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  • Toshi Koshi Soba – 年越しそば

    Toshi Koshi Soba – 年越しそば

    La celebrazione del nuovo anno porta con sé un momento di festa. Molti Paesi e culture hanno le loro tradizioni per festeggiare, e il Giappone non fa eccezione. Uno dei modi in cui si festeggia il Capodanno è attraverso il cibo. Tradizionalmente ci sono alcuni cibi che vengono consumati durante i festeggiamenti e molti dei piatti o degli ingredienti utilizzati sono in realtà simbolici di qualcosa. Anche se, a seconda della zona del Giappone, esistono delle varianti, in generale ci sono dei piatti principali che vengono sempre preparati in questo periodo dell’anno.

    Durante questo periodo i giapponesi sono soliti riunirsi in famiglia e consumare dell’ottimo cibo. Per mia esperienza si tratta di un escalation di abbuffate incredibile

    Toshi koshi soba – 年越しそば

    I toshi koshi soba sono un piatto che si usa tipicamente mangiare la notte di Capodanno per salutare e lasciarsi alle spalle l’anno passato. Questo giorno in giapponese è conosciuto con il nome di ōmisoka (大晦日). Nella lingua giapponese con il termine misoka (晦日) ci si riferisce normalmente all’ultimo giorno del mese.

    I soba sono una pasta di grano saraceno dalla forma simile agli spaghetti che possono essere consumati sia caldi che freddi. Assieme ad udon (fatti con il grano) e al ramen sono tra i cibi più amati e consumati dai giapponesi.

    Scopriamo assieme le origini di questa tradizione.

    Si dice che i soba siano stati riconosciuti come “cibo” prima del periodo Nara (710-794). Per molto tempo, la soba è stata consumata sotto forma di porridge ottenuto dalla bollitura dei chicchi di grano saraceno o come torte, preparate cuocendo il grano saraceno e impastandolo con acqua o altri ingredienti. Solo durante il periodo Edo (1603-1867) la soba fu tagliata in lunghi “spaghetti” come la conosciamo oggi. Durante questo periodo le famiglie di commercianti avevano l’abitudine di mangiare i soba alla fine di ogni mese. Questi pietanza era chiamata misoka soba (晦日そば) e la lunghezza e sottigliezza di questi lunghi “spaghetti” era considerata di buon auspicio per la longevità della famiglia e dei propri affari. A quei tempi, i soba erano anche un cibo veloce, una sorta di street food di periodo Edo, che poteva essere consumato rapidamente nei negozi o nelle bancarelle che si trovavano lungo le strade, perfetto per gli impegnativi giorni di fine mese. Con il passare del tempo, l’usanza di mangiare i soba alla fine di ogni mese cadde in disuso, ma rimase la tradizione di mangiarli a Capodanno, quando divenne nota come toshi koshi soba o “Soba di Capodanno”.

    Perché si mangiano i soba a Capodanno.

    L’usanza di mangiare i soba a Capodanno è conosciuta con diversi nomi: il già citato e più usato toshi koshi soba (年越しそば), ootsugomori / oomisoka soba (大晦日そば, il kanji 大晦日 si può leggere sia oomisoka che ootsugomori) e infine toshi tori Soba (年取そば). In Giappone, il benvenuto al nuovo anno è chiamato anche toshitori.

    Poiché i soba sono lunghi e sottili, le persone li mangiavano e pregavano di vivere a lungo. Erano anche considerati un alimento salutare durante il periodo Edo (1603-1868), quando il beriberi era molto diffuso tra la popolazione e si credeva che mangiare soba avrebbe prevenuto l’insorgere di questa patologia. Durante il periodo Edo, il beriberi era diffuso a causa di carenze nutrizionali. Era accompagnata da stanchezza e intorpidimento e, se grave, era fatale. Le persone più soggette alla malattia erano quelle di alto rango, come gli shōgun, i guerrieri e gli aristocratici. Si diceva che il consumo di soba prevenisse l’insorgere del beriberi e si mangiava soba per iniziare il nuovo anno in buona salute. Il beriberi è una malnutrizione causata dalla mancanza di vitamina B1. Oggi si crede che durante il periodo Edo le persone appartenenti all’aristocrazia di quel periodo abbiano smesso di mangiare il riso integrale e abbiano iniziato  a mangiare principalmente riso bianco con pochi contorni, il che ha creato un forte squilibrio nella loro alimentazione. Il grano saraceno è ricco di vitamina B1 e anche se all’epoca si trattava solo di dicerie, in realtà, con le informazioni di cui siamo in possesso oggi, si trattava di un alimento che poteva essere veramente efficace nella prevenzione del beriberi.

    In quel periodo si usava il termine chōju kigan (長寿祈願), preghiera per la longevità e ci si riferiva spesso ai soba usando nomi come chōju soba (長寿そば) o jumyō soba (寿命そば). Entrambi i termini chōju e jumyō sono sinonimi di longevità, di lunga vita che veniva associata con la lunghezza caratteristica dei soba. Sono chiamati anche in altri modi come ad esempio:

    Enkiri soba – 縁切りそば

    L’usanza di mangiare i soba a Capodanno era vista come un modo per tagliare i legami con i problemi o disastri accaduti durante l’anno che stava per concludersi. I soba, molto più sottili degli udon o di altri alimenti giapponesi, sono molto più facili da tagliare e quindi ben si adattavano al desiderio delle persone di lasciarsi alle spalle le fatiche dell’anno.

    Fuku soba – 福そば

    Si racconta che gli orafi usavano gnocchi di farina di grano saraceno per raccogliere l’oro sparso durante il loro lavoro, quindi il grano saraceno era considerato un portafortuna per la raccolta dell’oro, quindi mangiare soba era un modo per augurare prosperità economica.

    Infine anche la pianta stessa del grano saraceno è molto resistente alla pioggia e al vento e ricresce bene quando viene esposta al sole. Per questo motivo, di è sempre creduto che le persone mangiavano i soba per pregare di avere buona salute nell’anno successivo.

    Non esistono regole precise sugli ingredienti o su come mangiare i soba a Capodanno. Possono essere serviti freddi o caldi, accompagnati da tempura o altri ingredienti. Un ingrediente non manca mai ad accompagnare questa pietanza, il cipollotto, negi (ねぎ) in giapponese. Esiste un detto, forse caduto in disuso, che mi spiegò mio suocero durante il mio primo Capodanno in Giappone e che recita:

    一年間の頑張りをねぎらい新年の幸せを祈るネギ。

    Ichinen no ganbari wo negirai shinnen no shiawase wo inoru negi.

    Negi per apprezzare un anno di duro lavoro e per un felice anno nuovo

    La parola “negi” è usata più volte all’interno di questa frase. Una volta all’interno della parola “negirai” che ho tradotto come “apprezzare” l’anno passato di duro lavoro. Alla fine della frase si nasconde sia all’interno del termine “inoru“, che vuol dire pregare. I sacerdoti shintoisti anziani sono chiamati negi (禰宜) da qui l’omofonia con il termine negi che indica il cipollotto.

    Data la loro nauta di cibo portafortuna c’è l’usanza di accompagnarli anche con altri ingredienti considerati porta fortuna oltre alla negi.

    Ebi – 海老

    Gamberi: come spiegato in un altro mio post la forma del corpo del gambero ricorda le persone anziane quindi questo alimento viene mangiato come augurio di longevità.

    Shungi – 春菊

    Le foglie di crisantemo, simbolo delle famiglia imperiale e del Giappone stesso. È una pianta invernale ed essendo considerato un alimento stagionale da aggiungere specialmente nelle zuppe. È considerato un augurio di prosperità.

    Kamboko – かまぼこ

    Un pasta di pesce dal colore bianco e rosso simboleggiante la felicità.

    Omelette di uova – 卵焼き

    Per il loro colore dorato come augurio di fortuna e la prosperità.

    Abura-age – 油揚げ

    Tōfu fritto per pregare per un buon raccolto, per un’attività commerciale prospera e per la sicurezza della famiglia.

    I soba di Capodanno possono essere mangiata in qualsiasi momento durante il 31 Dicembre. Non è obbligatorio mangiarli al mattino o alla sera in quanto non c’è fortuna o sfortuna legata al momento della consumazione.

    In genere, in molte famiglie si mangiano durante la cena quando si è tutti riuniti insieme e si aspetta l’anno nuovo. Per esempio nella famiglia di mia moglie si mangiano sempre prima della fine dell’anno perché si vuole mantenere il significato originale di questa usanza che come ho spiegato in precedenza serve a tagliare i legami con l’anno vecchio lasciandosi alle spalle stanchezza e negatività guardano ad un anno nuovo ricco di fortuna e felicità. La sera dell’ultimo dell’anno ci si ritrova tutti assieme a casa dei genitori di mia moglie (di solito si usa andare nella casa dei genitori del marito o spesso si usa fare ad anni alterni) e mangiando e bevendo ai attende il nuovo anno guardando la televisione.

    I toshi koshi soba sono una tradizione molto importante in Giappone. Anche se siete turisti e vi trovate in Giappone a Capodanno non dimenticate di mangiare un buon piatto di soba salutando l’anno passato e guardando con speranza ad un felice e prospero anno nuovo.

    N.B: ai bambini piccoli fino ai due o tre anni non vengono fatti mangiare perché si teme che possano insorgere reazioni allergiche. Una reazione allergica causata dai soba è molto fastidiosa anche per gli adulti quindi si consiglia di non darli ai bambini perché non ci potrebbe accorgere dei sintomi.

  • Kagami mochi – 鏡餅

    Kagami mochi – 鏡餅

    Oggi parliamo del kagamimochi

    I kagamimochi, nome composto dalla parola kagami “specchio” e mochi, le i famosi dolci fatti con il riso, rappresentano un’offerta al kami del nuovo anno e sono considerati uno yorishiro (依り代), termine di derivazione shintoista che viene usato per indicare un oggetto capace di attirare lo spirito dei kami, dando così loro uno spazio fisico da occupare durante le cerimonie religiose. Una volta che uno yorishiro ospita effettivamente un kami, diventa uno shintai (神体).

    Il termine kagamimochi trova le sue origini in un’antica tradizione di corte conosciuta come hagatame (歯固め, lett. rinforzare i denti) che consisteva nel mangiare dei dolci di riso duri durante le festività di Capodanno. Secondo la tradizione, le persone con denti forti possono mangiare di tutto e vivere a lungo, per cui la gente mangiava i kagamimochi nella speranza di vivere a lungo e godere di buona salute. Il nome kagamimochi deriva dallo specchio circolare utilizzato nei rituali come luogo di dimora delle divinità, mentre i due mochi rappresentano l’anima. Hanno due dimensioni diverse perché si dice che siano la rappresentazione del sole e della luna, dello yang e dello yin, e vogliono anche simboleggiare il perfetto invecchiamento dell’anno. Sin dall’antichità si crede che il kami del nuovo anno divida la sua anima tra noi, insieme alla felicità e alle benedizioni del nuovo anno. Il simbolo di questo spirito è proprio il kagami-mochi.

    La parola tamashii (魂, anima) é molto importante perché in Giappone é sempre stata considerata come l’energia, il potere che permette la vita. Anticamente si pensava che all’inizio dell’anno la tamashi del kami venisse condivisa con tutti gli esseri viventi. In altre parole, la divinità donava una parte della propria anima per conferire a tutte le creature il potere necessario per vivere un anno interno. Da qui deriva anche il kazoedoshi (数え年) ovvero il sistema di calcolare l’età di una persona. Secondo questo sistema ogni bambino compie il primo anno di vita al momento della nascita. I neonati giapponesi partono quindi da un anno di età e ne acquistano uno in più al trascorrere di ogni nuovo anno lunare, piuttosto che al momento del loro compleanno. Questo sistema è stato abolito per legge ma viene ancora ampiamente usato.

    Il kagamimochi ospita quindi il mitama (御魂), l’anima della divinità. I dolci di riso rappresentano l’anima del kami del nuovo anno, che è l’anima dell’anno a venire. I capofamiglia condividevano le torte di riso, che rappresentavano lo spirito dell’anno, con le loro famiglie come “spirito del nuovo anno” o “palline di riso del nuovo anno”.

    Il significato di kagamimochi é legato al significato della parola kagami, specchio in giapponese. Gli specchi antichi, di bronzo e di forma rotonda, sono stati utilizzati fin dal periodo Yayoi. Data la loro proprietà di riflettere la luce del sole e il loro potere di brillare come esso, furono paragonati ad Amaterasu, la divinità del sole nella mitologia giapponese, e vennero considerati come oggetti in cui dimoravano i kami.

    Questi dolci vengono normalmente esposti sopra un supporto di legno detto sanpō (三宝). Il dolce viene appoggiato sopra ad un foglio di carta detto shihōbeni (四方紅). La funzione di questo foglio di carta non è puramente ornamentale ma serve come augurio e protezione verso l’abitazione contro eventuali incendi. Sono spesso ornati con una striscia di alga kobu e con una piccola striscia di cachi essiccati.

    Questi dolci vengono spesso decorati con la daidai (橙), una varietà di arancia giapponese. Il nome viene anche scritto nel seguente modo 代々, dove il kanji 代 ha il significato di “generazione” (il seguente simbolo 々, detto noma, viene utilizzato in giapponese per ripetere il kanji). Quindi così come i frutti della pianta di daidai non cadono facilmente dopo la maturazione invernali e quindi superano l’anno così si crede che anche la famiglia continuerà a prosperare per le generazioni a venire.

    Un’altra decorazione tipica è il kushigaki (串柿) ovvero dei cachi essiccati infilati con uno spiedino. Il caco è un frutto legato alla buona sorte. Mentre il caco essiccato rappresenta un’alta spiritualità.

    Perché il caco è un frutto legato alla buona sorte?

    La lingua giapponese arriva in nostro soccorso. La parola kaki (Lett. caco in italiano) normalmente è scritta con il seguente kanji 柿. In giapponese esistono gli ateji (当て字) che sono dei kanji che vengono usati per scrivere le parole solamente per il loro valore fonetico e a volte anche per il loro significato. (Il kanji utilizzato per la parola sushi per esempio è un ateji. I due kanji che compongono la parola sushi sono stati scelti per la loro pronuncia e non per il loro significato. Il significato della parola sushi non ha niente a che vedere con il pesce crudo o il riso ma deriva dall’aggettivo sushi (酸し) che in giapponese significa acido, aspro e riflette la natura di tutti i piatti della cucina giapponese a base di riso e di aceto di riso).

    Kaki può essere scritto anche nel seguente modo 嘉来 che può essere tradotto come “felicità in arrivo” e in giapponese si usa l’espressione:

    幸せを“かき”集める。

    Shiawase wo kaki atsumeru.

    Raccogliere la felicità.

    Il caco infilzato rappresenta la spada facente parte dei sanshu no jingi (三種の神器), le tre insegne Imperiali giapponesi. Mentre il kagamimochi rappresenta lo specchio e l’arancio la gemma.

    Yuzuriha – ゆずり葉

    Foglie di yuzuri

    Le foglie vecchie di questa pianta cadono dopo la comparsa di quelle nuove, indicando il passaggio della famiglia ai discendenti e la continuazione della linea familiare.

    Kobu – 昆布

    Si usa decorare i kagami-mochi anche con l’alga kobu per attirare la felicità.

    Shide – 紙垂

    Spesso vengono decorati anche con delle strisce di carta dette shide provenienti dalla tradizione shintoista con la loro caratteristica forma a zig-zag.

    Urajiro – 裏白

    Tre le decorazioni si possono trovare delle foglie di felce, conosciute come urajiro, che presentano una superficie verde, ma con la parte inferiore bianca, a significare un cuore puro e innocente, senza macchie. Le foglie crescono in coppia, quindi si usano anche per augurare un felice e longevo matrimonio.

    Normalmente in famiglia esponiamo i kagamimochi una volta terminate le pulizie per l’arrivo del nuovo anno badando bene di evitare il 29 Dicembre perché considerato giorno nefasto. Questi dolci vengono solitamente aperti e mangiati durante un rituale ispirato alla tradizione shintoista chiamato kagami biraki (鏡開き, apertura dello specchio), che si tiene il secondo sabato di Gennaio (in alcune zone del Giappone fino al 20 Gennaio), pregando per la salute e il benessere della famiglia. In passato, questo rituale si svolgeva il 20 di Gennaio, giorno conosciuto anche come hatsuka shōgatsu (二十日正月) ma, poiché Tokugawa Iemitsu, il terzo Shogun Tokugawa, morì proprio il 20 aprile, la data fu spostata all’11 Gennaio evitando il 20 del mese, che era l’anniversario della sua morte. Il cambio di data fu probabilmente una misura dovuta al fatto che questo evento si svolgeva originariamente all’interno della casta dei samurai.

    Il primo Capodanno che ho trascorso in Giappone ho chiesto a mia moglie se era possibile tenere esposto il kagamimochi tutto l’anno senza mangiarlo oppure riporlo da qualche parte. Lei mi spiegò che queste non sono delle semplici offerte come tante altre che è consuetudine fare durante l’anno in Giappone. Essendo considerato uno shintai si crede che al suo interno dimori la divinità del nuovo anno e aprendolo si permette a quest’ultima di uscire, compiere la sua benedizione sulla famiglia per poi fare ritorno al suo luogo di origine. Si dice che il kagami biraki abbia avuto origine da un’usanza dei guerrieri durante il periodo degli Stati Combattenti chiamata gusoku iwai (具足祝い). Si trattava di un evento di Capodanno in cui si offriva i kagamimochi davanti a spade, armature, elmi e altri oggetti di uso comune tra i samurai.

    La cerimonia del kagami biraki segnava la fine del nuovo anno e l’inizio dei lavori dell’anno nuovo. Si dice che i samurai aprivano i loro forzieri, i mercanti aprivano i loro magazzini e i contadini iniziassero l’anno con la semina del riso. Poiché questo rituale ebbe origine all’interno della classe dei samurai, era proibito tagliare questi dolci usando coltelli o altre lame, in quanto il gesto veniva associato al seppuku. La gente iniziò a romperli a mano o con un martello. Fu inoltre deciso di utilizzare la parola biraki (che sarebbe hiraki), ovvero aprire piuttosto che la parola waru (割る, rompere) perché portava sfortuna.

  • Perché gli esseri umani hanno sviluppato una conoscenza scientifica solo in questi ultimi secoli?

    Il desiderio di capire e il piacere di conoscere sono vecchi quanto il mondo. I metodi di analisi e soprattutto gli assunti taciti alla base del sapere sono però cambiati molto. Questi cambiamenti a loro volta sono all’origine della rivoluzione scientifica, una rivoluzione che ha permesso un aumento senza precedenti della conoscenza e della potenza dell’essere umano. In altri termini, prima di essere quantitativa, l’evoluzione della scienza è stata qualitativa. Ai tempi di Aristotele la personificazione e l’antropomorfizzazione della natura erano procedura normale. Ora l’eliminazione dell’osservatore è uno degli aspetti centrali della sperimentazione.

    Mi sono convinto che questa rivoluzione scientifica non sia stata né ovvia né necessaria, ma che al contrario sia una caratteristica della nostra particolare evoluzione di europei. Vivo in estremo oriente da decenni, ma solo da qualche anno mi sono accorto di alcune differenze molto profonde nei modi di pensare asiatici e europei. Dopo molte ore di conversazione con Robby Shima, ti ringrazio, mi sono accorto della grande somiglianza fra il pensiero classico greco e romano e certi aspetti del pensiero moderno asiatico.

    Prima di procedere però credo sia bene chiarire quali tipi di conoscenza esistono.

    Esistono le scienze sociali, che studiano l’essere umano e hanno metodologie proprie.

    Esistono poi le scienze naturali, che sono puramente descrittive e quantitative e mirano a spiegare sulla base di leggi il reale e quindi prevederlo. Personalmente non vedo ragioni di principio per cui alcune, ma non tutte, le prime non possano venire assorbite futuro almeno in parte nelle seconde.

    Poi poi ci sono l’ingegneria e la tecnologia. Passo l’onore e l’onere di definirle a Vito LaVecchia

    che afferma che: 

    1. L’ingegneria è la mente e lo sforzo per creare qualcosa; la tecnologia è il risultato dell’applicazione di questa mente e di questo sforzo.
    2. L’ingegneria è più specifica della tecnologia.
    3. L’ingegneria è un problema mentre la tecnologia è la soluzione.
    4. La stessa tecnologia può essere utilizzata più e più volte.
    5. La tecnologia disponibile viene utilizzata per progettare una tecnologia più avanzata.
    6. La tecnologia è più affidabile dell’ingegnerizzazione di qualcosa di nuovo.

    Molta della conoscenza accumulata in passato era in realtà ingegneria e tecnologia, ma non scienza. Non era rivolta a conoscere ma a fare. Una distinzione sottile, ma significativa. Eratostene, che pagò qualcuno perché contasse i passi fino a Siene perché aveva udito che a mezzogiorno un obelisco non vi proiettava ombra, mentre uno dove abitava lui sì, si servì poi di tale dato per calcolare il diametro della terra. Agì da ingegnere, ma anche da scienziato, perché nella circonferenza terrestre cercava conoscenza fine a se stessa. Si servì delle tecnologie di cui disponeva in modo sagace. Ma perfino lui non era un uomo moderno. Come tutti i suoi contemporanei, anche lui credeva che le cose si muovono perché esse stesse in qualche modo si vogliono muovere. Questo stato di cose e continuato fino a tempi recentissimi.

    Robert Boyle, Roger Bacon, Isaac Newton e mille altri scienziati erano anche alchimisti, e non vedevano una contraddizione fra le due attività.

    Eppure l’alchimia è incompatibile con la scienza moderna. SI serviva di metodi usati anche dalla scienza, in particolare dalla chimica, ma era più affine alle scienze umane perché vedeva lo sperimentatore come parte dell’esperimento. In altri termini, un esperimento poteva riuscire a Paracelso e non a un suo discepolo per ragioni del tutto spirituali. In questo senso, tali scienziati non fanno ancora parte della scienza moderna, ma di una sua fase tradizionale. La scienza moderna è europea nel senso che è il prodotto di fattori non presenti altrove. Non è una conseguenza necessaria del progresso. Che questo sia il caso strato dimostrato in modo che personalmente trovo convincente da un’analisi delle culture dell’estremo oriente. 

    Quasi la metà della produzione industriale proviene da solo tre nazioni, quattro includendo Taiwan. Nessuna delle quattro ha un passato simile al nostro, tutte sono animiste e politeiste. Vorrei dimostrare che questo non può non avere conseguenze negative analoghe a quelle che hanno ritardato l’evoluzione della scienza in Europa.

    Animismo e politeismo dipendono l’uno dall’altro in un modo complesso, ma sono due facce della stessa cosa.

    L’animismo attribuisce caratteristiche umane a oggetti inanimati. attribuisce anche caratteristiche esclusive degli organismi a enti che non hanno la struttura che definisce un organismo. Una roccia non ha organi.

    Il politeismo separa le forze della natura dal loro contesto, vedendole come indipendenti e non assolute, nel senso di non necessariamente sempre valide. Essendo il prodotto della volontà di una entità dentro di sé in modo simile a un essere umano, esistono nella misura in cui questi lo decide. Un corollario di questo fatto è che ogni fenomeno, ogni evento è il risultato di una volontà precisa e non di un meccanismo naturale risultato dell’interazione di enti non necessariamente coscienti di sé.

    Un altro il fatto che le creature che sono la personificazione di queste forze fanno una sola cosa. Perfino il creatore sa solo creare un universo, poi scompare.

    Il politeismo ritiene inoltre che l’esistenza sia fatta di cicli, ciascuno legato ad un luogo o evento.

    Il cristianesimo ha portato il tempo lineare. Il Dio cristiano è un Dio radicalmente diverso dai precedenti. Non è un Dio esclusivamente creatore, non appartiene a un luogo o evento preciso ma e in grado di muoversi linearmente nel tempo.

    Il monoteismo anche portato l’abitudine al pensiero astratto. L’animismo e politeismo invece è al tempo stesso estremamente concreto ed estremamente astratto. È estremamente concreto perché ritiene che solo l’esperienza individuale conti qualcosa. Crede quindi solo a ciò che si vede e si tocca. L’astratto non esiste. Perfino l’anima mangia, dorme, si ammala. Al tempo stesso, la sua stessa metodologia lo costringe a trovare soluzioni assurde, come la credenza diffusa in tutto il mondo che chi annega lo fa perché chi è annegato prima di lui gli tira le gambe. Questo fra l’altro è un esempio di come l’animismo generi spontaneamente la paura. Se non esistono eventi che non siano voluti, è evidente che qualsiasi cosa negativa appaia è opera di un nemico..

    Il cristianesimo infine ha diviso il mondo dei morti da quello dei vivi, rendendo impossibili il culto degli antenati e quindi le lotte tribali. La sua fiducia nell’esistenza di un’origine unica della realtà ha facilitato il nascere della fiducia nell’esistenza di regole universali cui la materia deve obbedire.

    Le caratteristiche del pensiero moderno sono:
    1 Abbandono dell’intuizione a favore del pensiero astratto e logico. Il politeismo cinese e l’animismo giapponese non ho mai

    2 Enfasi sul pensiero quantitativo.

    3 Il concetto di natura come una macchina, una macchina di cui l’osservatore umano è parte.

    4 Il dubbio metodico di Descartes, a mio parere il concetto più importante fra questi.

    L’illuminismo fu una delle conseguenze della rivoluzione scientifica. La scienza, che piaccia o meno, è divenuta l’argomento risolutivo, anche arbitra di morale quando possibile. Il suo valore viene ritenuto (giustamente) assoluto. Una teoria scientifica non è mai stata provata falsa, ma sempre vera come caso speciale della teoria che viene a sostituire.

    Citiamo la Britannica (si, lo so che è un’enciclopedia)

    L’improvvisa comparsa di nuove informazioni durante la rivoluzione scientifica ha messo in discussione le credenze religiose, i principi morali e lo schema tradizionale della natura. Ha anche messo a dura prova le vecchie istituzioni e pratiche, rendendo necessari nuovi modi di comunicare e diffondere le informazioni. Innovazioni di spicco includevano società scientifiche (che sono state create per discutere e convalidare nuove scoperte) e articoli scientifici (che sono stati sviluppati come strumenti per comunicare nuove informazioni in modo comprensibile e testare le scoperte e le ipotesi fatte dai loro autori).

    Io vivo in una società (quella giapponese) ed in un continente (l’Asia e, più esattamente, in Estremo Oriente) molto particolari. Il Giappone e la Cina costituiscono il 36.7% dell’output industriale mondiale, il che vuol dire che, aggiungendovi la Corea del Sud e Taiwan, quest’area quasi certamente produce il 45% almeno di tutta la tecnologia del mondo.

    La rivoluzione scientifica qui non è avvenuta. Ne ho parlato più volte, ma riassumo brevemente le caratteristiche mi sembra il pensiero abbia in Giappone.
    1) Una forte ostilità nei confronti del pensiero astratto e fine a sé stesso. Il pensiero giapponese acquista coerenza e profondità se è finalizzato.

    2 Una forte tendenza all’animismo, che si esprime nell’umanizzazione della natura e nell’uso dell’intuizione, non la logica, nel conoscere la realtà, e nella diffusa credenza che gli oggetti sono vivi. Per sincerarsi che questo effettivamente accade, leggere i libri di Marie Kondo, stampati anche in Italia.

    3 Una visione politeistica del mondo, visto come composto di forze che possono agire al di fuori di un contesto. Le leggi della natura possono avere eccezioni quando un individuo possiede le caratteristiche spirituali necessarie.

    4 Il fine di un gruppo non è la giustizia/verità, ma l’armonia.

    5 Nella natura esistono altre forze, oltre quelle a noi conosciute. La sorte è una di queste. La magia è un’altra. vedi il punto 3.

    6. Siccome l’agire delle forze della natura è affidato ad un ente antropomorfico, che le scatena con una decisione sua conscia, nessun evento è casuale, ma al contrario deciso da qualcuno e diretto a qualcun altro. La mia risposta a questa domanda sarebbe:

    La scienza moderna è un evento unico e non necessario risultato di una serie di eventi particolari della storia europea. La produzione di sapere si è moltiplicata e accelerata come conseguenza di tali eventi. L’Asia ha avuto una storia diversa. Mi aspetto quindi l’insorgere di differenze future fra Europa ed Asia nel settore scientifico in termini di metodologia e risultati. Ammetto di stare parlando di cose complesse che conosco e capisco solo in parte. Caveat emptor.

    Note a piè di pagina

  • I nomi, le bambole, gli specchi

    Una cultura differente quanto quella giapponese non può essere conosciuta se non poco a poco. Una delle cose che sto scoprendo in questi giorni, ma che ho in testa da molto tempo, è il rapporto che c’è in Giappone fra un’immagine e quello che rappresenta, un rapporto che non capisco ancora bene. In Europa le due cose sono ben distinte, salvo in alcuni casi particolari. In Giappone non è così. Un’immagine ha qualcosa dell’originale, e questo vale soprattutto per gli esseri umani. L’immagine di un essere umano ha qualcosa di sacro. Anzi, molti la trattano come se fosse parte integrante dell’originale. Vale la pena di ricordare che in certe culture è l’ombra di un essere umano ad avere qualcosa dell’originale. È proibito calpestarla. Esaminando tutti i casi di cui ho conoscenza, alla fine mi sono reso conto che che l’adorazione della figura umana viene fatta prevalentemente in tre forme.

    Gli specchi

    Perché gli specchi? Per saperlo basta ricordarsi di quello che diceva Jorge Luis Borges. Siano maledetti gli specchi e il sesso, perché moltiplicano gli esseri umani.

    Gli specchi riflettono la nostra immagine, che a sua volta è ritenuta parte integrante di chi siamo. Chi possiede una nostra immagine possiede parte di noi e può colpirci e controllarci attraverso di essa. Gli specchi sono quindi oggetti maledetti.

    Lo specchio è un oggetto affascinante che in estremo oriente era tradizionalmente tenuto di solito rivolto in giù, per proteggerne la superficie ma anche perché non ne uscissero mostri e altre abominazioni. Queste caratteristiche rendono gli specchi stessi tanto sacri che uno dei tre oggetti di potere necessari perché l’imperatore possa esercitare la sua autorità religiosa è uno specchio, lo Yata no Kagami.

    Specchio che è anche uno degli oggetti più comuni tra quelli usati per ospitare un kami in un santuario. Mi spiego. Uno spirito non ha corpo, quindi è impossibile dedicargli devozioni perché non si sa dove trovarlo. Per questo gli viene dato qualcosa in cui localizzarsi. Se qualcosa effettivamente custodisce uno spirito, questo qualcosa si chiama shintai, “il corpo di un kami”. Un oggetto che di sua natura attrae gli spiriti, e quindi adatto ad essere uno shintai, sì chiama yorishiro, o “sostituto di uno spirito”. Parole da non dimenticare, perché sono tra le più importanti per capire questo paese. Gli specchi sono yorishiro tradizionali e comunissimi nei santuari Shintō. Lavenerazione degli specchi è retaggio di tutti i paesi dell’orbita culturale cinese.

    I nomi

    I nomi delle cose hanno importanza? C’è chi dice di sì. Ormai in Europa nessuno ci fa caso, ma un tempo anche da noi c’era una lunga tradizione che legava il nome all’essenza di una persona. Sappiamo per esempio che un’antica città aveva un “nome vero” segreto ed un altro, quello di uso comune: Roma è il nome comune. Il nome vero e segreto della nostra capitale è andato perduto.

    Per tutta la storia scritta del Giappone, cioè dal 553 d.C. circa fino al 1868, una persona (Inizialmente solo nobili, più tardi il diritto al cognome fu esteso a tutti.)ha avuto un minimo di due nomi. Uno era il cosiddetto nome vero, o imina (諱), che non andava mai pronunciato per alcun motivo. la grafia originale non era questa ma 忌み名. Solitamente il primo carattere sta per contaminazione, per cui la parola si risolve“ parola contaminata, ma in questo caso il termine significa piuttosto “nascosto“, per cui la frase vuol dire nome nascosto,.Appunto.

    Per chiamare una persona se ne usava un altro la cui composizione dipendeva dall’era, dalla classe sociale e da altri elementi, ma la cui funzione era sempre di nascondere il vero nome. Nell’era Heian i guerrieri avevano un rapporto di quasi schiavitù con chi li assumeva e quindi davano una lista dei veri nomi di tutti i componenti di un gruppo di soldati al loro padrone, a riprova della loro fedeltà.

    Era di capitale importanza tenerli nascosti il più possibile per evitare appunto che malintenzionati li venissero a conoscere. Per questo ad esempio Ashikaga Takauji si faceva chiamare Gosho, Onorevole Luogo. Tokugawa Ieyasu, volendo essere qualcosa di più, si faceva chiamare Ogosho, Onorevole Onorevole luogo. La lingua parlata della famiglia imperiale in passato si chiama Goshokotoba, la lingua dell’onorevole luogo. Chiamare l’imperatore per nome in Giappone è ancora evitato. Murasaki Shikibu e Sei Shonagon, le scrittrici che ci hanno dato il Genji Monogatari e il Libro da Cuscino, essendo donne e non avendo doveri formali da espletare, riuscirono a tenere nascosto il loro a. Quelli con cui sono conosciute sono titoli nobiliari. Questo costume durò per tutta la storia scritta del paese, quindi quasi 1500 anni, finché ne venne ufficialmente abolito l’uso nel 1868. In quell’epoca esso aveva infatti un’esistenza legale riconosciuta e norme di uso sancite per legge.

    Questa importanza dei nomi affiora anche nella splendida animazione di Miyazaki Hayao, la città incantata.

    Chihiro è la bambina protagonista del film. Il suo nome si scrive con due caratteri, 千尋. Il primo vuol dire mille e si legge chi oppure (quando non fa parte di composti) sen. Il secondo, hiro, è una vecchia unità di misura equivalente a un palmo. All’inizio del film, Chihiro incontra Yubaba, proprietaria dello stabilimento balneare. Chihiro cerca lavoro, ma la vecchia strega non ha alcuna intenzione di assumere una ragazzina, men che meno una vivente in una città di spiriti. Alla fine si lascia convincere, ma le toglie il secondo carattere dal nome, che si stacca dal contratto e le vola in mano. Yubaba lo mette in tasca. Il chi di Chihiro, ora da solo sul contratto, si legge di conseguenza Sen. E infatti Yubaba annuncia alla ragazzina che ora il suo nome è Sen.

    Appropriandosi di parte del nome di Chihiro, Yubaba si impadronisce anche della sua anima, cosa che ha fatto del resto con il protagonista maschile del film, Haku. Haku le dice di non dimenticare mai la seconda parte del suo nome, perché in tal caso la sua anima sarà prigioniera di Yubaba. Lui stesso ha dimenticato il proprio e non può fuggire. Ci riuscirà alla fine del film, quando Chihiro glie lo ricorderà.

    La figura umana

    Questa è la rappresentazione più diretta dell’essere umano, quella che ha più significati ed è più usata e protetta. Basti pensare alle bambole, le fotografie, i dipinti.

    Alle bambole si fanno i funerali, altrimenti si coprono loro gli occhi prima di buttarle via. CI sono cerimonie funebri anche per fotografie, radiografie, MRI, ecc. Si fanno i funerali ai pennelli con cui si disegnano esseri umani, fumetti per esempio. A Kamakura, dove vivo, tutte queste forme di funerale per oggetti sono eseguite tutto l’anno, spesso con gran fanfara, come nel caso del funerale delle bambole a Hongakuji.

    Si usa la figura umana anche per riti di purificazione. Si fa uso per questo di una figuretta in carta detta hitogata, ma c’è anche quella di un’automobile (kurumagata). ci scrivi sopra il tuo nome (nota bene: il tuo nome), ci aliti sopra, te la passi sul collo, la bruci e i tuoi peccati sono storia.

    Le bambole vengono usate in un grande numero di cerimonie e festival. C’è persino il festival delle bambole, hina matsuri, molto importante perché le bambole rappresentano l’imperatore.

    Per concludere questo breve post, fatto per schiarirmi le idee, una menzione di Inari, senza dubbio il più popolare fra i kami antropomorfi. Ma è poi antropomorfo? Le sue rappresentazioni sono molto rare.

  • Chi è o cos’è Rin in “la città incantata” di Miyazaki Hayao

    Vorrei tentare di dare un’idea a chi non parla lingue straniere di quali siano i problemi, le ambiguità e le decisioni, arbitrarie ma inevitabili, che sono il pane quotidiano di tutti i traduttori.

    Al livello più basso stanno gli oggetti che esistono in una cultura, ma non nell’altra.

    Cos’è questo aggeggio? Potrei dirvene il nome, ma non vi direbbe nulla. A cosa serve? Serve per montare la schiuma del tè verde, una tecnica che da noi non si usa, ma che in Giappone è frequente. Supponi che in un giallo la colpevolezza di un personaggio dipenda dalla presenza o meno di questo oggetto? Faccio bene a sostituirlo con qualcos’altro di noto al lettore europeo, ad esempio uno schiaccianoci? Io direi di no, perché si tratta di eliminare informazioni significative, ma non vedo alternative. Non posso spiegare cos’è un chasen, perché è così che si chiama, mentre traduco un thriller.

    Rin

    Un altro esempio, questa volta da “La città incantata” di Miyazaki Hayao. All’inizio del film Chihiro incontra Lin, una ragazza molto carina e femminile. In giapponese però appena apre bocca diviene evidente che qualcosa non quadra. Lin parla come un uomo in una maniera ed una misura che è impossibile trasmettere in altre lingue, ma che è vitale per definire il personaggio. La vedete sulla sinistra nell’illustrazione qui sopra.

    In una scena poco dopo il loro primo incontro, Lin dà un manju (qualcosa da mangiare; come tradurre manju? Lasciarlo com’è? ) a Chihiro, aggiungendo:

    “Ore ga daidokoro de kapparatta ze”.

    Se traducessi la frase come “L’ho rubato io in cucina.” di errori non ce ne sarebbero. Mancherebbero però parecchi fatti su Lin che occorre assolutamente sapere.

    Lin, nonostante le apparenze, è un uomo o si considera un uomo. Usa infatti un termine per “io”, ore appunto, che è non solo tipicamente maschile, ma che viene usato da uomini in presenza di altri uomini, è in altri termini cameratesco. Lin poi usa un verbo, kapparau, traducibile con “sgraffignare”, che indica in modo certo che ha rubato e che non si sente per nulla in colpa di averlo fatto. Infine, Lin termina la frase con un clamoroso ze! Cos’è quel ze?

    In Giapponese le interiezioni come il ne di certi lombardi, il ve’ dei veneti sono comuni al punto che è raro che una frase termini senza che ve ne sia una alla sua fine. Yo! è affermativa, kanà dubitativa, nee esortativa.

    Il ze di Lin è usato molto poco perché è molto forte. Non solo è maschile, non solo è ruvido, ma è quasi da malavitosi. Chi lo usa ci tiene a far sapere che è un duro.

    Appena Lin apre bocca quindi uno comincia subito e chiedersi chi lei sia veramente. Probabilmente un maschio adolescente sui diciassette anni che vuole fare il duro usando linguaggio da duri. Forse una donna che vorrebbe essere un uomo. In ogni caso, quello che è certo è che c’è qualcosa di molto insolito in Rin, che questo viene messo in chiaro senza alcuno sforzo da Miyazaki in una sola frase e che quella frase NON è in grado di trasmettere le stesse informazioni in una lingua diversa dal giapponese.

  • O-shōgatsu – お正月

    O-shōgatsu – お正月

    Rimaniamo in tema di festività per accogliere l’anno nuovo parlando di due decorazioni che si possono trovare nelle case e negli esercizi commerciali giapponesi durante questo periodo dell’anno.
    di Christian Savini

    Quando inizio a vedere esposte per la vendita queste decorazioni inizio a rendermi conto che un altro anno sta volgendo al termine e che quello nuovo è ormai alle porte. Tra impegni di lavoro e famiglia anche il 2023 è stato molto impegnativo ed intenso e non vedo l’ora che inizino le vacanze per rilassarmi un po’ e ricaricare le pile o la mia tamashi, la mia anima, perché come vedremo in seguito in Giappone si crede che il kami del nuovo anno condivida la sua anima ogni anno con tutte le creature viventi per conferire loro la forza necessaria per affrontare l’anno a venire.


    Il kadomatsu – 門松

    Il kadomatsu, letteralmente “pino all’entrata”, é una decorazione tipicamente giapponese che viene esposta all’entrata delle abitazioni o all’entrata principale di aziende ed attività commerciali durante il matsu no uchi (松の内), ovvero il periodo che va dal 28 Dicembre al 15 Gennaio, quando ci si prepara ad accogliere il kami del nuovo nelle case. Non sempre si tratta di un pino, spesso le decorazioni prevedono anche bambù e sono molto diverse da regione a regione. Il loro scopo è quello di dare il benvenuto alle persone e fungono da guida per il kami del nuovo anno. Come ho già spiegato in un altro articolo, nel Giappone antico, il pino, e gli alberi in generale, erano considerati degli shintai (神体) perché considerati la manifestazione materiali del kami. Si credeva che le divinità vivessero al loro interno e per questo motivo, in passato un pino solitario veniva spesso collocato all’interno di un giardino o il legno di alberi particolarmente alti e robusti veniva usato nella costruzione dei santuari.
    Un tempo, i pini che decoravano la porta venivano raccolti dagli stessi abitanti del villaggio. I pini non potevano però provenire da un qualsiasi luogo, ma venivano raccolti dalla montagna posizionata nella direzione fortunata dell’anno (la direzione dalla quale si credeva arrivasse la divinità). Esistono quattro direzioni che cambiano di anno in anno. Questa usanza era conosciuta con il nome di matsumukae (松迎え). Durante il periodo Edo, i costruttori presenti in città preparavano diverse decorazioni e andavano di casa in casa ad esporle.
    Con il passare del tempo, il kadomatsu cambiò forma e diventò sempre più elaborato. Forse la vanità  delle persone di mostrare la propria ricchezza o semplicemente il desiderio di ricevere maggiori benedizioni portò alla nascita di composizioni sempre più elaborate che accostarono al classico pino anche altre piante che entrano a far parte della tradizione. Sino alla modernità, che con il suo processo di evoluzione del design ha trasformato il pino, da protagonista del kadomatsu, a semplice comprimario preferendo a volte l’utilizzo del bambù come pianta principale della composizione. Tuttavia, negli ultimi anni, le antiche tradizioni stanno riaffiorando nel paese e sempre più spesso si vedono in vendita kadomatsu formati da un singolo pino che è allo stesso tempo guardiano e veicoli del kami del nuovo ed ė tutto quello che serve per accoglierlo nel migliori dei modi.
    In commercio oltre alla composizione che utilizzano solamente il pino si possono trovare diverse varianti che hanno come protagonista il bambù.

    Sogi – そぎ
    Al centro della composizione ci sono dei bambù che presentano un taglio centrale obliquo. Si dice che questo disegno sia stato utilizzato da Tokugawa Ieyasu, ma la sua autenticità è incerta.

    Zundō – 寸胴

    Questa composizione ha un pezzo di bambù tagliato orizzontalmente. Si ritiene che porti fortuna perché si dice che non ha la bocca aperta (quindi non fuoriesce il denaro) ed è favorito dalle banche e dalle attività commerciali.


    Shimenawa – しめ縄  e Shimekazari – しめ飾り

     Le shimenawa (しめ縄, corde sacre) indicano che un luogo è sacro e adatto al culto delle divinità. Servono per delimitare il confine tra il regno dei kami e questo mondo, impedendo alle cose impure di entrare. Si dice che l’origine di questa tradizione si possa far risalire alla mitologia giapponese. Secondo a quando riportato nel Kojiki e nel Nihon-shoki la divinità del sole Amaterasu, stanca del comportamento molesto del fratello Susa no O, si rifugiò in una grotta conosciuta con il nome di ama no iwato (天の岩戸, Lett. Grotta del paradiso) e, rifiutandosi di uscire privo il mondo della luce. Gli altri kami, su consiglio della divinità Omoikane, allestirono un banchetto all’entrata della grotta nel tentativo di convincere Amaterasu ad uscirne senza però avere successo. Fino a quando la divinità conosciuta come Ame no Uzume no Mikoto, cimentandosi in una danza alquanto provocatoria, fece esplodere di risate il gruppo di divinità. Amaterasu interessata da tutta quell’allegria, si avvicinò all’entrata della grotta e guardo fuori dove vide la sua immagine riflessa nello specchio conosciuto con il nome di Yata no Kagami, che i kami avevano costruito appositamente per quello scopo. Nel momento in cui Amaterasu si affacciò sull’entrata della grotta Ame no Tajikarao la trascinò fuori ridando così nuovamente luce al mondo intero. L’entrata della grotta fu subito sigillata con un shimenawa per impedire ad Amaterasu di rientrarvi. Lo specchio Yata no Kagami (八咫鏡) fa parte dei sanshu no jingi (三種の神器, tre sacri tesori), ovvero insieme alla spada Kusanagi no Tsurugi (草薙劍) e alla gemma, Yasakani no Magatama (八尺瓊勾玉) è una delle tre insegne imperiali del Giappone. La spada rappresenta il valore, lo specchio la saggezza e la gemma la benevolenza. La spada è custodita presso il santuario di Atsuta a Nagoya, lo specchio presso il santuario di Ise situato nella prefettura di Mie e la gemma è custodita presso il palazzo imperiale di Tōkyō.


    Le shimekazari sono decorazioni che vengono esposte sull’uscio di casa ed hanno la stessa funzione delle shimenawa, ovvero tenere lontano gli spiriti maligni e accogliere il kami del nuovo anno indicandogli la strada (un po’ come le lanterne che, esposte durante il Bon, aiutano le anime degli antenati a ritrovare la via di casa). Allo stesso modo delle shimenawa, gli shimekazari indicano che un luogo è sacro e adatto al culto delle divinità. Servono come confine tra il regno dei kami e questo mondo, impedendo alle cose impure di invadere quell’area. Per questo motivo, quando si avvicina il Capodanno, la gente si prepara ad accogliere i kami del nuovo anno decorando le proprie case con shimenawa (corde di paglia sacre) e shimekazari (decorazioni per il nuovo anno).
    Esistono diversi tipi di shimenawa shimekazari a seconda dello scopo e della regione. In passato, il capofamiglia incaricato di organizzare gli eventi di Capodanno preparava ed esponeva queste decorazioni ma col tempo questa operazione si è gradualmente semplificata ed ora vengono collocate all’ingresso o sul kamidana.
    Come detto in precedenza, queste decorazioni vengono fondamentalmente esposte all’ingresso per dare il benvenuto al kami del nuovo anno o su un altare shintoista, ma esiste un’ampia varietà di divinità che possono essere venerate, come il kami del kamado, il kami dell’acqua e molte altre.
    Queste decorazioni sono create con listarelle di paglia intrecciata e decorate con vari ornamenti tipici come ad esempio:

    Kamishide (紙垂) ornamenti di carta shintoisti dalla caratteristica forma a zigzag che stanno a rappresentare la discesa dei kami.

    Urajiro (裏白) le foglie di felce simbolo di purezza di buon auspicio per la prosperità della famiglia.

    Daidai (橙) un tipo di arancia che augura prosperità di generazione in generazione. Giocando con i kanji il nome di questo frutto può essere scritto anche in questo maniera 代々, usando il kanji di generazione.

    Aragoste: sono ornate anche con aragoste la cui forma del corpo ricorda le sembianze di un uomo anziano. Sono quindi un simbolo di buona fortuna.

    Rami di pino: segno di longevità data la loro natura di piante sempreverdi.

    Queste decorazioni possono essere esposte a partire dal 13 Dicembre che è conosciuto anche come shōgatsu koto hajime (正月事始め, inizio delle preparazioni per lo shōgatsu). Perlopiù i giapponesi le espongono una volta passato il 25 Dicembre, dopo aver ritirato le decorazioni natalizie. La maggior parte dei giapponesi cerca di evitare di esporle il 29 Dicembre perché la lettura di 29 niju-ku (二重苦) che scritto con i kanji tra parentesi significherebbe un giorno con la sovrapposizione di due sofferenze
    Queste decorazioni una volta rimosse vengono bruciate il 15 Gennaio in occasione della cerimonia detta sagichō (左義長) ma conosciuta anche con il nome di dondon-yaki (どんどん焼き) che si tiene presso i santuari shintoisti per segnare la fine dei festeggiamenti del nuovo anno.

    Shimenawa, shimekazari e modernità.
    Oggi sono disponibili molti tipi moderni e molte persone le realizzano a mano seguendo i propri gusti e lo stile del proprio arredamento. L’importante è considerare e mantenere il significato originale, è importante usare la paglia per la creazione della propria decorazione e includere sempre dei portafortuna in quando la cultura giapponese è ancora intrisa di queste superstizioni.

  • O-shōgatsu – お正月

    O-shōgatsu – お正月

    Questo articolo sarà il primo di una serie riguardante il Capodanno giapponese. Ripercorreremo le origini del Capodanno giapponese, le sue usanze e come i giapponesi vivono questo periodo dell’anno.

    di Christian Savini

    Cosa si intende con il termine shōgatsu? In origine, era uno dei nomi utilizzati per indicare il mese di Gennaio, ma è generalmente considerato come il periodo in cui si svolgono gli eventi dedicati al nuovo anno, ovvero il periodo che va dal 1° gennaio al 7 gennaio (fino al 15 Gennaio, a seconda della regione) ed è conosciuto con il nome di matsu no uchi (松の内) mentre il giorno che segna la conclusione dei festeggiamenti è detto shōgatsu goto jimai (正月事終い). La lettera “O” che precede il la parola shōgatsu è un onorifico spesso utilizzato in giapponese per veicolare un sentimento speciale così come il mese di Gennaio è anche chiamato mutsuki (睦月, secondo il wafū getsumei 和風月名, i nomi dei mesi secondo il calendario lunare) ovvero il mese in cui le famiglie stringono i loro rapporti. La maggior parte dei giapponesi trascorre questo periodo con le loro famiglie, mangiando cibi tipici di questo periodo dell’anno e scambiandosi regali.


    Origine dello shōgatsu ed eventi di Capodanno per accogliere il kami del nuovo anno.

    In Giappone, fin dall’antichità si crede che il gantan (元旦, primo giorno dell’anno) coincida con l’arrivo del toshigami-sama (年神様, la divinità dell’anno nuovo) tra le famiglie per portare prosperità e felicità per l’anno a venire. Il kami del nuovo anno, conosciuto anche come shogatsu-sama (正月様) o toshitokujin (歳徳神) è considerato anche la divinità delle spirito ancestrale, delle montagne e delle risaie ed è profondamente legato anche al culto degli antenati e alla prosperità della discendenza familiare e si crede porti salute e felicità alle persone. Per dare il benvenuto e celebrare questo kami sono stati creati diversi eventi e usanze. Proprio per questo motivo in Giappone si usa dire frasi del tipo:

    新しい年を迎える。
    Atarashi toshi wo mukaeru.
    Diamo il benvenuto al nuovo anno

    Oppure:

    一年の計は元旦にあり。
    Ichinen no kei ha gantan ni ari.
    I piani per l’anno di fanno il primo giorno dell’anno.


    Anche se i tempi sono cambiati, gli eventi e le usanze di Capodanno si sono tramandati di generazione in generazione, mantenendo il proprio significato profondo.

    Ōsōji – 大掃除

    Le grandi pulizie

    Prima di accogliere la divinità del nuovo anno, viene effettuata una grande pulizia per purificare il kamidana (l’altare Shintoista), il butsudan (l’altare buddista) e la casa in generale. Si deve eliminare il kegare, ovvero le impurità, accumulato durante l’anno passato e preparare un area purificata per accogliere il kami. Si dice che il kami dell’anno nuovo concederà molte benedizioni se si rimuovono tutte le impurità accumulate. Questa tradizione deriva dalla cerimonia di periodo Edo conosciuta come susuharai (すす払い, spolverare la fuliggine) che si svolgeva ogni anno il 13 Dicembre presso il castello di Edo. Il 13 Dicembre è conosciuto anche con il nome di o-shōgatsu koto hajime (お正月事始め). In altre parole, è il giorno in cui si inizia a fare le pulizie in vista del nuovo anno.
    Il susuharai è un evento annuale ancora celebrato presso i santuari e i templi, ma anche tra le famiglie comuni si iniziano a fare le pulizie in questo giorno. In origine, era anche il giorno in cui si iniziavano a fare i regali di fine anno. Le origine dell’usanza del susuharai affondano le radici in periodo Edo quando per riscaldare la casa e per cucinare, le persone usavano lo irori (囲炉裏), il focolare domestico che si trovava al centro della casa.

    Il suo utilizzo ricopriva le superfici di fuliggine da qui il termine susuharai, dove “susu” significa proprio fuliggine. Tutte le famiglie di periodo Edo dal 13 Dicembre iniziavano a ripulire la casa dalla fuliggine accumulata durante l’anno per prepararsi ad accogliere il kami del nuovo anno. Questa tradizione iniziata presso il castello di Edo si è fatta strada tra le persone comuni di quel periodo e adattandosi ai tempi é arrivata fino ai giorni nostri. Non essendoci più la fuliggine creata dall’utilizzo degli irori, tutti i componenti della famiglia si impegnano in profonde pulizie per prepararsi ai festeggiamenti dell’anno nuovo. Il 13 Dicembre è stato scelto come giorno di inizio delle preparazioni per l’anno nuovo anche perché è considerato uno kishukunichi (鬼宿日, giorno in cui i demoni stanno a casa) ovvero un giorno molto propizio e si è quindi pensato che fosse l’ideale per dare inizio ai preparativi. Generalmente in Giappone le pulizie profonde ed accurate delle case si fanno solo in prossimità del Capodanno e delle festività legate al bon di metà Agosto. Per chi vive in Giappone avrà sentito dire spesso la frase: “Non mi dedicherò alle pulizie fino alle feste di fine anno”, proprio perché la pianificazione delle pulizie inizia il 13 dicembre, giorno di buon auspicio. Anche l’ordine delle pulizie è importante. Durante i miei primi anni di matrimonio in Giappone, ho imparato da mia moglie l’ordine da seguire nelle pulizie. Non dico sia mandatorio ma moltissimi giapponesi che frequento lo seguono.
    L’ordine di pulizia dovrebbe essere il seguente: se nella casa é presente un kamidana (神棚, altare di famiglie shintoista) o un butsudan (仏壇, altare buddhista) un vanno smontati e puliti per primi. Poi viene data priorità alla cucina, al bagno e alla toilette, che sono le stanze più utilizzate dalla famiglia. Poi si passa al soggiorno e alle altre stanze. Ogni stanza dovrebbe essere pulita dall’alto verso il basso, dalla più grande alla più piccola.

  • Il paese dove le cose parlano, parte seconda

    Una signora nata cristiana che conoscevo aveva abbandonato la religione perché non voleva andare in Paradiso. Troppo lontano, diceva, preferiva rimanere a Zushi, il paese dove è nata e dove vive la sua famiglia. Questa include anche i morti, che sono ancora membri attivi della società.

    Le strade sono quindi piene di spiriti che una volta erano persone. Vivono accanto a te e sanno come farsi sentire e rispettare, all’occorrenza. Il morto è cosciente di sé, vive dove è morto, deve mangiare, bere, dormire, ha bisogno di compagnia, affetto e così via. Se è stato operato di appendicite, lo spirito porterà la cicatrice.

    Se il tuo antenato trova spazio nel tuo butsudan (una specie di altare in casa dove vivono TUTTI i tuoi antenati), tutto è a posto. Potrai chiedergli favori e protezione in cambio delle tue cure.
    Ma supponiamo uno muoia di morte violenta lontano da casa, come è successo spesso nel corso della storia giapponese. Rimarrà abbandonato, divenendo sempre più ostile ai viventi. Di qui la paura continua dei morti e delle loro possibili azioni.

    Un mio amico canadese stava visitando un castello quando ha visto un’insegna sopra una fontana, che diceva che lì in passato si lavavano le teste dei condannati a morte. Sua moglie si è messa ad urlare per la paura, perché il luogo era evidentemente rigonfio di anime di morti per morte violenta, i peggiori.

    Da anni bombardo i miei amici con domande strane. Sanno che ho il pallino dell’animismo e mi lasciano fare. Qualche tempo fa stavo parlando con una amica, Shizuka, e le ho domandato se credeva nei fantasmi. Mi ha detto combattiva che non aveva bisogno di credere, perché sapeva che i fantasmi esistono. Shizuka non è assolutamente la persona che pensereste creda a queste cose. Solida, pratica, non ha mai parlato di spiriti se non quella volta. Quella volta lo ha fatto perché le ho fatto una domanda. Siamo saliti in macchina e si è diretta verso casa mia. Le ho chiesto di raccontarmi un episodio in cui ha visto uno spirito. Sa benissimo che io non credo a queste cose, ma sa anche che sto facendo una ricerca seria, e non ha remore.

    Stava guidando quella stessa auto, ha raccontato, quando accanto all’acceleratore ha visto spuntare una gamba. Dopo qualche secondo è scomparsa. Poi è ricomparsa, si è flessa ed estesa, infine è sparita di nuovo nel cofano. Era spaventata? Non particolarmente. Tutti gli altri in auto, tre donne, la presero sul serio, come mi aspettavo.

    Ho un amico che ama fischiettare a letto, nel buio, sua moglie si spaventa sempre perché dice che “loro vengono se li chiami”. Sua moglie è un chirurgo.

    Il paradiso e l’inferno sono una grandissima protezione psicologica, perché liberano il mondo dalla presenza dei morti. Credo che pochi in Italia sentano la presenza di un caro perduto nel visitarne la tomba. Il 2 di novembre è una festa di rimembranza.

    Obon, invece, è un giorno in cui i morti tornano in carne ed ossa. Un mio conoscente mi raccontava che tutti gli anni aspetta suo suocero con la sua famiglia. Si mettono ad aspettarlo con lanterne sulla porta di casa finché sentono che è arrivato. Dopo di che entra in casa e rimane tre giorni. L’intera famiglia ne parla come se fosse fisicamente presente nella stanza. Viene chiamato ed invitato a sedersi nella sedia a lui riservata.
    Questo NON è un comportamento raro, né strano.

    Questa concezione della morte ha avuto riflessi sull’urbanistica del paese. I centri abitati sono circondati da un cordone sanitario di difese spirituali (non materiali e ancor meno militari) per proteggere la comunità dai demoni e spiriti furiosi associati con le foreste e le montagne.

    Nella foto vedete una composizione quintessenzialmente animista. L’essere umano e le sue creazioni minuscoli ed impotenti al cospetto dell’immensa forza di una natura indifferente. Una immagine di questo genere non avrebbe senso in un tempio buddista, e non ve la troverete mai. Il buddismo è egocentrico e poco interessato alla natura. In un giardino zen la natura è addomesticata e docile, niente di più di un aiuto al ritorno a sé stessi.

    Adorazione o culto della natura, si dice, Ma il termine secondo me non vuole dire quello che sembra. Non è meraviglia davanti allo spettacolo di una cascata, anche se può a volte esserlo. Il rapporto vero del Giappone con la natura è quello implicito nell’immagine qui sopra. La natura non è amica dell’umanità, ma neppure nemica.
    Semplicemente, è un fattore da non ignorare nell’equazione della sopravvivenza.

    Prima di proseguire, ricordo che un tempio è buddista, un santuario è animista ma non necessariamente Shinto. Spiegherò nei dettagli più oltre (se ci sarà ancora qualcuno che mi legge).

    Lo yamatologo austriaco Bernhard Scheid fa notare che l’urbanistica del Giappone tradizionale riflette chiaramente questo rapporto con la natura. Più importante è una istituzione religiosa e più probabile è infatti che si trovi fuori città, in posizioni poco o per nulla accessibili. Questa foto può dare una idea del loro isolamento.

    (Si tratta di un santuario adibito alla protezione di un passo di montagna diretto a nord-est, una direzione nefasta.)

    Ne consegue che templi e santuari non sono né necessariamente né principalmente luoghi di culto. (Un tempio è, oltre che una struttura di difesa, soprattutto un monastero).

    Un tempio o un santuario ha la forma di imbuto. Da una parte un pesante cancello rinforzato da un secondo e più grande cancello che viene subito dopo. Ambedue sono irrobustiti da fortificazioni spirituali. Statue di santi e via discorrendo.

    Un tempio può essere costituito da decine di sottotempli dedicati a dei diversi, oltre a uffici, refettori e toilet, per cui parlare di un suo piano urbanistico è più che legittimo. L’orientamento delle strade (nord-sud), il tipo di vegetazione (aceri, pini, querce, ecc.) la sua distribuzione (querce a nord est, aceri a sud, ecc, ma questi sono esempi che mi invento ora), la posizione, il numero, la funzione e la disposizione dei sottotempli, la loro architettura e perfino il numero di finestre che hanno (1, 3 o 5, sicuramente non 2 o 4) sono fattori attentamente studiati per la difesa spirituale del tempio.

    Dall’altra parte, quella opposta al centro abitato, il tempio semplicemente sparisce gradualmente, sciogliendo se nella foresta come vedete nella fotografia qui sopra. Un tempio è quindi una specie di membrana semipermeabile che controlla l’accesso alla comunità.

    Lo stesso vale fino a un certo punto anche per i santuari. Una istituzione religiosa è quindi una fortezza eretta contro le minacce presenti nel mondo esterno.

    Nella cartina in mezzo vedete la città dove abito. Il triangolo nero contiene l’area densamente popolata. I punti rossi sono i templi o santuari più importanti. Come vedete, nessuno di essi è in città. La maggior parte si trova su colline che la sovrastano, e questa distribuzione non è un caso.

    Se il culto della natura fosse adorazione della bellezza della natura, come affermato dalle autorità Shinto all’estero (ma non in Giappone, vedi caso) ci aspetteremmo di non trovare alcun edificio e di vedere cerimonie religiose fatte direttamente davanti alla cascata, roccia o altro oggetto di culto del santuario. Questo è infatti quello che accadeva una volta ed accade ancora in certi santuari di vecchio stampo.

    Quello che invece troviamo sono spiriti di antenati, strappati al loro terreno natale, messi a guardare le frontiere e a tenere a bada i nostri nemici. I nemici sono prima di tutto quei morti che non hanno nessuno che li assista e nutra. Si concentrano fuori dell’abitato e da sempre sono associati con le montagne e le foreste. Ci sono poi demoni, volpi ed altre creature.

    Il lettore sveglio si sarà però anche accorto che antenati =buono, morti=cattivo. La storia di come si trasforma un morto in un antenato la vedremo la prossima volta.

    Le foto sono mie.

    Nella foto vedete una composizione quintessenzialmente animista. L’essere umano e le sue creazioni minuscoli ed impotenti al cospetto dell’immensa forza di una natura indifferente. Una immagine di questo genere non avrebbe senso in un tempio buddista, e non ve la troverete mai. Il buddismo è egocentrico e poco interessato alla natura. In un giardino zen la natura è addomesticata e docile, niente di più di un aiuto al ritorno a sé stessi.

    Adorazione o culto della natura, si dice, Ma il termine secondo me non vuole dire quello che sembra. Non è meraviglia davanti allo spettacolo di una cascata, anche se può a volte esserlo. Il rapporto vero del Giappone con la natura è quello implicito nell’immagine qui sopra. La natura non è amica dell’umanità, ma neppure nemica.
    Semplicemente, è un fattore da non ignorare nell’equazione della sopravvivenza.

    Prima di proseguire, ricordo che un tempio è buddista, un santuario è animista ma non necessariamente Shinto. Spiegherò nei dettagli più oltre (se ci sarà ancora qualcuno che mi legge).

    Lo yamatologo austriaco Bernhard Scheid fa notare che l’urbanistica del Giappone tradizionale riflette chiaramente questo rapporto con la natura. Più importante è una istituzione religiosa e più probabile è infatti che si trovi fuori città, in posizioni poco o per nulla accessibili. Questa foto può dare una idea del loro isolamento.

    (Si tratta di un santuario adibito alla protezione di un passo di montagna diretto a nord-est, una direzione nefasta.)

    Ne consegue che templi e santuari non sono né necessariamente né principalmente luoghi di culto. (Un tempio è, oltre che una struttura di difesa, soprattutto un monastero).

    Un tempio o un santuario ha la forma di imbuto. Da una parte un pesante cancello rinforzato da un secondo e più grande cancello che viene subito dopo. Ambedue sono irrobustiti da fortificazioni spirituali. Statue di santi e via discorrendo.

    Un tempio può essere costituito da decine di sottotempli dedicati a dei diversi, oltre a uffici, refettori e toilet, per cui parlare di un suo piano urbanistico è più che legittimo. L’orientamento delle strade (nord-sud), il tipo di vegetazione (aceri, pini, querce, ecc.) la sua distribuzione (querce a nord est, aceri a sud, ecc, ma questi sono esempi che mi invento ora), la posizione, il numero, la funzione e la disposizione dei sottotempli, la loro architettura e perfino il numero di finestre che hanno (1, 3 o 5, sicuramente non 2 o 4) sono fattori attentamente studiati per la difesa spirituale del tempio.

    Dall’altra parte, quella opposta al centro abitato, il tempio semplicemente sparisce gradualmente, sciogliendo se nella foresta come vedete nella fotografia qui sopra. Un tempio è quindi una specie di membrana semipermeabile che controlla l’accesso alla comunità.

    Lo stesso vale fino a un certo punto anche per i santuari. Una istituzione religiosa è quindi una fortezza eretta contro le minacce presenti nel mondo esterno.

    Nella cartina in mezzo vedete la città dove abito. Il triangolo nero contiene l’area densamente popolata. I punti rossi sono i templi o santuari più importanti. Come vedete, nessuno di essi è in città. La maggior parte si trova su colline che la sovrastano, e questa distribuzione non è un caso.

    Se il culto della natura fosse adorazione della bellezza della natura, come affermato dalle autorità Shinto all’estero (ma non in Giappone, vedi caso) ci aspetteremmo di non trovare alcun edificio e di vedere cerimo

  • Il paese dove le cose parlano, Parte terza

    Pietro De Colle afferma che il mio uso della parola animismo non è standard. La definizione solita è chiara, dice. L’animismo consiste nel ritenere che le cose sono vive. E BASTA, dice Peter. Il cristianesimo e l’animismo hanno posizioni diametralmente opposte perché il cristianesimo sostiene che solo gli esseri umani hanno anima. Vorrei quindi spiegare perché uso una definizione più ampia, la seguente.[1]

    Animismo è la proiezione inconscia sulla natura da parte di un osservatore umano di caratteristiche fisiche o mentali dell’osservatore stesso.

    La mia definizione deriva da quella di Jean Piaget, ampiamente diffusa in antropologia, che definisce il punto di vista animistico come egocentrico.

    Peter contesta anche il mio applicare il termine animismo al cristianesimo. Liquidiamo subito questo primo problema. Peter ammette che ci sono “tracce” (termine suo) di animismo nel cristianesimo.

    Secondo me sono ben più di tracce, sono inclusioni fondamentali per fare funzionare l’intero sistema. I santi, ad esempio, sono essenzialmente elementi di animismo necessari per sostituire il dio cristiano, un dio che gli studiosi di religione comparata classificano come un dio distante, troppo astratto per venire sentito come reale dalla maggior parte dei fedeli. Ma questa è una discussione da fare in altra sede.

    La definizione che Peter cita è solo la più comune, probabilmente a causa dei suoi accenti indubbiamente poetici che catturano la fantasia. Ce ne sono molte altre, che prenderò da Internet così che siano verificabili.

    Cominciamo con l’Enciclopedia Britannica[2], di proprietà dell’Università di Chicago, una istituzione che sforna Nobel su base quasi annuale:

    Animism, belief in innumerable spiritual beings concerned with human affairs and capable of helping or harming human interests. Animistic beliefs were first competently surveyed by Sir Edward Burnett Tylor in his work Primitive Culture (1871), to which is owed the continued currency of the term.

    Manca il riferimento alle cose che vivono. Visto che manca anche nelle altre versioni (Wikisource ha quella, ora in pubblico dominio, del 1911 e già quella non faceva accenno alla definizione standard.), è difficile pensare sia un caso.

    La Britannica specifica anche:

    The term animism denotes not a single creed or doctrine but a view of the world consistent with a certain range of religious beliefs and practices, many of which may survive in more-complex and hierarchical religions. Modern scholarship’s concern with animism is coeval with the problem of rational or scientific understanding of religion itself.

    Non si tratta di una religione ma di una visione del mondo. Non è possibile derivare la definizione di Peter da quella della Britannica. Nemmeno la mia, ma se leggete la seguente frase:

    WIkipedia :

    Animism (from Latin anima, “breath, spirit, life”)[1][2] is the religious belief that objects, places and creatures all possess a distinct spiritual essence.[3][4][5][6] Potentially, animism perceives all things—animals, plants, rocks, rivers, weather systems, human handiwork and perhaps even words—as animated and alive.

    Importante, non tutti gli oggetti sono necessariamente vivi ma possiedono ugualmente una forza spirituale. Tenere presente che questa definizione è supportata da quattro testi diversi. Questa precisazione è fondamentale.

    Altra definizione simile

    Animists believe that an impersonal power is present in all objects. This power may be called mana, or life-force, or force-vital, or life essence or dynamism. . . The person in possession of this force may use it as he sees fit, but always stands the chance of losing it.”[2] In addition to this force that is present in all objects, animists believe that spirits inhabit certain objects, places and things.

    Arriviamo al punto. L’animismo crede in forze impersonali come quelle che ho descritto. La mana non ha carattere e volontà propri. Confronta la mana con i kami del kamidana che ho descritto.

    Penso sia chiaro a questo punto che la definizione standard, quella comune che afferma che l’animismo dice che le cose sono vive, è problematica. 

La mana o certi tipi di kami non sono classificabili con chiarezza, ma sono comunque forze impersonali. È difficile dire che siano vivi.

    Note a piè di pagina