconda parola è “hoshi” (干し), un termine giapponese molto comune che indica semplicemente “essiccato” o “secco”.
In sostanza, il kanten-hoshi è un metodo tradizionale di produzione di agar naturale, tipico della regione di Suwa, nella prefettura di Nagano. Questa lavorazione si concentra soprattutto durante il rigido inverno giapponese. Il processo, tanto semplice quanto naturale, si svolge così: da dicembre a metà febbraio, i produttori utilizzano l’agar in bastoncini, ottenuto precedentemente bollendo un tipo di alga marina chiamata tengusa (天草) fino a raggiungere una consistenza solida.
Alga Tengusa
Questi bastoncini vengono poi lasciati all’aperto per circa due settimane. Qui la natura e il clima locale giocano un ruolo fondamentale: l’alternanza di gelo e disgelo tra notte e giorno permette all’acqua contenuta nell’agar di evaporare naturalmente. Il risultato finale è un alimento purissimo, privo del tipico odore di mare delle alghe.
Kanten-hoshi
Una tradizione nata a Kyōto durante il periodo Edo
Pare che la produzione di kanten abbia avuto inizio quasi per caso durante il periodo Edo (1603-1868). Si narra che il proprietario di una locanda di Kyōto scoprì fortuitamente che del “tokoroten” (ところてん), una gelatina di agar servita come noodle, dimenticato all’esterno, si era essiccato. Provando a reidratarlo per poterlo riutilizzare, ebbe una grande sorpresa: ottenne un tokoroten trasparente e privo del caratteristico odore di alga marina.
Fu proprio da “kanzarashi no tokoroten” (寒ざらしのところてん), ovvero “tokoroten esposto al freddo invernale”, che nacque il nome “kanten“, poi diffusosi in tutta la regione del Kansai.
Il kanten di Suwa
La diffusione della produzione di kanten nella regione di Suwa viene fatta risalire al 1830 circa, grazie a un mercante ambulante locale di nome Kobayashi Kumezaemon (小林粂左衛門). Durante un viaggio nella regione di Tanba (antica provincia giapponese, oggi una zona tra le prefetture di Hyōgo e Kyōto), Kobayashi osservò il processo di produzione del kanten. Intuì immediatamente che il clima di Suwa, caratterizzato da forti escursioni termiche e giornate soleggiate, fosse ideale per questo tipo di lavorazione. Decise quindi di importare questo metodo nella sua regione.
La cartina mostra la posizone dell’antica regione di Tanba tra le odierne prefetture di Hyōgo e Kyōto
La sua intuizione si rivelò corretta: la produzione di kanten si diffuse rapidamente a Suwa, diventando in breve tempo una vera e propria specialità locale. Inoltre, l’impiego delle risaie dopo il raccolto del riso per la produzione del kanten si dimostrò un’attività secondaria perfetta per gli agricoltori, e l’acqua pura e incontaminata della regione rappresentò un ulteriore vantaggio. Così, il kanten-hoshi è diventato un simbolo autentico dell’inverno a Suwa.
Come si gusta il kanten?
Il kanten è un ingrediente estremamente versatile nella cucina giapponese. Pensando ai dolci, vengono subito in mente classici come l’anmitsu (餡蜜), un dessert tradizionale simile alla nostra macedonia, che combina cubetti di agar con frutta, anko (la deliziosa marmellata di fagioli rossi) e mochi, il tutto servito con uno sciroppo scuro e molto dolce a base di zucchero, chiamato kuro-mitsu.
Fonte foto: Wikipedia
Un altro esempio è lo yōkan, una gelatina dolce e densa a base di agar, anko e zucchero, ideale per chi predilige sapori più intensi. A questo proposito, ti lascio il link all’articolo del nostro blog che approfondisce questo dolce:
Per chi invece desidera qualcosa di più leggero e fresco, c’è il mizu yōkan, una variante perfetta per l’estate. E, naturalmente, non possiamo dimenticare le coloratissime e trasparenti gelatine di frutta.
Ma il kanten non è relegato solo al mondo dei dolci. Grazie alla sua consistenza particolare e alle sue proprietà benefiche, trova impiego anche in piatti salati. Ad esempio, il tokoroten viene servito come noodle freddi, conditi in mille modi diversi – con aceto, salsa di soia e sesamo – creando un piatto leggero e rinfrescante. Nelle insalate, il kanten aggiunge consistenza e leggerezza, mentre nelle zuppe agisce come addensante delicato, conferendo una consistenza piacevole.
Tokoroten
La prossima volta che assaggerete un dolce o una pietanza giapponese con il kanten, spero vi tornerà in mente la sua affascinante storia e il magico processo di produzione del kanten-hoshi!
Immergiamoci oggi in un universo affascinante e misterioso: quello delle credenze popolari giapponesi legate al mare. Qui, un kami speciale, Funadama-sama (船玉様), si erge a protettore delle imbarcazioni e dei loro equipaggi. Conosciuto con nomi diversi a seconda delle regioni, questo spirito è venerato come il guardiano delle navi, colui che assicura traversate sicure e propizia una pesca generosa. Funadama-sama, letteralmente “spirito della nave”, è l’incarnazione della protezione divina per chiunque solchi le acque, un concetto profondamente radicato nella cultura marinara giapponese, dove il mare è da sempre fonte di vita e, al tempo stesso, un luogo insidioso.
Chi è Funadama-sama?
Nel cuore del folklore marinaro giapponese, si narra che Funadama-sama risieda nelle stesse imbarcazioni. La sua figura si intreccia con antiche tradizioni e superstizioni, tra cui un tabù ormai in declino che interdiva alle donne l’accesso ai pescherecci. Questa usanza, oggi meno diffusa, affondava le radici in arcaiche credenze popolari legate a concetti di purezza e impurità, alimentate dal timore dell’invidia che la divinità femminile poteva nutrire verso la bellezza delle donne.
Il concetto di kegare e Funadama-sama
Nel pensiero tradizionale giapponese, il concetto di kegare (穢れ) indica uno stato di impurità o contaminazione, spesso associato a eventi cruciali come la morte, il parto e, in particolare, le mestruazioni. Queste ultime, un tempo, erano percepite come una forma di kegare capace di influenzare negativamente la comunità e l’ambiente circostante.
Antiche superstizioni
Nel contesto della pesca, si riteneva che la presenza di una donna durante il ciclo mestruale a bordo potesse attirare la sfortuna, compromettere il pescato e persino scatenare violente tempeste. Questa credenza nasceva dalla paura che il kegare mestruale potesse offendere Funadama-sama, provocando la sua collera.
Un’ulteriore superstizione dipingeva Funadama-sama, spesso immaginata come una divinità femminile gelosa, pronta a infuriarsi contro la nave per la presenza di altre donne, soprattutto se giovani e belle.
Fortunatamente, queste credenze stanno gradualmente svanendo. L’evoluzione della società e la trasformazione dei ruoli di genere hanno contribuito a mettere in discussione queste antiche superstizioni. Sebbene in alcune comunità di pescatori più legate alle tradizioni il tabù persista, in molte altre zone del Giappone le donne sono attivamente coinvolte nel settore della pesca, pur rimanendo una minoranza. La presenza femminile a bordo è diventata più frequente, specialmente nelle attività di acquacoltura e pesca costiera.
Rappresentazione di Funadama-sama
La rappresentazione di Funadama-sama, il goshintai (御神体), ovvero l’oggetto che incarna il suo spirito, varia a seconda delle usanze locali. La forma più comune, diffusa in tutto il Giappone, è quella di una coppia di bambole di carta, una maschile e una femminile, simbolo di equilibrio e protezione. Altre raffigurazioni includono oggetti simbolici come cereali, monete, dadi e persino ciocche di capelli femminili. A volte, vengono offerti anche cosmetici come cipria e rossetto, un omaggio alla natura femminile di Funadama.
Coppia di bambole appartenente al Museo della prefettura di Tokushima
Si dice anche che coppia di bambole viene inclusa come sostituto della vita dei marinai in caso di incidenti.
Tradizionalmente, i carpentieri navali, i funadaiku (船大工), erano incaricati di installare il goshintai nelle nuove imbarcazioni durante la cerimonia di varo, il fune oroshi (船下ろし). Questo rito sottolineava il profondo legame tra l’arte della costruzione navale e la protezione divina. Il goshintai trovava posto in un’area specifica della barca: nelle piccole imbarcazioni in legno senza ponte, veniva ricavato un incavo nella trave di prua, la hesaki (舳先), per accoglierlo; nelle navi di maggiori dimensioni e dotate di cabina di pilotaggio, invece, veniva allestito un piccolo altare, un kami-dana, o in alternativa un hokora (祠, un piccolo santuario) all’interno della cabina stessa.
HokoraKami-dana
Intorno alla figura di Funadama-sama sono nate leggende e tradizioni affascinanti. Si racconta, ad esempio, che la divinità possa manifestarsi attraverso suoni misteriosi, come un tintinnio, per preannunciare tempeste imminenti o una pesca particolarmente abbondante. Questa credenza consolida il legame tra i pescatori e la divinità, percepita come una presenza benevola e protettiva.
Funadama-sama è oggetto di venerazione durante le festività del Nuovo Anno, con offerte votive di mochi, sakè, riso e sale. In questo periodo, le navi si adornano di rami di pino e corde shimenawa, e vengono issate grandi bandiere in suo onore.
I dadi
Un aneddoto curioso, narratomi da un capitano della marina militare giapponese che incontro spesso per lavoro, riguarda l’usanza di disporre i dadi sul kamidana secondo un ordine preciso, utilizzando una frase mnemonica e prendendo come riferimento la poppa della nave:
天一地六五東西二南三北四
Questa frase indica che i dadi devono essere posizionati con la faccia “1” rivolta verso il cielo e la “6” verso la terra. Il numero “3” è orientato verso la prua e il “4” verso la poppa, mentre il “5” si trova su entrambi i lati esterni e il “2” all’interno.
Utilizzando comuni dadi da gioco, questa combinazione risulta impossibile. Il segreto risiede nell’esistenza di dadi “maschi” e “femmina”. Mentre i dadi “femmina”, di uso comune, presentano una specifica disposizione dei numeri, i dadi “maschi” hanno una configurazione differente, essenziale per completare la “coppia sacra” durante il rituale. Questa usanza evidenzia l’importanza della dualità e del simbolismo nei rituali tradizionali giapponesi, dove anche gli oggetti più semplici, come i dadi, possono celare significati profondi.
In conclusione, Funadama-sama incarna un aspetto fondamentale della cultura marinara giapponese, intrecciando devozione religiosa e complesse credenze popolari. La sua figura testimonia il profondo rispetto e la secolare dipendenza dell’uomo dal mare.
Scopri assieme a noi lo yōkan, un dolce giapponese che ha le sue radici nella Cina antica. Dalla zuppa di montone ai fagioli azuki, un viaggio nella storia e nelle varianti di uno tra i dessert più amati dai giapponesi.
Le origini dello yōkan
Lo yōkan (羊羹) è un wagashi (和菓子), un dolce giapponese tradizionale dalla consistenza densa e gelatinosa, con una storia che affonda le sue radici in Cina, oltre 1500 anni fa. Curiosamente, il kanji di hitsuji, 羊 (pecora in italiano) suggerisce che l’antenato dello yōkan non fosse un dolce, bensì una zuppa di carne di montone. Il carattere 羹 (atsu-mono) si riferisce infatti a una zuppa densa a base di carne e verdure. Questa zuppa veniva consumata sia calda che fredda e, raffreddandosi, la gelatina della carne si solidificava, creando una consistenza che ricorda lo yōkan moderno.
Dalla carne di montone ai fagioli azuki
Introdotto in Giappone dai monaci buddisti durante i periodi Kamakura (1185-1333) e Muromachi (1336-1573) come tenshin (点心), uno spuntino consumato tra i pasti, lo yōkan subì una profonda trasformazione. A causa del divieto buddista di consumare carne, i monaci sostituirono il montone con ingredienti vegetali, principalmente fagioli azuki, farina di frumento e kuzu.
Questa versione vegetariana divenne l’antenato dello yōkan moderno, una transizione da piatto salato a dolce simile a quella del manjū (饅頭), anch’esso di origine cinese.
Evoluzione dello yōkan durante il periodo Edo
Durante il periodo Edo (1603-1868), grazie alla maggiore disponibilità di zucchero, lo yōkan si evolse ulteriormente, dando origine a diverse varianti, tra cui le principali sono:
Mushi-yōkan (蒸羊羹, cotto al vapore): preparato aggiungendo farina di frumento o fecola di kuzu alla pasta di fagioli dolci e cuocendola al vapore fino a ottenere una consistenza gommosa.
Neri-yōkan (煉羊羹, impastato): ottenuto aggiungendo agar-agar sciolto alla pasta di fagioli dolci e impastando fino a raggiungere una consistenza soda. Rispetto al mushi-yōkan, ha una consistenza più liscia e una maggiore durata di conservazione.
Il mushi-yōkan fu creato per primo e, nel tardo periodo Edo, fu sviluppato il neri-yōkan che è il tipo di yōkan più diffuso in commercio al giorno d’oggi. Esiste anche il mizu-yōkan (水羊羹), consumato soprattutto in estate, con un maggiore contenuto di acqua e una consistenza più morbida; viene generalmente servito freddo.
Altre varianti includono il kuri yōkan (栗羊羹) con castagne, il matcha yōkan (抹茶羊羹) aromatizzato con tè verde matcha e l’imo yōkan (芋羊羹) a base di patata dolce, la satsuma imo. Esistono anche versioni meno comuni con fagioli bianchi (白餡, shiroan) o aromatizzate alla frutta.
Lo yōkan viene solitamente tagliato a fette e offerto come dessert, spesso accompagnato da tè verde. La sua lunga conservabilità a temperatura ambiente, soprattutto per il neri-yōkan, lo ha reso anche un utile alimento di emergenza.