Ombrelli Rotti

  • O-shōgatsu – お正月

    O-shōgatsu – お正月

    Rimaniamo in tema di festività per accogliere l’anno nuovo parlando di due decorazioni che si possono trovare nelle case e negli esercizi commerciali giapponesi durante questo periodo dell’anno.
    di Christian Savini

    Quando inizio a vedere esposte per la vendita queste decorazioni inizio a rendermi conto che un altro anno sta volgendo al termine e che quello nuovo è ormai alle porte. Tra impegni di lavoro e famiglia anche il 2023 è stato molto impegnativo ed intenso e non vedo l’ora che inizino le vacanze per rilassarmi un po’ e ricaricare le pile o la mia tamashi, la mia anima, perché come vedremo in seguito in Giappone si crede che il kami del nuovo anno condivida la sua anima ogni anno con tutte le creature viventi per conferire loro la forza necessaria per affrontare l’anno a venire.


    Il kadomatsu – 門松

    Il kadomatsu, letteralmente “pino all’entrata”, é una decorazione tipicamente giapponese che viene esposta all’entrata delle abitazioni o all’entrata principale di aziende ed attività commerciali durante il matsu no uchi (松の内), ovvero il periodo che va dal 28 Dicembre al 15 Gennaio, quando ci si prepara ad accogliere il kami del nuovo nelle case. Non sempre si tratta di un pino, spesso le decorazioni prevedono anche bambù e sono molto diverse da regione a regione. Il loro scopo è quello di dare il benvenuto alle persone e fungono da guida per il kami del nuovo anno. Come ho già spiegato in un altro articolo, nel Giappone antico, il pino, e gli alberi in generale, erano considerati degli shintai (神体) perché considerati la manifestazione materiali del kami. Si credeva che le divinità vivessero al loro interno e per questo motivo, in passato un pino solitario veniva spesso collocato all’interno di un giardino o il legno di alberi particolarmente alti e robusti veniva usato nella costruzione dei santuari.
    Un tempo, i pini che decoravano la porta venivano raccolti dagli stessi abitanti del villaggio. I pini non potevano però provenire da un qualsiasi luogo, ma venivano raccolti dalla montagna posizionata nella direzione fortunata dell’anno (la direzione dalla quale si credeva arrivasse la divinità). Esistono quattro direzioni che cambiano di anno in anno. Questa usanza era conosciuta con il nome di matsumukae (松迎え). Durante il periodo Edo, i costruttori presenti in città preparavano diverse decorazioni e andavano di casa in casa ad esporle.
    Con il passare del tempo, il kadomatsu cambiò forma e diventò sempre più elaborato. Forse la vanità  delle persone di mostrare la propria ricchezza o semplicemente il desiderio di ricevere maggiori benedizioni portò alla nascita di composizioni sempre più elaborate che accostarono al classico pino anche altre piante che entrano a far parte della tradizione. Sino alla modernità, che con il suo processo di evoluzione del design ha trasformato il pino, da protagonista del kadomatsu, a semplice comprimario preferendo a volte l’utilizzo del bambù come pianta principale della composizione. Tuttavia, negli ultimi anni, le antiche tradizioni stanno riaffiorando nel paese e sempre più spesso si vedono in vendita kadomatsu formati da un singolo pino che è allo stesso tempo guardiano e veicoli del kami del nuovo ed ė tutto quello che serve per accoglierlo nel migliori dei modi.
    In commercio oltre alla composizione che utilizzano solamente il pino si possono trovare diverse varianti che hanno come protagonista il bambù.

    Sogi – そぎ
    Al centro della composizione ci sono dei bambù che presentano un taglio centrale obliquo. Si dice che questo disegno sia stato utilizzato da Tokugawa Ieyasu, ma la sua autenticità è incerta.

    Zundō – 寸胴

    Questa composizione ha un pezzo di bambù tagliato orizzontalmente. Si ritiene che porti fortuna perché si dice che non ha la bocca aperta (quindi non fuoriesce il denaro) ed è favorito dalle banche e dalle attività commerciali.


    Shimenawa – しめ縄  e Shimekazari – しめ飾り

     Le shimenawa (しめ縄, corde sacre) indicano che un luogo è sacro e adatto al culto delle divinità. Servono per delimitare il confine tra il regno dei kami e questo mondo, impedendo alle cose impure di entrare. Si dice che l’origine di questa tradizione si possa far risalire alla mitologia giapponese. Secondo a quando riportato nel Kojiki e nel Nihon-shoki la divinità del sole Amaterasu, stanca del comportamento molesto del fratello Susa no O, si rifugiò in una grotta conosciuta con il nome di ama no iwato (天の岩戸, Lett. Grotta del paradiso) e, rifiutandosi di uscire privo il mondo della luce. Gli altri kami, su consiglio della divinità Omoikane, allestirono un banchetto all’entrata della grotta nel tentativo di convincere Amaterasu ad uscirne senza però avere successo. Fino a quando la divinità conosciuta come Ame no Uzume no Mikoto, cimentandosi in una danza alquanto provocatoria, fece esplodere di risate il gruppo di divinità. Amaterasu interessata da tutta quell’allegria, si avvicinò all’entrata della grotta e guardo fuori dove vide la sua immagine riflessa nello specchio conosciuto con il nome di Yata no Kagami, che i kami avevano costruito appositamente per quello scopo. Nel momento in cui Amaterasu si affacciò sull’entrata della grotta Ame no Tajikarao la trascinò fuori ridando così nuovamente luce al mondo intero. L’entrata della grotta fu subito sigillata con un shimenawa per impedire ad Amaterasu di rientrarvi. Lo specchio Yata no Kagami (八咫鏡) fa parte dei sanshu no jingi (三種の神器, tre sacri tesori), ovvero insieme alla spada Kusanagi no Tsurugi (草薙劍) e alla gemma, Yasakani no Magatama (八尺瓊勾玉) è una delle tre insegne imperiali del Giappone. La spada rappresenta il valore, lo specchio la saggezza e la gemma la benevolenza. La spada è custodita presso il santuario di Atsuta a Nagoya, lo specchio presso il santuario di Ise situato nella prefettura di Mie e la gemma è custodita presso il palazzo imperiale di Tōkyō.


    Le shimekazari sono decorazioni che vengono esposte sull’uscio di casa ed hanno la stessa funzione delle shimenawa, ovvero tenere lontano gli spiriti maligni e accogliere il kami del nuovo anno indicandogli la strada (un po’ come le lanterne che, esposte durante il Bon, aiutano le anime degli antenati a ritrovare la via di casa). Allo stesso modo delle shimenawa, gli shimekazari indicano che un luogo è sacro e adatto al culto delle divinità. Servono come confine tra il regno dei kami e questo mondo, impedendo alle cose impure di invadere quell’area. Per questo motivo, quando si avvicina il Capodanno, la gente si prepara ad accogliere i kami del nuovo anno decorando le proprie case con shimenawa (corde di paglia sacre) e shimekazari (decorazioni per il nuovo anno).
    Esistono diversi tipi di shimenawa shimekazari a seconda dello scopo e della regione. In passato, il capofamiglia incaricato di organizzare gli eventi di Capodanno preparava ed esponeva queste decorazioni ma col tempo questa operazione si è gradualmente semplificata ed ora vengono collocate all’ingresso o sul kamidana.
    Come detto in precedenza, queste decorazioni vengono fondamentalmente esposte all’ingresso per dare il benvenuto al kami del nuovo anno o su un altare shintoista, ma esiste un’ampia varietà di divinità che possono essere venerate, come il kami del kamado, il kami dell’acqua e molte altre.
    Queste decorazioni sono create con listarelle di paglia intrecciata e decorate con vari ornamenti tipici come ad esempio:

    Kamishide (紙垂) ornamenti di carta shintoisti dalla caratteristica forma a zigzag che stanno a rappresentare la discesa dei kami.

    Urajiro (裏白) le foglie di felce simbolo di purezza di buon auspicio per la prosperità della famiglia.

    Daidai (橙) un tipo di arancia che augura prosperità di generazione in generazione. Giocando con i kanji il nome di questo frutto può essere scritto anche in questo maniera 代々, usando il kanji di generazione.

    Aragoste: sono ornate anche con aragoste la cui forma del corpo ricorda le sembianze di un uomo anziano. Sono quindi un simbolo di buona fortuna.

    Rami di pino: segno di longevità data la loro natura di piante sempreverdi.

    Queste decorazioni possono essere esposte a partire dal 13 Dicembre che è conosciuto anche come shōgatsu koto hajime (正月事始め, inizio delle preparazioni per lo shōgatsu). Perlopiù i giapponesi le espongono una volta passato il 25 Dicembre, dopo aver ritirato le decorazioni natalizie. La maggior parte dei giapponesi cerca di evitare di esporle il 29 Dicembre perché la lettura di 29 niju-ku (二重苦) che scritto con i kanji tra parentesi significherebbe un giorno con la sovrapposizione di due sofferenze
    Queste decorazioni una volta rimosse vengono bruciate il 15 Gennaio in occasione della cerimonia detta sagichō (左義長) ma conosciuta anche con il nome di dondon-yaki (どんどん焼き) che si tiene presso i santuari shintoisti per segnare la fine dei festeggiamenti del nuovo anno.

    Shimenawa, shimekazari e modernità.
    Oggi sono disponibili molti tipi moderni e molte persone le realizzano a mano seguendo i propri gusti e lo stile del proprio arredamento. L’importante è considerare e mantenere il significato originale, è importante usare la paglia per la creazione della propria decorazione e includere sempre dei portafortuna in quando la cultura giapponese è ancora intrisa di queste superstizioni.

  • O-shōgatsu – お正月

    O-shōgatsu – お正月

    Questo articolo sarà il primo di una serie riguardante il Capodanno giapponese. Ripercorreremo le origini del Capodanno giapponese, le sue usanze e come i giapponesi vivono questo periodo dell’anno.

    di Christian Savini

    Cosa si intende con il termine shōgatsu? In origine, era uno dei nomi utilizzati per indicare il mese di Gennaio, ma è generalmente considerato come il periodo in cui si svolgono gli eventi dedicati al nuovo anno, ovvero il periodo che va dal 1° gennaio al 7 gennaio (fino al 15 Gennaio, a seconda della regione) ed è conosciuto con il nome di matsu no uchi (松の内) mentre il giorno che segna la conclusione dei festeggiamenti è detto shōgatsu goto jimai (正月事終い). La lettera “O” che precede il la parola shōgatsu è un onorifico spesso utilizzato in giapponese per veicolare un sentimento speciale così come il mese di Gennaio è anche chiamato mutsuki (睦月, secondo il wafū getsumei 和風月名, i nomi dei mesi secondo il calendario lunare) ovvero il mese in cui le famiglie stringono i loro rapporti. La maggior parte dei giapponesi trascorre questo periodo con le loro famiglie, mangiando cibi tipici di questo periodo dell’anno e scambiandosi regali.


    Origine dello shōgatsu ed eventi di Capodanno per accogliere il kami del nuovo anno.

    In Giappone, fin dall’antichità si crede che il gantan (元旦, primo giorno dell’anno) coincida con l’arrivo del toshigami-sama (年神様, la divinità dell’anno nuovo) tra le famiglie per portare prosperità e felicità per l’anno a venire. Il kami del nuovo anno, conosciuto anche come shogatsu-sama (正月様) o toshitokujin (歳徳神) è considerato anche la divinità delle spirito ancestrale, delle montagne e delle risaie ed è profondamente legato anche al culto degli antenati e alla prosperità della discendenza familiare e si crede porti salute e felicità alle persone. Per dare il benvenuto e celebrare questo kami sono stati creati diversi eventi e usanze. Proprio per questo motivo in Giappone si usa dire frasi del tipo:

    新しい年を迎える。
    Atarashi toshi wo mukaeru.
    Diamo il benvenuto al nuovo anno

    Oppure:

    一年の計は元旦にあり。
    Ichinen no kei ha gantan ni ari.
    I piani per l’anno di fanno il primo giorno dell’anno.


    Anche se i tempi sono cambiati, gli eventi e le usanze di Capodanno si sono tramandati di generazione in generazione, mantenendo il proprio significato profondo.

    Ōsōji – 大掃除

    Le grandi pulizie

    Prima di accogliere la divinità del nuovo anno, viene effettuata una grande pulizia per purificare il kamidana (l’altare Shintoista), il butsudan (l’altare buddista) e la casa in generale. Si deve eliminare il kegare, ovvero le impurità, accumulato durante l’anno passato e preparare un area purificata per accogliere il kami. Si dice che il kami dell’anno nuovo concederà molte benedizioni se si rimuovono tutte le impurità accumulate. Questa tradizione deriva dalla cerimonia di periodo Edo conosciuta come susuharai (すす払い, spolverare la fuliggine) che si svolgeva ogni anno il 13 Dicembre presso il castello di Edo. Il 13 Dicembre è conosciuto anche con il nome di o-shōgatsu koto hajime (お正月事始め). In altre parole, è il giorno in cui si inizia a fare le pulizie in vista del nuovo anno.
    Il susuharai è un evento annuale ancora celebrato presso i santuari e i templi, ma anche tra le famiglie comuni si iniziano a fare le pulizie in questo giorno. In origine, era anche il giorno in cui si iniziavano a fare i regali di fine anno. Le origine dell’usanza del susuharai affondano le radici in periodo Edo quando per riscaldare la casa e per cucinare, le persone usavano lo irori (囲炉裏), il focolare domestico che si trovava al centro della casa.

    Il suo utilizzo ricopriva le superfici di fuliggine da qui il termine susuharai, dove “susu” significa proprio fuliggine. Tutte le famiglie di periodo Edo dal 13 Dicembre iniziavano a ripulire la casa dalla fuliggine accumulata durante l’anno per prepararsi ad accogliere il kami del nuovo anno. Questa tradizione iniziata presso il castello di Edo si è fatta strada tra le persone comuni di quel periodo e adattandosi ai tempi é arrivata fino ai giorni nostri. Non essendoci più la fuliggine creata dall’utilizzo degli irori, tutti i componenti della famiglia si impegnano in profonde pulizie per prepararsi ai festeggiamenti dell’anno nuovo. Il 13 Dicembre è stato scelto come giorno di inizio delle preparazioni per l’anno nuovo anche perché è considerato uno kishukunichi (鬼宿日, giorno in cui i demoni stanno a casa) ovvero un giorno molto propizio e si è quindi pensato che fosse l’ideale per dare inizio ai preparativi. Generalmente in Giappone le pulizie profonde ed accurate delle case si fanno solo in prossimità del Capodanno e delle festività legate al bon di metà Agosto. Per chi vive in Giappone avrà sentito dire spesso la frase: “Non mi dedicherò alle pulizie fino alle feste di fine anno”, proprio perché la pianificazione delle pulizie inizia il 13 dicembre, giorno di buon auspicio. Anche l’ordine delle pulizie è importante. Durante i miei primi anni di matrimonio in Giappone, ho imparato da mia moglie l’ordine da seguire nelle pulizie. Non dico sia mandatorio ma moltissimi giapponesi che frequento lo seguono.
    L’ordine di pulizia dovrebbe essere il seguente: se nella casa é presente un kamidana (神棚, altare di famiglie shintoista) o un butsudan (仏壇, altare buddhista) un vanno smontati e puliti per primi. Poi viene data priorità alla cucina, al bagno e alla toilette, che sono le stanze più utilizzate dalla famiglia. Poi si passa al soggiorno e alle altre stanze. Ogni stanza dovrebbe essere pulita dall’alto verso il basso, dalla più grande alla più piccola.

  • Il paese dove le cose parlano, parte seconda

    Una signora nata cristiana che conoscevo aveva abbandonato la religione perché non voleva andare in Paradiso. Troppo lontano, diceva, preferiva rimanere a Zushi, il paese dove è nata e dove vive la sua famiglia. Questa include anche i morti, che sono ancora membri attivi della società.

    Le strade sono quindi piene di spiriti che una volta erano persone. Vivono accanto a te e sanno come farsi sentire e rispettare, all’occorrenza. Il morto è cosciente di sé, vive dove è morto, deve mangiare, bere, dormire, ha bisogno di compagnia, affetto e così via. Se è stato operato di appendicite, lo spirito porterà la cicatrice.

    Se il tuo antenato trova spazio nel tuo butsudan (una specie di altare in casa dove vivono TUTTI i tuoi antenati), tutto è a posto. Potrai chiedergli favori e protezione in cambio delle tue cure.
    Ma supponiamo uno muoia di morte violenta lontano da casa, come è successo spesso nel corso della storia giapponese. Rimarrà abbandonato, divenendo sempre più ostile ai viventi. Di qui la paura continua dei morti e delle loro possibili azioni.

    Un mio amico canadese stava visitando un castello quando ha visto un’insegna sopra una fontana, che diceva che lì in passato si lavavano le teste dei condannati a morte. Sua moglie si è messa ad urlare per la paura, perché il luogo era evidentemente rigonfio di anime di morti per morte violenta, i peggiori.

    Da anni bombardo i miei amici con domande strane. Sanno che ho il pallino dell’animismo e mi lasciano fare. Qualche tempo fa stavo parlando con una amica, Shizuka, e le ho domandato se credeva nei fantasmi. Mi ha detto combattiva che non aveva bisogno di credere, perché sapeva che i fantasmi esistono. Shizuka non è assolutamente la persona che pensereste creda a queste cose. Solida, pratica, non ha mai parlato di spiriti se non quella volta. Quella volta lo ha fatto perché le ho fatto una domanda. Siamo saliti in macchina e si è diretta verso casa mia. Le ho chiesto di raccontarmi un episodio in cui ha visto uno spirito. Sa benissimo che io non credo a queste cose, ma sa anche che sto facendo una ricerca seria, e non ha remore.

    Stava guidando quella stessa auto, ha raccontato, quando accanto all’acceleratore ha visto spuntare una gamba. Dopo qualche secondo è scomparsa. Poi è ricomparsa, si è flessa ed estesa, infine è sparita di nuovo nel cofano. Era spaventata? Non particolarmente. Tutti gli altri in auto, tre donne, la presero sul serio, come mi aspettavo.

    Ho un amico che ama fischiettare a letto, nel buio, sua moglie si spaventa sempre perché dice che “loro vengono se li chiami”. Sua moglie è un chirurgo.

    Il paradiso e l’inferno sono una grandissima protezione psicologica, perché liberano il mondo dalla presenza dei morti. Credo che pochi in Italia sentano la presenza di un caro perduto nel visitarne la tomba. Il 2 di novembre è una festa di rimembranza.

    Obon, invece, è un giorno in cui i morti tornano in carne ed ossa. Un mio conoscente mi raccontava che tutti gli anni aspetta suo suocero con la sua famiglia. Si mettono ad aspettarlo con lanterne sulla porta di casa finché sentono che è arrivato. Dopo di che entra in casa e rimane tre giorni. L’intera famiglia ne parla come se fosse fisicamente presente nella stanza. Viene chiamato ed invitato a sedersi nella sedia a lui riservata.
    Questo NON è un comportamento raro, né strano.

    Questa concezione della morte ha avuto riflessi sull’urbanistica del paese. I centri abitati sono circondati da un cordone sanitario di difese spirituali (non materiali e ancor meno militari) per proteggere la comunità dai demoni e spiriti furiosi associati con le foreste e le montagne.

    Nella foto vedete una composizione quintessenzialmente animista. L’essere umano e le sue creazioni minuscoli ed impotenti al cospetto dell’immensa forza di una natura indifferente. Una immagine di questo genere non avrebbe senso in un tempio buddista, e non ve la troverete mai. Il buddismo è egocentrico e poco interessato alla natura. In un giardino zen la natura è addomesticata e docile, niente di più di un aiuto al ritorno a sé stessi.

    Adorazione o culto della natura, si dice, Ma il termine secondo me non vuole dire quello che sembra. Non è meraviglia davanti allo spettacolo di una cascata, anche se può a volte esserlo. Il rapporto vero del Giappone con la natura è quello implicito nell’immagine qui sopra. La natura non è amica dell’umanità, ma neppure nemica.
    Semplicemente, è un fattore da non ignorare nell’equazione della sopravvivenza.

    Prima di proseguire, ricordo che un tempio è buddista, un santuario è animista ma non necessariamente Shinto. Spiegherò nei dettagli più oltre (se ci sarà ancora qualcuno che mi legge).

    Lo yamatologo austriaco Bernhard Scheid fa notare che l’urbanistica del Giappone tradizionale riflette chiaramente questo rapporto con la natura. Più importante è una istituzione religiosa e più probabile è infatti che si trovi fuori città, in posizioni poco o per nulla accessibili. Questa foto può dare una idea del loro isolamento.

    (Si tratta di un santuario adibito alla protezione di un passo di montagna diretto a nord-est, una direzione nefasta.)

    Ne consegue che templi e santuari non sono né necessariamente né principalmente luoghi di culto. (Un tempio è, oltre che una struttura di difesa, soprattutto un monastero).

    Un tempio o un santuario ha la forma di imbuto. Da una parte un pesante cancello rinforzato da un secondo e più grande cancello che viene subito dopo. Ambedue sono irrobustiti da fortificazioni spirituali. Statue di santi e via discorrendo.

    Un tempio può essere costituito da decine di sottotempli dedicati a dei diversi, oltre a uffici, refettori e toilet, per cui parlare di un suo piano urbanistico è più che legittimo. L’orientamento delle strade (nord-sud), il tipo di vegetazione (aceri, pini, querce, ecc.) la sua distribuzione (querce a nord est, aceri a sud, ecc, ma questi sono esempi che mi invento ora), la posizione, il numero, la funzione e la disposizione dei sottotempli, la loro architettura e perfino il numero di finestre che hanno (1, 3 o 5, sicuramente non 2 o 4) sono fattori attentamente studiati per la difesa spirituale del tempio.

    Dall’altra parte, quella opposta al centro abitato, il tempio semplicemente sparisce gradualmente, sciogliendo se nella foresta come vedete nella fotografia qui sopra. Un tempio è quindi una specie di membrana semipermeabile che controlla l’accesso alla comunità.

    Lo stesso vale fino a un certo punto anche per i santuari. Una istituzione religiosa è quindi una fortezza eretta contro le minacce presenti nel mondo esterno.

    Nella cartina in mezzo vedete la città dove abito. Il triangolo nero contiene l’area densamente popolata. I punti rossi sono i templi o santuari più importanti. Come vedete, nessuno di essi è in città. La maggior parte si trova su colline che la sovrastano, e questa distribuzione non è un caso.

    Se il culto della natura fosse adorazione della bellezza della natura, come affermato dalle autorità Shinto all’estero (ma non in Giappone, vedi caso) ci aspetteremmo di non trovare alcun edificio e di vedere cerimonie religiose fatte direttamente davanti alla cascata, roccia o altro oggetto di culto del santuario. Questo è infatti quello che accadeva una volta ed accade ancora in certi santuari di vecchio stampo.

    Quello che invece troviamo sono spiriti di antenati, strappati al loro terreno natale, messi a guardare le frontiere e a tenere a bada i nostri nemici. I nemici sono prima di tutto quei morti che non hanno nessuno che li assista e nutra. Si concentrano fuori dell’abitato e da sempre sono associati con le montagne e le foreste. Ci sono poi demoni, volpi ed altre creature.

    Il lettore sveglio si sarà però anche accorto che antenati =buono, morti=cattivo. La storia di come si trasforma un morto in un antenato la vedremo la prossima volta.

    Le foto sono mie.

    Nella foto vedete una composizione quintessenzialmente animista. L’essere umano e le sue creazioni minuscoli ed impotenti al cospetto dell’immensa forza di una natura indifferente. Una immagine di questo genere non avrebbe senso in un tempio buddista, e non ve la troverete mai. Il buddismo è egocentrico e poco interessato alla natura. In un giardino zen la natura è addomesticata e docile, niente di più di un aiuto al ritorno a sé stessi.

    Adorazione o culto della natura, si dice, Ma il termine secondo me non vuole dire quello che sembra. Non è meraviglia davanti allo spettacolo di una cascata, anche se può a volte esserlo. Il rapporto vero del Giappone con la natura è quello implicito nell’immagine qui sopra. La natura non è amica dell’umanità, ma neppure nemica.
    Semplicemente, è un fattore da non ignorare nell’equazione della sopravvivenza.

    Prima di proseguire, ricordo che un tempio è buddista, un santuario è animista ma non necessariamente Shinto. Spiegherò nei dettagli più oltre (se ci sarà ancora qualcuno che mi legge).

    Lo yamatologo austriaco Bernhard Scheid fa notare che l’urbanistica del Giappone tradizionale riflette chiaramente questo rapporto con la natura. Più importante è una istituzione religiosa e più probabile è infatti che si trovi fuori città, in posizioni poco o per nulla accessibili. Questa foto può dare una idea del loro isolamento.

    (Si tratta di un santuario adibito alla protezione di un passo di montagna diretto a nord-est, una direzione nefasta.)

    Ne consegue che templi e santuari non sono né necessariamente né principalmente luoghi di culto. (Un tempio è, oltre che una struttura di difesa, soprattutto un monastero).

    Un tempio o un santuario ha la forma di imbuto. Da una parte un pesante cancello rinforzato da un secondo e più grande cancello che viene subito dopo. Ambedue sono irrobustiti da fortificazioni spirituali. Statue di santi e via discorrendo.

    Un tempio può essere costituito da decine di sottotempli dedicati a dei diversi, oltre a uffici, refettori e toilet, per cui parlare di un suo piano urbanistico è più che legittimo. L’orientamento delle strade (nord-sud), il tipo di vegetazione (aceri, pini, querce, ecc.) la sua distribuzione (querce a nord est, aceri a sud, ecc, ma questi sono esempi che mi invento ora), la posizione, il numero, la funzione e la disposizione dei sottotempli, la loro architettura e perfino il numero di finestre che hanno (1, 3 o 5, sicuramente non 2 o 4) sono fattori attentamente studiati per la difesa spirituale del tempio.

    Dall’altra parte, quella opposta al centro abitato, il tempio semplicemente sparisce gradualmente, sciogliendo se nella foresta come vedete nella fotografia qui sopra. Un tempio è quindi una specie di membrana semipermeabile che controlla l’accesso alla comunità.

    Lo stesso vale fino a un certo punto anche per i santuari. Una istituzione religiosa è quindi una fortezza eretta contro le minacce presenti nel mondo esterno.

    Nella cartina in mezzo vedete la città dove abito. Il triangolo nero contiene l’area densamente popolata. I punti rossi sono i templi o santuari più importanti. Come vedete, nessuno di essi è in città. La maggior parte si trova su colline che la sovrastano, e questa distribuzione non è un caso.

    Se il culto della natura fosse adorazione della bellezza della natura, come affermato dalle autorità Shinto all’estero (ma non in Giappone, vedi caso) ci aspetteremmo di non trovare alcun edificio e di vedere cerimo

  • Il paese dove le cose parlano, Parte terza

    Pietro De Colle afferma che il mio uso della parola animismo non è standard. La definizione solita è chiara, dice. L’animismo consiste nel ritenere che le cose sono vive. E BASTA, dice Peter. Il cristianesimo e l’animismo hanno posizioni diametralmente opposte perché il cristianesimo sostiene che solo gli esseri umani hanno anima. Vorrei quindi spiegare perché uso una definizione più ampia, la seguente.[1]

    Animismo è la proiezione inconscia sulla natura da parte di un osservatore umano di caratteristiche fisiche o mentali dell’osservatore stesso.

    La mia definizione deriva da quella di Jean Piaget, ampiamente diffusa in antropologia, che definisce il punto di vista animistico come egocentrico.

    Peter contesta anche il mio applicare il termine animismo al cristianesimo. Liquidiamo subito questo primo problema. Peter ammette che ci sono “tracce” (termine suo) di animismo nel cristianesimo.

    Secondo me sono ben più di tracce, sono inclusioni fondamentali per fare funzionare l’intero sistema. I santi, ad esempio, sono essenzialmente elementi di animismo necessari per sostituire il dio cristiano, un dio che gli studiosi di religione comparata classificano come un dio distante, troppo astratto per venire sentito come reale dalla maggior parte dei fedeli. Ma questa è una discussione da fare in altra sede.

    La definizione che Peter cita è solo la più comune, probabilmente a causa dei suoi accenti indubbiamente poetici che catturano la fantasia. Ce ne sono molte altre, che prenderò da Internet così che siano verificabili.

    Cominciamo con l’Enciclopedia Britannica[2], di proprietà dell’Università di Chicago, una istituzione che sforna Nobel su base quasi annuale:

    Animism, belief in innumerable spiritual beings concerned with human affairs and capable of helping or harming human interests. Animistic beliefs were first competently surveyed by Sir Edward Burnett Tylor in his work Primitive Culture (1871), to which is owed the continued currency of the term.

    Manca il riferimento alle cose che vivono. Visto che manca anche nelle altre versioni (Wikisource ha quella, ora in pubblico dominio, del 1911 e già quella non faceva accenno alla definizione standard.), è difficile pensare sia un caso.

    La Britannica specifica anche:

    The term animism denotes not a single creed or doctrine but a view of the world consistent with a certain range of religious beliefs and practices, many of which may survive in more-complex and hierarchical religions. Modern scholarship’s concern with animism is coeval with the problem of rational or scientific understanding of religion itself.

    Non si tratta di una religione ma di una visione del mondo. Non è possibile derivare la definizione di Peter da quella della Britannica. Nemmeno la mia, ma se leggete la seguente frase:

    WIkipedia :

    Animism (from Latin anima, “breath, spirit, life”)[1][2] is the religious belief that objects, places and creatures all possess a distinct spiritual essence.[3][4][5][6] Potentially, animism perceives all things—animals, plants, rocks, rivers, weather systems, human handiwork and perhaps even words—as animated and alive.

    Importante, non tutti gli oggetti sono necessariamente vivi ma possiedono ugualmente una forza spirituale. Tenere presente che questa definizione è supportata da quattro testi diversi. Questa precisazione è fondamentale.

    Altra definizione simile

    Animists believe that an impersonal power is present in all objects. This power may be called mana, or life-force, or force-vital, or life essence or dynamism. . . The person in possession of this force may use it as he sees fit, but always stands the chance of losing it.”[2] In addition to this force that is present in all objects, animists believe that spirits inhabit certain objects, places and things.

    Arriviamo al punto. L’animismo crede in forze impersonali come quelle che ho descritto. La mana non ha carattere e volontà propri. Confronta la mana con i kami del kamidana che ho descritto.

    Penso sia chiaro a questo punto che la definizione standard, quella comune che afferma che l’animismo dice che le cose sono vive, è problematica. 

La mana o certi tipi di kami non sono classificabili con chiarezza, ma sono comunque forze impersonali. È difficile dire che siano vivi.

    Note a piè di pagina

  • Il paese dove le cose parlano, parte quinta

    Ma le cose sono vive o no? Ad esempio, le pietre del bellissimo giardino di rocce di Ryōan-ji potrebbero essere vive? La domanda ha, sono felice di poter dire, una risposta definitiva: no.

    Non sono organismi e non hanno né organi né metabolismo, non consumano energia, non si nutrono e non producono escreti, ed internamente non mostrano alcuna struttura degna di menzione, salvo l’occasionale reticolo cristallino, che però contiene pochissima informazione.

    Gli animisti attribuiscono proprietà degli organismi e della chimica organica ad entità che mancano di quanto necessario per averle.

    Ma allora da dove viene tutto questo entusiasmo per l’animismo in Giappone ed in Europa? Dal momento della mia scoperta dell’animismo me lo sono visto esplodere in faccia ed ora lo trovo dappertutto. Conosco il vecchio proverbio statunitense che dice che, se l’unico utensile che hai è un martello, ogni problema inizia ad assomigliare a un chiodo, ma non sono nato ieri.

    Un esempio. Mi sono anche tornate in mente vecchie storie con mia moglie cui non avevo dato importanza, ad esempio quella della mattina in cui mi ha visto gettare nell’immondizia delle pillole. Si è arrabbiata immediatamente e, quando la ho informata del fatto che mi erano cadute per terra e non erano costose, mi ha risposto che non importava. Il punto è che non provavo gratitudine per i medicinali che mi mantengono sano.

    E allora mi sono dato da fare per capire cosa fosse questo animismo scoprendo che, per quanto comune, la definizione che riportano le enciclopedie non è completa. Tale definizione è:

    L’animismo è il credere che gli oggetti abbiano tutti un’anima e siano in grado di influenzare gli eventi del mondo che li circonda.

    Quella completa è stata formulata, fra gli altri, da Jean Piaget che la definisce la proiezione di caratteristiche dell’osservatore sull’osservato. In altri termini, nel nostro caso, interpretare gli oggetti ed il loro comportamento attraverso analogie con sé stessi e dando quindi loro caratteristiche umane. Il punto quindi non è se le cose siano vive o meno. L’animismo assume siano vive, ma quello che conta non è tanto che si tratta di una conclusione scorretta, ma che è scorretta perché raggiunta con metodi scorretti, vale a dire usando l’introspezione piuttosto che l’analisi.

    L’animismo di sua natura non è curioso perché fa risalire tutto all’osservatore. L’intuizione è regina, l’analisi superfua. Un mio amico canadese mi spiegava che le sue tre figlie e sua moglie, essendo giapponesi, credono negli spiriti, roba che popola il Giappone con grande varietà di dimensioni, colori ed intenzioni. Lui invece non avrebbe creduto agli spiriti neppure se ne avesse visto uno ad un palmo dal suo naso. Avrebbe considerato un’allucinazione più probabile che uno spirito.

    I due errori principali dell’animismo sono la personificazione e l’antropomorfizzazione.
La personificazione consiste nell’attribuire emozioni e pensieri umani a cose ed animali. A mio avviso, spesso persone con la migliore delle intenzioni propone la personificazione della natura. Perfino Robert Attenborough a volte lo fa. L’idea è trattarla come una persona che ha un diritto inalienabile a vivere. Plaudo l’idea, ma mi rifiuto di umanizzare il mondo, Non siamo né saggi, né onesti sufficientemente per farlo, per cui la politica migliore è lasciare che il mondo badi a sé stesso.

    L’antropomorfizzazione è fare lo stesso sul piano fisico, vedi quelli che hanno paura di donare un organo per timore che la loro anima poi, nell’aldilà, debba arrangiarsi senza cuore, senza polmoni o senza la gamba destra. Ti verrebbe da ridere se non fosse che questo timore è la ragione per cui in Giappone il numero di trapianti all’anno PER TUTTI GLI ORGANI si mantiene sulle due cifra, 58 nel 2015 se non mi sbaglio.

In ogni caso, il vero aspetto preoccupante dell’animismo è il fatto che comporta necessariamente la credenza nell’esistenza di spiriti e dell’esistenza di magia.

    Basta pensare a quali mezzi può avere un oggetto, il nostro ombrello rotto per esempio, per farci del male se è scontento di noi e del nostro operato. L’unico metodo possibile è la magia.

    Magia che contraddice leggi scientifiche che sappiamo essere universali. Conservazione dell’energia, entropia, distinzione chimica fra organico ed inorganico, roba seria, non sciocchezze.

    Per finire. un’altra caratteristica dell’animismo di grande importanza pratica. E’ evidente che, se da una parte tutte le entità ed esseri visibili ed invisibili attorno a noi sono capaci di magia—e devono esserlo perché la nostra ipotesi che hanno sia l’intenzione che i mezzi per influenzarci sia vera—i soli che invece non sono in grado di fare uso della magia sono gli esseri umani. 

Di qui il continuo sospettare e guardarsi dietro le spalle dell’animista, per il quale il mondo è una fonte inesauribile di minacce. Dove noi vediamo ombrelli e lanterne rotti, l‘animismo vede esseri da placare.

    Nella foto, una cerimonia funebre per dei pennelli da artista vecchi. Foto mia.

  • Il paese dove le cose parlano, parte prima

    Può una persona sana di mente avere paura di un ombrello rotto? Recentemente ho scoperto che, sebbene la risposta ovvia sia no, quella corretta è sì.

    Per quanto improbabile possa sembrare, un comportamento senza alcun dubbio patologico in una cultura può essere completamente normale in un’altra, vedi le molte culture che temono le ombre che i corpi proiettano o gli specchi.

    Ho sempre saputo che i giapponesi sono animisti, che cioè credono che pietre, alberi e cascate non siano solo vivi ma consapevoli di sé. Il termine però non era riuscito ad attrarre veramente la mia attenzione nei primi trent’anni trascorsi in questo paese, e solo un incidente inaspettato mi ha forzato finalmente a vedere il mio mondo con nuovi occhi.

    Stavo latitando in una scuola dove faccio lavoro volontario con alcuni amici giapponesi quando una di loro si mise a scarabocchiare con foglio e pennarello. Una sbirciatina mi rivelò che aveva disegnato un ombrello dotato di un solo occhio e di una sola gamba. Potete vedere qui sotto una rappresentazione classica della creatura.

    Le ho chiesto cosa fosse. Mi ha risposto che era il fantasma di un ombrello rotto. Devo essere rimasto letteralmente a bocca aperta, perché si è messa a ridere ed ha rincarato la dose disegnando una seconda figura. Questa volta si trattava di una lanterna di carta, una chōchin in giapponese, del tipo che si vedono spesso nei ristoranti cinesi. Presentava uno strappo, strappo che indicava come anche lei fosse un fantasma risentito e furente. La mia amica aveva persino aggiunto un dettaglio cruento. 
La lingua della lanterna di carta, sporgente di un palmo dalla bocca, era trafitta, una punizione che più tardi ho scoperto essere standard per i peccatori relegati all’inferno buddista, probabilmente—non sto scherzando—come punizione per la sua lunga partecipazione ad attività come i quartieri a luci rosse, bar e ristoranti.

    Ciò che la creatura porta in testa (non presente in questi disegni) è un dettaglio importante. È un sara, un piatto contenente acqua posseduto da altre creature come i kappa . Esso li nutre ed è la sola cosa che mangiano. Se il sara si secca, il kappa o fantasma è nei guai. Gli umani cercano di ingannare tali esseri perché si inchinino in modo che il sara si svuoti e muoiano.

    Gli altri presenti, dopo un’occhiata rapida, sono tornati a quello che stavano facendo. Io però non ero convinto. Come può un semplice ombrello trasformarsi in un fantasma malevolo? L’amica mi ha detto che, quando rompi un ombrello, la sua anima non ha più un posto dove andare e per questo è furiosa con te, causa prima delle sue sventure.

    Il punto di vista occidentale secondo cui le cose sono morte, senz’anima e incapaci di agire è così profondamente radicato in me che c’è voluto del tempo prima che mi rendessi pienamente conto delle conseguenze di ciò che aveva detto. Ciò che aveva detto implicava che l’ombrello fosse vivo, consapevole di sé, senziente insomma.

    Nei giorni seguenti, ossessionato dalla cosa, sono tornato al soggetto così spesso che tutti hanno finito col credermi un appassionato di storie di fantasmi. Siccome i giapponesi sono appunto giapponesi, libri e articoli di riviste sull’argomento hanno cominciato ad arrivare.

    Mi dicevo: “È mai possibile che i miei amici abbiano paura di una scopa mor, ehm … rotta? Maddai”

    Comunque … dovevo chiedere. Avrebbe paura del fantasma di un ombrello rotto? La mia amica rispose di sì.

    Ciononostante dubitavo. Come ho già detto, personalmente vivo in un universo newtoniano / cartesiano dove nulla è senza causa e tutto obbedisce a leggi immutabili e prevedibili. Gli oggetti per definizione non possono essere vivi. Solo gli organismi, dotati appunto di organi, possono esserlo. Ogni fibra del mio corpo rifiutava di credere all’evidenza. Ci è voluta un’altra amica, Aki, per farmi capire che avevo a che fare con una visione del mondo, non con le paure superstiziose di un individuo.

    Tecnicamente le insegno italiano ma, dato che siamo simili su così tante cose, spesso finiamo per discutere in giapponese di cose di reciproco interesse. Un giorno mi ha spiegato che aveva appena gettato via un paio di vecchie bambole che la figlia di 15 anni non desiderava più. Aveva bendato loro gli occhi e le aveva gettate nell’immondizia.

    Strabiliato, le ho chiesto: “Hai fatto cosa?” “Le ho bendate”.

    Perché? Non ci aveva mai pensato. Aveva solo fatto ciò che sua madre le aveva insegnato: sempre bendare le bambole prima di buttarle via. Aki non sembrava trovare nulla di strano in quello che aveva fatto, e il mio stupore pareva divertirla, così le ho chiesto perché pensava sua madre le avesse trasmesso quella tradizione. Probabilmente perché le bambole non potessero vedere chi le stava gettando via. Tempo dopo, un’amica cinese mi ha detto che lei avrebbe fatto lo stesso per un motivo diverso, evitare che le bambole potessero ritornare.

    Un pomeriggio di fine estate, qualche tempo dopo, stavo camminando lungo la riva del laghetto di Shinobazu a Tokyo – un posto meraviglioso, eccellente per osservare le fioriture di loto ad agosto – quando ho notato uno striscione appeso di fronte a Kan’eiji. Kan’eiji è ora un piccolo tempio buddista, ma occupava un tempo gran parte di quello che oggi è il grande distretto di Ueno.

    Il tempio, prima di essere raso al suolo dai rivoluzionari nel 1868, era immenso e potente, il tempio funerario del clan Tokugawa. Quattro dei nove shogun Tokugawa erano sepolti lì. Ora le tombe sono nel cortile di una banca, inaccessibili. Sic transit gloria mundi.

    E lo striscione pubblicizzava il fatto che il tempio su richiesta eseguiva riti funebri per bambole.

    Più tardi ho riferita la mia scoperta a un’amica giapponese—tutti i miei amici giapponesi sono donne— esprimendo il mio stupore nel vedere un tempio del calibro di Kan’eiji abbassarsi a fare funerali a bambole. Il suo divertimento per la mia sorpresa si è trasformato in allarme quando si è resa conto che in Europa le bambole le buttiamo nella spazzatura e basta. Per noi una bambola è una bambola.

    Questo incidente finalmente ha fatto sparire la mia paura di venire preso in giro, permettendomi per la prima volta di vedere una realtà che, anche se sempre sotto il mio naso dal giorno in cui sono uscito dall’aereo, non avevo mai visto. Uno vede quello che la sua mente può vedere. Dopo mesi passati a guardare le porte della percezione aprirsi, finalmente ho capito che tutti gli accenni che mi erano stati fatti e che avevo inconsciamente scartato come semplici allegorie andavano invece presi alla lettera.

    Quando Saichō, fondatore della scuola buddhista Tendai, disse che tutti gli esseri sono capaci di illuminazione, nel numero includeva anche piccoli ciottoli, rane e alberi. Quando qualcuno tira fuori alcune bambole dall’armadio e le mette alla finestra in modo che “possano prendere un po’ d’aria”, come ha fatto il marito di una mia conoscente, la sua non è necessariamente una figura retorica.

    Questa realizzazione mi ha fatto capire quanto il Giappone, che sapevo molto diverso da tutto quel che conoscevo, lo sia ancora più di quanto avessi mai sospettato. Per tutti questi anni, come la maggior parte, se non tutti, gli occidentali, ho visto i robot industriali, le fotocamere, i macchinari sofisticati, l’eleganza del design giapponese e la genialità con cui questo antico popolo si è adattato all’elettronica e alle fibre ottiche, ma non questo lato magico e primitivo.

    E lo Shinto? Lo Shinto in fondo è animismo, no? Sì, ma lo Shinto è una religione—ma non in senso europeo—mentre qui si parla di un modo di interpretare la realtà, un precursore della religione.

    A questo punto, un’obiezione che sento spesso è che spesso “ Queste sono solo superstizioni. Ci sono anche in Italia.” No, non è la stessa cosa. In Italia queste sarebbero effettivamente superstizioni, residui di paganesimo privi del loro contesto originale che dava loro senso, importanza e soprattutto un posto a tavola in società. Chi crede se ne vergogna.

    Ma quando simili idee sono modi accettati di conoscere il mondo insegnati da una generazione all’altra, condivisi da diverse religioni, istituzioni politiche e ogni strato della società, diventano una visione del mondo che non può essere liquidata così facilmente perché definisce una cultura.

    Ma come ho potuto – insieme a praticamente tutti gli altri – non notare nulla? Come puoi vivere per decenni in un paese e ignorare una differenza colossale come questa, insieme alle sue manifestazioni e conseguenze?

    Credo sia più semplice di quanto sembri. Vi è mai capitato di leggere da qualche parte, per caso, un nome mai sentito prima solo per vederlo ovunque da allora in poi? Ti chiedi come avresti potuto mancarlo, ma scartare ciò che non serve è un meccanismo naturale della nostra memoria.

    Ho reinterpretato, e reinterpretato male, ciò che ho visto sulla base di ciò che sapevo. Ho interpretato metafora poetica l’affermazione di Saichō , storicamente importante, che tutti gli esseri sono in grado di raggiungere il satori come un metafora poetica, per esempio, perché non potevo concepire che Saichō credesse che una rana può raggiungere l’illuminazione.

    Il motivo per cui quel disegno ha avuto un impatto così grande su di me è che era interpretabile in un solo modo e quel modo si scontrava con tutto ciò che credevo e credo. Un semplice disegno ha innescato un cambiamento immenso. Una volta saputo dove guardare, anche con una sana dose di scetticismo sono giunto alla conclusione che l’animismo è davvero ovunque in Giappone. E ho capito che la mia visione della realtà e quella del popolo giapponese sono incompatibili.

    Il problema più grande che l’incomprensione della natura dell’animismo porta ad una serie di errori non casuali ma altamente sistematici. Questa sistematicità nasconde le contraddizioni interne dell’animismo a chi lo osserva.

    Due libri sono stati fondamentali per me per arrivare a questa conclusione. Essi hanno trasformato una serie di enigmi in altrettante ovvietà, cose che non potrebbero essere altrimenti.

    Il primo è Japan, An Attempt to an Interpretation, di Lafcadio Hearn, del 1904. Il secondo è Ancestor Worship and Japanese Law di Nobushige Hozumi, del 1901.

    Ambedue dicono la stessa cosa. Il Giappone e la sua cultura si basano sul culto degli antenati, che a sua volta poggia sull’animismo. Hozumi dice che l’intero sistema legale giapponese nel 1901 aveva come scopo la protezione e regolamentazione del culto degli antenati.

  • Il tramonto dei Tokugawa

    Lo stemma araldico dei Tokugawa

    La comparsa delle “Nere Navi” del Commodoro Matthew Perry nel 1853 e la sua richiesta di apertura dei porti giapponesi al commercio estero sono spesso viste come l’evento che ha posto fine all’isolamento del Giappone e ha portato alla fine dello shogunato Tokugawa. Tuttavia, è importante notare che il Giappone stava già affrontando numerose sfide interne prima dell’arrivo di Perry. Esse avrebbero prima o poi, Navi Nere o meno, portato alla caduta della dinastia.

    La prima, più grave, più bizzarra e vecchia di queste contraddizioni è la posizione ambigua della classe samurai. È infatti evidente che, se da una parte i Tokugawa avevano dichiarato i guerrieri la classe dominante, dall’altra lo shogunato presa misure che resero praticamente impossibile un conflitto fra clan. Vi lascio immaginare come fosse ridotta la classe guerriera nel 1800, dopo 250 anni e passa di pace. La classe samurai, che formava l’élite governativa e militare del paese, era in una crescente crisi finanziaria. Molti samurai erano indebitati e alcuni persino impoveriti, a causa dei cambiamenti nell’economia giapponese e dell’inadeguatezza del sistema feudale a gestire questi cambiamenti.

    Anche se nominalmente ricchi, i samurai come classe erano senza dubbio fra i poveri, mentre il denaro fluiva abbondante dalle loro tasche in quelle dei mercanti della Shitamachi di Tokyo. C’erano crescenti disuguaglianze tra le classi sociali, soprattutto tra i mercanti in arricchimento e la classe samurai in decadenza. La classe samurai fu quindi la prima a ribellarsi con impegno, perché era quella che aveva più interesse ad un cambiamento della situazione. Gli organizzatori dei numerosi disordini del periodo erano guerrieri. Saigo Takamori è un ottimo esempio non solo delle tensioni, ma anche delle contraddizioni del periodo.

    Ma anche il popolo ne aveva abbastanza dei rigori estremi della vita sotto i Tokugawa, un regime che rese obbligatorio tutto quello che non era proibito. Una delle conseguenze fu un fenomeno estremamente bizzarro, il movimento “ee janaika.” Consisteva nell’esplosione improvvisa di feste in cui la gente perdeva ogni controllo di sé e ballava per ore e giorni, ripetendo “ee janaika” (letteralmente “non è forse bene?”, ma si tratta di una frase il cui spirito è meglio espresso come “Ne ho abbastanza (di ordine e legalità”). Esso è un esempio delle manifestazioni di malessere e delle tensioni sociali che esistevano durante gli ultimi giorni dello shogunato Tokugawa.

    Come già detto, i festival “ee ja nai ka” spesso vedevano persone, in particolare contadini e cittadini comuni, ballare, cantare e comportarsi in modi che erano considerati bizzarri o al di fuori delle norme sociali. Molti indossavano costumi stravaganti o si travestivano, e la natura spontanea e caotica degli eventi li rendeva difficili da controllare.

    La gravità della situazione dello Shogunato è resa evidente da tutti gli slogan estremi generati da questo periodo. Ecco una breve lista.

    Wakon Yōsai : L’idea di adottare la tecnologia e le tecniche occidentali pur mantenendo l’essenza e lo spirito giapponese è spesso riassunta nella frase “Wakon Yōsai” (和魂洋才). Tradotto letteralmente, “Wakon” (和魂), il termine significa “spirito giapponese” e “Yōsai” (洋才) significa “talento occidentale” o “conoscenza occidentale”. Questa filosofia è diventata popolare durante la Restaurazione Meiji ma nacque prima, dalla necessità di importare tecnologia europea superiore a quella giapponese senza dover per questo buttare a mare secoli di cultura.

    Sonno Joi (尊皇攘夷): Tradotto letteralmente, “sonno” significa “rispettare l’imperatore” e “joi” significa “espellere i barbari”. Questo slogan era popolare tra coloro che volevano restaurare l’autorità politica dell’Imperatore e opporsi all’influenza straniera in Giappone.

    Fukoku Kyohei (富国強兵): Questo slogan significa “Paese Ricco, Esercito Forte”. Rifletteva l’obiettivo della nazione di diventare economica e militarmente potente seguendo modelli occidentali. Bunmei Kaika (文明開化): Questa espressione può essere tradotta come “Illuminazione e Civiltà” o “Civilizzazione e Modernizzazione”. Rappresentava l’entusiasmo per l’adozione della cultura e della tecnologia occidentali durante l’era Meiji.

    Kinnō (勤王): Questa parola significa “leale servizio all’Imperatore”. Era un concetto centrale per i gruppi che sostenevano un ritorno al potere imperiale. Ognuno di questi slogan e concetti ha giocato un ruolo nella mobilitazione delle persone e nella guida delle politiche durante questo periodo turbolento della storia giapponese. Rappresentavano il desiderio di modernizzare il Giappone, ma anche le preoccupazioni riguar all’influenza straniera e la perdita dell’identità culturale giapponese.

  • Le follie degli ee janaika

    Nel post precedente abbiamo visto che il periodo finale dello shogunato dei Tokugawa fosse caotico e come la fine dello Shogunato fosse nell’aria. Le navi di Perry erano arrivate al momento giusto per dare un calcio finale alla alla situazione.

    Uno dei movimenti più strani, e il termine è eufemistico, del periodo fu quello dei cosiddetti “ee janai ka,” episodi di follia collettiva a carattere spesso politico e/o religioso appena velato e impossibili da prevenire da parte del governo a causa della loro natura spontanea. Il nome del fenomeno significa più o meno: “Ma sì che possiamo, ma si che si può…” e lo dimostra essere una chiara reazione al radicale proibizionismo dello Shogunato.

    Dopo il trauma del periodo degli stati combattenti, una guerra civile durata più di un secolo e mezzo, il popolo si era dimostrato disposto a qualsiasi cosa per l’amor di stabilità, tanto da accettare di buon grado le imposizioni del fondatore Tokugawa Ieyasu. La necessità di un governo dal polso fermo dopo un periodo così lungo di violenza era evidente a tutti. I giapponesi furono ricompensati della loro disciplina con un triplicarsi della popolazione in solo qualche generazione.

    La cosa che sorprende delle leggi imposte da Ieyasu era la loro capillarità. Esse ad esempio prescrivevano dettagli specifici sugli abiti che ogni classe sociale poteva indossare, incluse le dimensioni, i colori e i tipi di stoffa. Solo lo shogun poteva indossare abiti di certi colori, come il rosso brillante.

    C’era un divieto per gli uomini di avere barbe e capelli lunghi. Questo era in parte un tentativo di sopprimere le influenze esterne, poiché l’aspetto occidentale, incluso il modo in cui gli uomini occidentali portavano la barba, stava diventando popolare in Giappone.

    Solo i samurai avevano il diritto di portare due spade. Questa regola rafforzava la distinzione tra i samurai e le altre classi e sottolineava il loro status privilegiato.

    Si potrebbe pensare che le classi superiori fossero esenti da simili limiti, ma questo non è il caso. I samurai, ad esempio, non potevano partecipare alle rappresentazioni di teatro kabuki. Inizialmente, questo era molto libero e spesso associato a intrattenimenti licenziosi. Col tempo, le autorità Tokugawa stabilirono regole per rendere il kabuki più rispettabile. Ad esempio, fu proibito alle donne di esibirsi, portando alla tradizione degli attori maschili “onnagata” che interpretavano ruoli femminili.

    Queste sono alcune delle proibizioni. Vi risparmio gli obblighi.

    L’estrema severità del governo e della sua amministrazione sono il solo modo di spiegare un fenomeno anomalo, particolarmente in questo paese, come quello degli ee janai ka, centinaia di persone che ballano per ore e anche giorni, continuando a ripetere lo slogan “ee janai ka” mentre portano costumi più che stravaganti. Non ne ho le prove naturalmente, ma mi piace pensare che questo fosse un modo per scaricare la tensione, per tornare ad essere persone libere di pensare quello che volevano. Ieyasu, intelligente com’era, avrebbe sicuramente apprezzato la loro iniziativa.

  • Il buddhismo di KAMAKURA

    Ovvero, il buddismo dei poveri

    Domanda: potresti definire il buddhismo d Kamakura?

    BOT:

     Il buddhismo di Kamakura è una forma di buddhismo giapponese che emerse nel periodo Kamakura (1185-1333) del Giappone. Questa forma di buddhismo si sviluppò come reazione al buddhismo tradizionale giapponese, noto come Nara Buddhism, che era diventato sempre più corrotto e influenzato dal potere politico dell’epoca.

    Il buddhismo di Kamakura si basava su una serie di insegnamenti fondamentali tratti dalla scuola Tendai e dalla scuola esoterica Shingon del buddhismo Mahayana. In particolare, le scuole Tendai e Shingon si concentravano sull’idea della “natura di Buddha” (Buddha-nature), che sosteneva che ogni essere possiede la  di raggiungere l’illuminazione e diventare un Buddha. Inoltre, queste scuole sostenevano la pratica della meditazione come strumento per raggiungere l’illuminazione.

    Il buddhismo di Kamakura, tuttavia, introdusse una serie di innovazioni che lo distinsero dalle scuole Tendai e Shingon. Ad esempio, il fondatore della scuola Soto Zen, Dogen, introdusse una pratica di meditazione chiamata “zazen”, che consiste nella seduta silenziosa e nella concentrazione sulla respirazione. Inoltre, la scuola Jodo Shinshu, fondata da Shinran, enfatizzava la devozione al Buddha Amitabha e sosteneva che la salvezza non fosse raggiungibile attraverso la propria pratica, ma solo attraverso la grazia del Buddha Amitabha.

    In sintesi, il buddhismo di Kamakura è una forma di buddhismo giapponese che emerse nel periodo Kamakura, basato su insegnamenti della scuola Tendai e della scuola esoterica Shingon, ma che introdusse anche importanti innovazioni nella pratica della meditazione e nella devozione al Buddha Amitabha. Il buddhismo di Kamakura ebbe un’importante influenza sulla cultura giapponese e si diffuse in tutta la nazione, diventando uno dei pilastri della religione giapponese.

    Domanda: Chi è Amitabha?

    BOT:

    Amida, noto anche come Amitabha in sanscrito, è uno dei Buddha più importanti del buddhismo Mahayana, una delle principali tradizioni del buddhismo. Il nome “Amida” significa “luci infinite” o “luci senza fine”, mentre “Amitabha” significa “luce infinita”.

    Secondo la tradizione, Amida è il Buddha della Terra Pura, un regno di pace e felicità che si trova a ovest del mondo materiale, dove gli esseri illuminati vivono in eterno. Si dice che Amida abbia creato la Terra Pura come luogo in cui gli esseri possono raggiungere l’illuminazione senza dover affrontare le difficoltà e le sfide del mondo materiale.

    La pratica della devozione ad Amida è molto importante nella scuola Jodo Shinshu del buddhismo giapponese. Questa scuola sostiene che la salvezza non possa essere raggiunta attraverso la propria pratica, ma solo attraverso la grazia di Amida. I suoi seguaci credono che recitando il nome di Amida, “Namu Amida Butsu”, si possa ottenere la sua benedizione e raggiungere la Terra Pura alla fine della vita.

    Amida è rappresentato in varie forme artistiche nel buddhismo Mahayana, come ad esempio nelle statue, nei dipinti e nelle sculture. È spesso raffigurato con un sorriso gentile e un gesto di benedizione, e indossa un saio monastico e un’aura dorata attorno alla testa.

    In sintesi, Amida è uno dei Buddha più importanti del buddhismo Mahayana, noto come il Buddha della Terra Pura, e la sua pratica della devozione è molto importante nella scuola Jodo Shinshu del buddhismo giapponese.

    Domanda

    Qual è il ruolo del sutra del loto nel buddismo di Kamakura

    Il Sutra del Loto, noto anche come Sutra del Loto del Buddha della Legge Infinita, è un testo buddhista molto importante che ha influenzato profondamente lo sviluppo del buddhismo di Kamakura.

    Il Sutra del Loto sostiene che il Buddha non ha mai smesso di insegnare, ma ha invece adottato una serie di insegnamenti graduali in base alle capacità degli studenti. Inoltre, il sutra enfatizza l’idea che tutti gli esseri possiedono la natura di Buddha e possono raggiungere l’illuminazione.

    Il Sutra del Loto ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della scuola Nichiren del buddhismo giapponese, fondata da Nichiren, che sostenne l’importanza del sutra come il testo più importante del buddhismo. Inoltre, il Sutra del Loto ha influenzato anche altre scuole del buddhismo di Kamakura, come la scuola Tendai e la scuola Pure Land.

    In particolare, la scuola Tendai ha sviluppato una teoria dell’”unificazione di tutti i buddhismi”, sostenendo che tutti gli insegnamenti buddhisti siano efficaci e che essi possano essere sintetizzati nella pratica della meditazione e della recitazione del mantra “Namu Myoho Renge Kyo”, che significa “Omaggio al Sutra del Loto”. Invece, la scuola Pure Land si è basata sulla fede nella devozione al Buddha Amitabha, ma ha utilizzato anche il Sutra del Loto come un testo importante per la sua dottrina.

    In sintesi, il Sutra del Loto ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo del buddhismo di Kamakura. Ha influenzato molte delle scuole di questo periodo, e ha sostenuto l’idea che tutti gli esseri possiedono la natura di Buddha e che l’illuminazione può essere raggiunta da tutti. Inoltre, il Sutra del Loto è stato utilizzato come testo centrale nella pratica della meditazione e della devozione a Buddha Amitabha

    Domanda

    Perché così tante scuole del buddhismo di Kamakura si rifanno a Saichō?

    Qui il BOT commette un errore, che io correggo…

    

    Saicho, noto anche come Dengyo Daishi, è stato un monaco buddhista giapponese del IX secolo e fondatore della setta Tendai del buddhismo giapponese. Nonostante la sua morte sia avvenuta secoli prima della nascita del buddhismo di Kamakura, la sua influenza ha avuto un impatto significativo sulla sua evoluzione.

    Uno dei discepoli di Saicho, Ennin, si recò in Cina per studiare il buddhismo e portò con sé nuove idee e pratiche che influenzarono la setta Tendai e il buddhismo giapponese in generale. In particolare, Ennin portò in Giappone la pratica della recitazione del nembutsu, che divenne uno dei pilastri del buddhismo di Kamakura.

    Inoltre, la setta Tendai fondata da Saicho si concentrava sulla pratica della meditazione, che divenne anche una pratica centrale nel buddhismo di Kamakura. La setta Tendai esercitò un’enorme influenza sulla cultura giapponese, incluso l’arte, la letteratura e la filosofia, e la sua eredità è ancora evidente nel Giappone contemporaneo.

    In sintesi, Saicho non è direttamente legato al buddhismo di Kamakura, ma la sua setta Tendai ha avuto un ruolo significativo nella sua evoluzione e nella diffusione di pratiche e idee che divennero importanti nel periodo di Kamakura.

    Frank:

    Io però ho letto che c’è una sua frase che ha avuto una grande importanza nell’evoluzione del buddhismo dei poveri

    BOT

    Mi scuso per l’errore nella mia risposta precedente. Effettivamente c’è una frase attribuita a Saicho che ha avuto un ruolo significativo nell’evoluzione del buddhismo giapponese e in particolare nella nascita del cosiddetto “buddhismo dei poveri” durante il periodo di Kamakura.

    La frase in questione è “Namu Amida Butsu” che significa “Mi affido all’Amitabha Buddha”. Saicho ha introdotto questa pratica nella sua setta Tendai e ha incoraggiato i suoi seguaci a recitare il nome di Amitabha Buddha come pratica di meditazione. Questa pratica si diffuse rapidamente e diventò particolarmente popolare tra le persone comuni, che iniziarono a considerarla come un modo semplice per ottenere il Buddhahood, ovvero l’illuminazione.

    Questa pratica di devozione al Buddha Amitabha, associata al nome “Namu Amida Butsu”, divenne uno dei pilastri del buddhismo di Kamakura, che si sviluppò nel XII secolo. Il buddhismo di Kamakura, in particolare le sette Jodo e Jodo Shinshu, si concentrava sulla salvezza degli esseri umani attraverso la devozione al Buddha Amitabha, offrendo un percorso spirituale accessibile a tutti, compresi i poveri e gli analfabeti.

    Quindi, la frase “Namu Amida Butsu” introdotta da Saicho ha avuto un ruolo importante nell’evoluzione del buddhismo giapponese, in particolare nella nascita del buddhismo dei poveri durante il periodo di Kamakura.

     Il buddhismo di Kamakura è una forma di buddhismo giapponese che emerse nel periodo Kamakura (1185-1333) del Giappone. Questa forma di buddhismo si sviluppò come reazione al buddhismo tradizionale giapponese, noto come Nara Buddhism, che era diventato sempre più corrotto e influenzato dal potere politico dell’epoca.

    Il buddhismo di Kamakura si basava su una serie di insegnamenti fondamentali tratti dalla scuola Tendai e dalla scuola esoterica Shingon del buddhismo Mahayana. In particolare, le scuole Tendai e Shingon si concentravano sull’idea della “natura di Buddha” (Buddha-nature), che sosteneva che ogni essere possiede la  di raggiungere l’illuminazione e diventare un Buddha. Inoltre, queste scuole sostenevano la pratica della meditazione come strumento per raggiungere l’illuminazione.

    Il buddhismo di Kamakura, tuttavia, introdusse una serie di innovazioni che lo distinsero dalle scuole Tendai e Shingon. Ad esempio, il fondatore della scuola Soto Zen, Dogen, introdusse una pratica di meditazione chiamata “zazen”, che consiste nella seduta silenziosa e nella concentrazione sulla respirazione. Inoltre, la scuola Jodo Shinshu, fondata da Shinran, enfatizzava la devozione al Buddha Amitabha e sosteneva che la salvezza non fosse raggiungibile attraverso la propria pratica, ma solo attraverso la grazia del Buddha Amitabha.

    In sintesi, il buddhismo di Kamakura è una forma di buddhismo giapponese che emerse nel periodo Kamakura, basato su insegnamenti della scuola Tendai e della scuola esoterica Shingon, ma che introdusse anche importanti innovazioni nella pratica della meditazione e nella devozione al Buddha Amitabha. Il buddhismo di Kamakura ebbe un’importante influenza sulla cultura giapponese e si diffuse in tutta la nazione, diventando uno dei pilastri della religione giapponese.

    Domanda: Chi è Amitabha?

    BOT:

    Amida, noto anche come Amitabha in sanscrito, è uno dei Buddha più importanti del buddhismo Mahayana, una delle principali tradizioni del buddhismo. Il nome “Amida” significa “luci infinite” o “luci senza fine”, mentre “Amitabha” significa “luce infinita”.

    Secondo la tradizione, Amida è il Buddha della Terra Pura, un regno di pace e felicità che si trova a ovest del mondo materiale, dove gli esseri illuminati vivono in eterno. Si dice che Amida abbia creato la Terra Pura come luogo in cui gli esseri possono raggiungere l’illuminazione senza dover affrontare le difficoltà e le sfide del mondo materiale.

    La pratica della devozione ad Amida è molto importante nella scuola Jodo Shinshu del buddhismo giapponese. Questa scuola sostiene che la salvezza non possa essere raggiunta attraverso la propria pratica, ma solo attraverso la grazia di Amida. I suoi seguaci credono che recitando il nome di Amida, “Namu Amida Butsu”, si possa ottenere la sua benedizione e raggiungere la Terra Pura alla fine della vita.

    Amida è rappresentato in varie forme artistiche nel buddhismo Mahayana, come ad esempio nelle statue, nei dipinti e nelle sculture. È spesso raffigurato con un sorriso gentile e un gesto di benedizione, e indossa un saio monastico e un’aura dorata attorno alla testa.

    In sintesi, Amida è uno dei Buddha più importanti del buddhismo Mahayana, noto come il Buddha della Terra Pura, e la sua pratica della devozione è molto importante nella scuola Jodo Shinshu del buddhismo giapponese.

    Domanda

    Qual è il ruolo del sutra del loto nel buddismo di Kamakura

    Il Sutra del Loto, noto anche come Sutra del Loto del Buddha della Legge Infinita, è un testo buddhista molto importante che ha influenzato profondamente lo sviluppo del buddhismo di Kamakura.

    Il Sutra del Loto sostiene che il Buddha non ha mai smesso di insegnare, ma ha invece adottato una serie di insegnamenti graduali in base alle capacità degli studenti. Inoltre, il sutra enfatizza l’idea che tutti gli esseri possiedono la natura di Buddha e possono raggiungere l’illuminazione.

    Il Sutra del Loto ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della scuola Nichiren del buddhismo giapponese, fondata da Nichiren, che sostenne l’importanza del sutra come il testo più importante del buddhismo. Inoltre, il Sutra del Loto ha influenzato anche altre scuole del buddhismo di Kamakura, come la scuola Tendai e la scuola Pure Land.

    In particolare, la scuola Tendai ha sviluppato una teoria dell’”unificazione di tutti i buddhismi”, sostenendo che tutti gli insegnamenti buddhisti siano efficaci e che essi possano essere sintetizzati nella pratica della meditazione e della recitazione del mantra “Namu Myoho Renge Kyo”, che significa “Omaggio al Sutra del Loto”. Invece, la scuola Pure Land si è basata sulla fede nella devozione al Buddha Amitabha, ma ha utilizzato anche il Sutra del Loto come un testo importante per la sua dottrina.

    In sintesi, il Sutra del Loto ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo del buddhismo di Kamakura. Ha influenzato molte delle scuole di questo periodo, e ha sostenuto l’idea che tutti gli esseri possiedono la natura di Buddha e che l’illuminazione può essere raggiunta da tutti. Inoltre, il Sutra del Loto è stato utilizzato come testo centrale nella pratica della meditazione e della devozione a Buddha Amitabha

    Domanda

    Perché così tante scuole del buddhismo di Kamakura si rifanno a Saichō?

    Qui il BOT commette un errore, che io correggo…

    

    Saicho, noto anche come Dengyo Daishi, è stato un monaco buddhista giapponese del IX secolo e fondatore della setta Tendai del buddhismo giapponese. Nonostante la sua morte sia avvenuta secoli prima della nascita del buddhismo di Kamakura, la sua influenza ha avuto un impatto significativo sulla sua evoluzione.

    Uno dei discepoli di Saicho, Ennin, si recò in Cina per studiare il buddhismo e portò con sé nuove idee e pratiche che influenzarono la setta Tendai e il buddhismo giapponese in generale. In particolare, Ennin portò in Giappone la pratica della recitazione del nembutsu, che divenne uno dei pilastri del buddhismo di Kamakura.

    Inoltre, la setta Tendai fondata da Saicho si concentrava sulla pratica della meditazione, che divenne anche una pratica centrale nel buddhismo di Kamakura. La setta Tendai esercitò un’enorme influenza sulla cultura giapponese, incluso l’arte, la letteratura e la filosofia, e la sua eredità è ancora evidente nel Giappone contemporaneo.

    In sintesi, Saicho non è direttamente legato al buddhismo di Kamakura, ma la sua setta Tendai ha avuto un ruolo significativo nella sua evoluzione e nella diffusione di pratiche e idee che divennero importanti nel periodo di Kamakura.

    Frank:

    Io però ho letto che c’è una sua frase che ha avuto una grande importanza nell’evoluzione del buddhismo dei poveri

    BOT

    Mi scuso per l’errore nella mia risposta precedente. Effettivamente c’è una frase attribuita a Saicho che ha avuto un ruolo significativo nell’evoluzione del buddhismo giapponese e in particolare nella nascita del cosiddetto “buddhismo dei poveri” durante il periodo di Kamakura.

    La frase in questione è “Namu Amida Butsu” che significa “Mi affido all’Amitabha Buddha”. Saicho ha introdotto questa pratica nella sua setta Tendai e ha incoraggiato i suoi seguaci a recitare il nome di Amitabha Buddha come pratica di meditazione. Questa pratica si diffuse rapidamente e diventò particolarmente popolare tra le persone comuni, che iniziarono a considerarla come un modo semplice per ottenere il Buddhahood, ovvero l’illuminazione.

    Questa pratica di devozione al Buddha Amitabha, associata al nome “Namu Amida Butsu”, divenne uno dei pilastri del buddhismo di Kamakura, che si sviluppò nel XII secolo. Il buddhismo di Kamakura, in particolare le sette Jodo e Jodo Shinshu, si concentrava sulla salvezza degli esseri umani attraverso la devozione al Buddha Amitabha, offrendo un percorso spirituale accessibile a tutti, compresi i poveri e gli analfabeti.

    Quindi, la frase “Namu Amida Butsu” introdotta da Saicho ha avuto un ruolo importante nell’evoluzione del buddhismo giapponese, in particolare nella nascita del buddhismo dei poveri durante il periodo di Kamakura.

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