Da oggi il Giappone entra nel periodo del risshū (立秋).
Il clima e il territorio giapponesi hanno contribuito a plasmare una cultura e delle tradizioni uniche. Per comprenderle a fondo, basta osservare le numerose cerimonie e usanze legate ai 24 periodi solari, i nijūshisekki.
In Giappone, per oltre mille anni, fino al 1873 quando venne promulgato un decreto imperiale (改暦の詔書, Kaireki no Shōsho), per adottare il calendario gregoriano, si utilizzò il calendario lunisolare, il kyūreki (旧暦), conosciuto anche come wareki (和暦). Come abbiamo già spiegato in un altro post del blog questo calendario, importato dalla Cina, univa i cicli lunari con gli apparenti movimenti del sole, offrendo un sistema di misurazione del tempo che si basa sia sulle fasi della luna che sulla posizione del sole. Tuttavia, poiché il calendario lunare causava uno sfasamento tra il calendario e le stagioni col passare dei giorni e dei mesi, risultava difficile pianificare attività come l’agricoltura.
Per correggere questo sfasamento, furono creati i 24 termini solari (二十四節気, nijūshisekki) della durante di circa quindici giorni ciascuno, divisi a loro volta in 72 micro-stagioni (季節区分, kisetsu kubun) corrispondenti a piccoli cambiamenti climatici. La Cina settentrionale, cuore culturale dell’antica Cina, ha un clima simile a quello della regione Tohoku in Giappone, con il culmine dell’estate nel mese di Luglio. Lo sfasamento tra i 24 sekki e le stagioni effettive in Giappone si crede sia dovuto alle differenze climatiche tra i due paesi.
Questi periodi erano basati sul movimento del sole. I solstizi e gli equinozi sono i punti di riferimento principali, e tra questi si trovano i periodi che segnano l’inizio delle quattro stagioni, come il risshū per l’autunno. Ciò dimostra come in passato i giapponesi fossero molto attenti alle variazioni stagionali, tanto da osservare e apprezzare lo scorrere delle stagioni nella loro vita quotidiana.
Il risshū (立秋), letteralmente “inizio dell’autunno”, è il tredicesimo dei nijūshisekki che segna l’inizio simbolico dell’autunno e cade generalmente tra il 7 e l’8 Agosto. Sebbene il caldo estivo persista, da questo momento in poi, secondo il calendario tradizionale giapponese, si entra gradualmente nella stagione autunnale, che si protrae fino al giorno del rittō (立冬), che segna l’inizio dell’inverno, intorno a Novembre. Verso il 21 o 22 di Agosto il risshū cede il passo al successivo termine solare, lo shōsho (処暑), in italiano “fine del calore”.
Il termine risshū, composto dal kanji “立”, alzare e “秋”, autunno, letteralmente significa “l’autunno si alza” e indica l’inizio simbolico di questa stagione. Nonostante il nome, in questo periodo dell’anno le temperature sono ancora tipicamente elevate. Infatti un vecchio proverbio giapponese recita:
暑さ寒さ彼岸まで Atsusa samusa mo higan made Il caldo e il freddo durano fino allo higan (equinozio d’autunno)
suggerendo che il vero fresco autunnale arriverà più avanti.
Quali sono le usanze e come trascorrono i giapponesi il risshū ?
Il periodo del risshū coincide con quello del bon, una delle festività più importanti in Giappone, durante la quale si accolgono gli spiriti degli antenati a casa per render loro omaggio. Il bon inizia generalmente una settimana dopo l’inizio del risshū, intorno al 13 Agosto. Il primo giorno di bon si accendono dei fuochi (迎え火, mukaebi) per guidare gli spiriti degli antenati verso casa, mentre l’ultimo giorno si accendono altri fuochi (送り火, okuribi) per aiutarli a tornare nell’aldilà. Famoso è il Gozan okuribi (五山送り火) di Kyōto, conosciuto anche come Daimonji (大文字), eventi che segna la fine delle celebrazioni per il bon.
Durante il periodo del bon, in tutto il paese si tengono delle danze tradizionali conosciute come bon odori (盆踊り), normalmente nei parchi, spazi aperti e nei recinti dei santuari e templi, con luoghi decorati con colorate lanterne e musica vivace. Sebbene le origini di queste danze siano dibattute, si ritiene che derivino dalle danze buddhiste, le nenbutsuodori (念仏踊り). Nate nel periodo Heian le cerimonie buddiste del periodo del bon erano accompagnate da danze durante le quali si usava battere i kane daiko (金太鼓), una sorta di tamburo mentre si recitavi i nenbutsu (invocazioni buddhiste). Originariamente considerate cerimonie prettamente religiose, acquisirono, durante il periodo Muromachi, un significato più legato all’intrattenimento quando si iniziò ad inserire brevi canzoni durante la recita dei nenbutsu.
Nel tempo diverse forme di folklore si sono fuse con i riti dedicati agli antenati, dando origine alle danze tradizionali che conosciamo oggi. In occasione del bon, tramite queste danze si accompagna lo spirito degli antenati nel loro viaggio di ritorno.
Il risshū e le sue micro stagioni
Il risshū è un periodo ricco di sfumature e come gli altri termini solari può essere ulteriormente suddiviso in tre fasi:
Suzukazeitaru (涼風至): nonostante il caldo intenso, una leggera brezza autunnale lascia intuire il cambiamento delle stagioni.
Higurashinaku (寒蝉鳴), indica il periodo che va circa dal 12 al 16 agosto, coincidente con il bon. In questo periodo, al mattino e alla sera, si sente il canto della cicala di fine estate, la higurashi, che dà il nome a questo periodo.
Fukakikirimatō (蒙霧升降), potremmo tradurlo letteralmente come “la nebbia che sale e che scende”, indica il periodo che va circa dal 17 al 22 agosto, corrispondente alla fine del risshū. In questo periodo, si inizia a sentire un’aria più fresca, specialmente al mattino e alla sera. L’origine di questo nome risiede nelle dense nebbie che si formano nei boschi e nelle zone umide, e nell’aria fresca delle montagne.
Sapori e colori del risshū
Si dice che durante il periodo del risshū il sapore dei cibi sia molto più intenso e i diversi fiori che colorano l’estate raggiungono l’apice della fioritura.
Dall’inizio del risshū in poi, le pesche raggiungono la loro massima maturazione. Anche se alcune primizie, le cosiddette gokuwase (極早生), sono disponibili già durante la stagione delle piogge, la maggior parte diventa particolarmente gustosa ad Agosto. Spesso le aziende locali offrono l’opportunità di raccogliere le pesche direttamente dagli alberi: un’esperienza da non perdere, specialmente se avete dei bambini.
Questo è anche il periodo della maturazione degli ijiku, i fichi. Perfetti da gustare freschi o da trasformare in deliziose confetture.
Durante il periodo del bon, nei ristoranti tradizionali giapponesi di cucina kaiseki o ryotei, il pesce viene servito tramite un metodo di preparazione conosciuto come arai (洗い). Il pesce bianco viene affettato finemente e poi raffreddato in acqua ghiacciata per renderlo più sodo prima di essere consumato. Tra i pesci che diventano ancora più gustosi se preparati in questo modo, c’è sicuramente il suzuki (スズキ), il branzino.
Un amico giapponese proprietario di un piccolo ristorante a Nagasaki nonché abile pescatore mi ha spiegato che il suzuki cambia nome man mano che cresce. Quando nasce è chiamato koppa (コッパ), poi, crescendo un po’, diventa seigo (セイゴ) e infine fukko (フッコ), prima di diventare suzuki. Sebbene sia un pesce molto grasso, il processo di arai rimuove l’eccesso di grasso, esaltandone il sapore (umami).
Il magochi (マゴチ) è un altro pesce che raggiunge il suo apice di sapore durante il periodo del risshū. Grazie alla sua consistenza gelatinosa, è soprannominato anche “fugu estivo”. Allo stesso modo del branzino, il magochi viene tradizionalmente consumato crudo, dopo essere stato affettato finemente e raffreddato in acqua ghiacciata.
In questo periodo dell’anno lo kyōchikutō (夾竹桃) l’oleandro, fiorisce in modo particolarmente bello. Arbusto originario delle regioni tropicali è particolarmente resistente alla siccità e all’inquinamento atmosferico adattandosi bene alle città giapponesi.
Nell’antica tradizione agricola giapponese, il risshū era un momento cruciale: segnava l’inizio dei preparativi per il raccolto e, di conseguenza, influenzava profondamente i ritmi e le usanze della vita delle comunità rurali.
Il risshū non è un semplice segno su un calendario ma è un qualcosa che ha inciso profondamente sulla vita e sulla cultura del popolo giapponese nel corso della sua lunga storia.
Il mese di Agosto, in giapponese, è conosciuto anche come hadzuki (葉月). Tale denominazione conosciuta come wafūgetsumei (和風月名), si riferisce all’ottavo mese del kyūreki (旧暦), il calendario lunisolare tradizionale, corrispondente approssimativamente al mese di Settembre nel calendario gregoriano. Questo nome fa riferimento alle stagioni e agli eventi che caratterizzano questo periodo dell’anno.
Il kyūreki
Il calendario lunisolare, come il tradizionale kyūreki giapponese, coniuga i cicli lunari con gli apparenti movimenti del sole, offrendo un sistema di misurazione del tempo che si basa sia sulle fasi della luna che sulla posizione del sole.
La combinazione dei cicli lunari e solari nel kyūreki poteva sembrare la soluzione ideale per un calendario accurato. Tuttavia, la pratica ha dimostrato che l’unione dei due sistemi ha portato a diverse complicazioni. Ciò non ha impedito al kyūreki di essere utilizzato per oltre mille anni, rendendolo uno strumento indispensabile per studiare la storia e le tradizioni giapponesi dell’era pre-moderna.
Nonostante l’associazione comune di Agosto con il culmine della stagione estiva, secondo il calendario lunare, l’autunno ha inizio intorno al 7 Agosto, con il giorno del risshū (立秋), letteralmente, “inizio dell’autunno”. Infatti, secondo i nijūshisekki(二十四節気), ovvero i 24 periodi solari, l’inizio dell’autunno cade intorno al sette di Agosto. Anche se le giornate rimangono comunque calde, il vociare degli insetti e il cambiamento dei colori della natura anticipano l’arrivo della stagione autunnale.
Il termine hadzuki evoca l’idea di un’estate rigogliosa e piena di vita. Ciononostante, è opportuno sottolineare che questa interpretazione va contestualizzata. Hadzuki, infatti, designa originariamente una stagione all’interno del calendario lunare, e il suo significato presenta delle divergenze rispetto a quello del calendario attualmente in uso in Giappone dal periodo Meiji. Nel calendario lunare, rispetto al calendario gregoriano, le stagioni sono anticipate di circa un mese o un mese e mezzo. Utilizzando quindi il termine hadzuki per Agosto, ci si riferisce, in realtà, ad un periodo compreso tra Settembre e Ottobre nel calendario lunare, ovvero un momento di transizione verso l’autunno.
L’etimologia del termine presenta diverse interpretazioni, ma tutte concordi nel collegarlo alla stagione autunnale. La teoria più diffusa lo riconduce alla parola haochizuki (葉落ち月), riferendosi direttamente al periodo della caduta delle foglie. Tuttavia, esistono altre ipotesi che lo collegano a hoharizuki (穂張り月, letteralmente “mese in cui le spighe di riso si allungano”) associato alla maturazione del riso, o a hatsukidzuki (初来月), legato ai primi arrivi delle oche ed altri uccelli migratori.
Esistono altri nome per indicare il mese di Agosto meno conosciuti ma non meno interessanti.
月見月 – Tsukimidzuki
Nel calendario lunare, il periodo autunnale si estendeva da Luglio alla fine del mese di Ottobre. Agosto, essendo il mese centrale di questa stagione, veniva indicato con il termine chūshū (中秋), traducibile come “metà autunno”. In passato, il termine chūshū indicava genericamente il periodo centrale dell’autunno. Col passare del tempo, tuttavia, il suo significato è cambiato, venendo a indicare esclusivamente il quindicesimo giorno dell’ottavo mese lunare, ovvero il giorno in cui la luna raggiunge il suo massimo splendore. Questa notte speciale, consacrata all’osservazione della luna piena, è nota come chūshū no meigetsu (中秋の名月), “la luna piena di metà autunno”. Considerata la luna più bella dell’anno, si celebra lo otsukimi (お月見), la tradizionale festa dell’osservazione della luna. Da qui il nome tsukimidzuki, attribuito al mese di Agosto.
精秋 – Seishū
In passato, il mese di Agosto annunciava l’arrivo di una dolce brezza autunnale, portando un senso di rinfrancamento dalla calura estiva. Nomi come akikazedzuki (秋風月, “mese del vento d’autunno”) e seigetsu (清月, “mese della luna cristallina”) erano sinonimi per indicare l’ottavo mese lunare. Inoltre, mia moglie mi faceva notare come i termini seishū (清秋, autunno puro), seishū (盛秋 autunno rigoglioso) e seishū (正秋, autunno autentico), omofoni, quindi tutti pronunciati allo stesso modo, erano altri nomi per definire il cuore dell’autunno. Probabilmente era il periodo in cui la natura esprimeva al meglio la sua bellezza autunnale.
燕去月 – Tsubamesaridzuki
Le rondini arrivano in Giappone in primavera per nidificare e, intorno al mese di Agosto (secondo il calendario lunare), migrano verso paesi più caldi per passare l’inverno. Da questo comportamento migratorio deriva uno dei nomi alternativi per il mese di Agosto, tsubamesaridzuki, ovvero il “mese della partenza delle rondini”.
In passato, in tutto il Giappone, le oche selvatiche arrivavano proprio quando le rondini partivano. Per questo motivo, Agosto era chiamato anche ganraigetsu (雁来月), il “mese dell’arrivo delle oche selvatiche”.
竹春 – Chikushun
I giovani bambù, i takenoko (筍), emersi dal terreno nei primi mesi estivi, mostrano una crescita rapida e vigorosa ed entro l’ottavo mese lunare, raggiungono la loro maturità, mentre i fusti più vecchi, dopo aver fornito nutrimento ai nuovi germogli, riprendono la loro attività vegetativa. Questo ciclo, caratteristico del bambù, ha ispirato l’appellativo chikushun, ovvero la “primavera del bambù” per indicare l’ottavo mese lunare.
草津月 – Kusatsudzuki
Avevo già avuto modo di imbattermi nel termine kusatsudzuki, ma la sua etimologia mi era sempre rimasta sconosciuta fino a quando un collega me ne ha spiegato l’origine. Il suffisso “tsu” è un arcaismo che indica il possesso. In questo caso, si tratta di un caso di ateji, ovvero l’utilizzo di un carattere cinese con una pronuncia adattata al giapponese.
Intorno all’ottavo mese lunare, con il diminuire dell’intensità solare, l’erba, precedentemente inaridita dal caldo, riacquista vigore, giustificando così l’appellativo kusatsudzuki, il “mese dell’erba”.
壮月 – Sōgetsu
Anche questo è un appellativo usato per l’ottavo mese. Il suo significato, “mese vigoroso” entra in forte contrasto con i colori della natura che si avvicinano all’autunno ma è anche associato al senso di vitalità e rinnovamento associato al mese di Agosto. Come la natura, anche per le persone, questo periodo può essere un momento di rinnovata energia o, al contrario, di stanchezza. È quindi importante prendersi cura di sé durante questi mesi caldi.
Tradizioni
Hadzuki era un mese ricco di tradizioni, tra le quali spiccava l’hassaku (八朔), una celebrazione che cadeva il primo giorno dell’ottavo mese e segnava l’inizio di un nuovo ciclo lunare.
Essendo un periodo cruciale per la raccolta del riso, ma anche particolarmente soggetto ai tifoni, si usava pregare per un buon raccolto e ringraziare le persone che avevano contribuito offrendo loro prodotti agricoli. Questa usanza rafforzava i legami comunitari e promuoveva la solidarietà. Curiosamente, il frutto “hassaku“, un agrume dalla colorazione simile all’arancia ma dalle dimensioni di un pompelmo, sebbene prenda il nome da questa festività, matura in realtà in primavera.
Queste tradizioni sono una testimonianza della profonda connessione tra il popolo giapponese e la natura, nonché delle ricche radici culturali del paese.
Hadzuki, il mese del Bon
Agosto è il mese dedicato allo Obon (お盆), una tradizione giapponese durante la quale si crede che gli spiriti dei propri cari defunti tornino a casa. Molti giapponesi approfittano di questo periodo per prendersi una lunga pausa e riunirsi con le proprie famiglie. Tuttavia, con i cambiamenti della società moderna, sempre più persone si allontanano da queste antiche usanze.
Obon è una festività giapponese che unisce antiche credenze animistiche e rituali buddisti. Il suo nome formale, urabon-e (盂蘭盆会), ha origini nel buddismo e deriva da un’antica parola sanscrita “ullambana” che significa “appeso a testa in giù” e si riferisce alla condizione delle anime all’inferno. Durante il periodo del bon, si crede che gli spiriti degli antenati tornino a casa per ricongiungersi con i propri familiari. Questa festività, che solitamente cade intorno al 15 Agosto, è un’occasione per onorare la memoria dei defunti. Sebbene le date possano variare a seconda della regione, le origini del bon risalgono al settimo mese del calendario lunare.
In occasione del bon, si rende omaggio agli antenati recandosi presso la tomba di famiglia. Le usanze variano a seconda della regione e della setta buddista, ma è comune accendere fuochi per accogliere (迎え火, mukaebi) e salutare (送り火, okuribi) gli spiriti degli antenati. In alternativa ai fuochi, si utilizzano spesso lanterne di carta. Inoltre, nelle case si preparano offerte sugli altari e nelle città si organizzano anche matsuri tradizionali.
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Ogni mese del calendario giapponese ha un nome e un significato unici, che ci permettono di apprezzare più profondamente il ciclo delle stagioni. Approfondendo la conoscenza dei nomi dei mesi giapponesi, possiamo scoprire un mondo ricco di storia e cultura.
Per chi fosse interessato, consiglio di leggere anche altri articoli sui nomi dei mesi giapponesi pubblicati sul nostro blog.
Sulle pendici del Monte Unzen nella penisola di Shimabara, riposano silenziose le rovine del castello di Hara, testimonianza tangibile di un passato tumultuoso. Centro della ribellione di Shimabara-Amakusa (1637-1638), offre oggi ai visitatori l’opportunità di esplorare le sue rovine immergendosi nella ricca storia della regione.
Le rovine del castello di Hara
Storia e fede si intrecciano tra le rovine del castello di Hara, unico luogo della zona a far parte dei “Siti dei cristiani nascosti della regione di Nagasaki“, patrimonio mondiale dell’umanità.
Il Castello di Hara fu una roccaforte costruita tra il 1599 e il 1604 da Arima Harunobu (有馬晴信), un daimyō che aveva esteso il suo potere fino alla higashi hizen (東肥前), parte orientale di Hizen no kuni (肥前国), una delle antiche province del Giappone che corrispondeva approssimativamente alle attuali prefetture di Saga e Nagasaki. Si dice che la grandezza del feudo di Arima fosse stimata in circa 260.000 koku. Un koku (石), equivalente a circa 180 litri, è un’unità di volume utilizzata in Giappone sin dall’antichità. Il numero di koku indicava una stima del volume di riso che poteva essere prodotto dalle terre all’interno del dominio di un daimyō. Le relazioni feudali erano determinate dai gradi militari, a loro volta assegnati in base al numero di koku posseduti da un signore. Quest’ultimi poi tassavano la popolazione che risiedevano nei loro domini in base al numero di koku e generalmente le tasse erano pagate in riso.
Si ritiene che il castello di Hara sia stato costruito a sud dello Hinoejō (日野江城, castello di Hinoe) con lo scopo di supportarlo nel sorvegliare la principale via d’acqua della regione, l’ Ariakekai (有明海), il mare di Ariake. Il clan Arima aveva nel castello di Hinoe la sua residenza principale che però date le dimensioni troppo piccole era considerato inadatto alla guerra.
Shimabara-hantō
Con l’unificazione del Giappone sotto il dominio di potenti signori come Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e, infine, Tokugawa Ieyasu, il paese sembrava finalmente aver trovato la pace. Il governo Tokugawa, infatti, proclamò solennemente l’inizio di un’era “senza guerre”. Tuttavia, la ribellione di Shimabara, rappresentò un evento di grande importanza nella storia del paese. Questa rivolta, che vide contrapposti samurai cristiani, contadini e altri strati impoveriti della popolazione contro il governo Tokugawa, si concluse tragicamente in un massacro. Questo episodio segnò un punto di svolta definitivo, decretando la fine di un’epoca di conflitti e aprendo le porte a un periodo di quasi 250 anni di pace.
Le ribellioni di Higo-Amakusa e Shimabara, sebbene separate da un lungo periodo di tempo, rappresentano due capitoli cruciali della storia giapponese, legati da un unico filo conduttore. La ribellione di Higo-Amakusa (1587-1590) vide protagonisti samurai cristiani e abitanti della provincia di Higo (conosciuta anche come higo no kuni, 肥後国, era un’antica provincia corrispondente all’attuale prefettura di Kumamoto), esasperati da tensioni religiose e condizioni di estrema povertà. La mancata risoluzione di queste problematiche lasciò un terreno fertile per la successiva ribellione di Shimabara (1637-1638), che coinvolse nuovamente samurai cristiani e parte della popolazione della zona contro il governo Tokugawa.
Da Harima Harunobu a Matsukura Shigemasa: la rivolta di Amakusa-Shimabara
Nel 1612, Arima Harunobu (有馬晴信) fu coinvolto nell’incidente di Okamoto Daihachi e fu esiliato e costretto a commettere seppuku. Suo figlio, Naozumi (有馬 直純), riprese il governo della terra di Arima, ma due anni dopo fu trasferito a Hyuga. Successivamente, nel 1616, Matsukura Shigemasa (松倉重政), un vassallo del dominio Yamato Gojō (大和五条, oggi corrispondente alla prefettura di Nara) fu nominato daimyō di Shimabara e prese possesso del castello di Hara. In conformità all’editto Tokugawa conosciuto come ikkoku ichijō (一国一城), letteralmente “una provincia, un castello”, Shigemasa costruì il moridakejō (森岳城), il castello di Shimabara, abbandonando di fatto gli altri castelli della zona come quello di Hinoe e Hara (1618). Non solo Shigemasa diede inizio a una terribile persecuzione dei cristiani, ma iniziò a vessare la popolazione con continui aumenti dei tributi per ripianare gli alti costi della costruzione del castello.
Era il 1630 quando, stanchi del suo dominio dispotico, alcuni congiurati decisero di eliminare Shigemasa. Fu avvelenato mentre si trovava nel villaggio termale di Obama. L’identità dei colpevoli rimane un mistero, ma alcuni sospettano che si trattasse di esponenti dello shogunato locale di Nagasaki, preoccupati per la sua severità e per il rischio di una rivolta popolare. Alla sua morte, il potere passò nelle mani del figlio Katsuie (松倉勝家).
Katsuie si rivelò un despota tale quale il padre e durante il suo dominio si abbatté sulla popolazione locale come una tempesta di tributi inarrestabile. Non solo i cristiani erano vittime di persecuzioni feroci, ma anche i non cristiani furono costretti a subire il peso di tributi sempre più gravosi. Anni di magri raccolti avevano condotto la popolazione alla fame, mentre il fardello delle imposte li schiacciava senza pietà. Alla fine, spinta dalla disperazione, parte della popolazione non potendo più sopportare tali ingiustizie insorse. Il 25 ottobre 1637, contadini e rōnin (浪人, samurai senza padrone) del sud di Shimabara si unirono a quelli delle isole Amakusa e con un leader carismatico conosciuto come Amakusa Shirō, appena sedicenne, diedero vita a quella che passò alla storia come la rivolta di Shimabara e Amakusa (島原・天草一揆, Shimabara, Amakusa ikki). Il giorno successivo, l’incendio della rivolta raggiunse anche il castello di Shimabara, dove un assalto fallito non fece altro che alimentare la fiamma della resistenza che rischiava di diffondersi in tutto il Giappone, diventando una questione di primaria importanza per lo shogunato.
I ribelli si arroccarono all’interno del castello di Hara, ormai abbandonato. Tra le sue mura si asserragliarono circa 30.000 ribelli, provenienti quasi unicamente dalle province meridionali di Shimabara. A contrastare questo esercito improvvisato, lo shogunato inviò ben 140.000 soldati Tokugawa provenienti da tutto il Kyūshū (si racconta che prese parte all’assedio anche il famoso Miyamoto Musashi). Per quattro mesi, la fortezza resistette agli attacchi, alimentando la speranza dei ribelli. Ma la fame e l’isolamento, con navi olandesi che pattugliavano il mare di Ariake bombardando continuamente il castello, ebbero il sopravvento. Nell’aprile del 1638, l’ultimo assalto segnò la caduta del castello e la tragica fine di tutti i ribelli.
Amakusa Shirō e tutte le 30.000 persone rifugiate nel castello di Hara, uomini, donne e bambini, vennero trucidati e si racconta che i loro corpi furono gettati all’interno delle mura del castello, mescolandosi alla terra. Come se non bastasse, anche le restanti mura di pietra del castello furono smantellate, condividendo il destino dei suoi occupanti. Infine, i resti del castello vennero dati alle fiamme. La storia descrive questo evento come una testimonianza dell’odio delle forze governative verso i ribelli. Inoltre, ben 10.000 teste mozzate furono infilzate su pali e messe in mostra intorno al sito. Altre teste vennero esposte in vari punti del feudo e a Nagasaki come monito per la popolazione, mostrando cosa accadeva a chi si opponeva al governo. La testa di Amakusa Shiro fu addirittura messa in mostra di fronte a Dejima, un’isola artificiale nella baia di Nagasaki che all’epoca era l’unico avamposto straniero legale in tutto il Giappone.
Da quel momento la persecuzione anticristiana si fece molto più aspra terminando solo nel 1650. Fu a seguito di questa rivolta che in Giappone si adottò una politica di isolamento nazionale conosciuta come sakoku (鎖国, letteralmente “paese il catene”) che isolò il paese per oltre due secoli. Il cristianesimo fu dichiarato fuorilegge e i controlli sulla popolazione locale furono rafforzati. La ribellione di Shimabara segnò un punto di svolta nella storia giapponese. Le successive riforme Tokugawa decretarono il divieto totale del Cristianesimo e del commercio con i cristiani. I portoghesi furono espulsi, Dejima a Nagasaki divenne un’isola commerciale vuota. Solo gli olandesi, “premiati” per aver sostenuto i Tokugawa durante la ribellione, ottennero il diritto esclusivo al commercio. La ribellione si concluse con un vero e proprio massacro che cancellò i cristiani dal sud di Shimabara. I sopravvissuti fuggirono sulle isole diventando i cosiddetti senpuku kirishitan (潜伏キリシタン), i “cristiani nascosti”.
La ribellione domata non salvò Matsukura Katsuie. Chiamato a Edo per rispondere del malgoverno e della brutalità che avevano causato la rivolta nella sua provincia, gli fu negata la dignità del seppuku e fu condannato a morte per decapitazione.
Le rovine del castello di Hara patrimonio dell’umanità
Il 30 maggio 1938 le rovine del castello di Hara hanno ottenuto il titolo di sito storico nazionale. Il 4 luglio 2018, un ulteriore traguardo: l’iscrizione ai Siti cristiani del Giappone come Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Un riconoscimento che ne sottolinea il valore storico e culturale.
Il sito patrimonio dell’UNESCO dei Cristiani Nascosti della regione di Nagasaki
Un percorso tra luoghi segreti dove i fedeli, tenaci nella loro fede, sfidarono la persecuzione e preservarono il cristianesimo per secoli.
I 12 siti si trovano nell’attuale prefettura di Nagasaki e nelle vicine isole Amakusa della prefettura di Kumamoto, l’area che aveva la più alta concentrazione di missioni cristiane nel Giappone dell’era moderna. Dopo il bando della religione cristiana, un numero considerevole di fedeli cattolici mantenne congregazioni segrete nell’area di Nagasaki-Amakusa, specialmente nei villaggi lungo la costa e sulle isolate isole minori dove alcuni di loro emigrarono. Attraverso oltre 200 anni di persecuzione, mantennero facciate di pratiche buddiste e shintoiste convenzionali, pur continuando a coltivare le loro tradizioni cristiane di famiglia. La loro storia di culto nascosto è ora riconosciuta come un inestimabile patrimonio.
Ho visitato le rovine si questo castello diverse volte negli ultimi 10 anni accompagnando anche amici a vederle. Lo honmaru, che è la sezione meglio conservata del castello ospita alcuni memoriali. Il basamento principale sembra essere rimasto intatto, mentre grossi massi sparsi nella zona restano come testimonianza delle antiche mura. La vista della baia di Shimabara è davvero impressionante e bellissima, e si capisce perfettamente sia la posizione strategica della fortezza sia perché sia stato chiamato “Castello del Tramonto”.
Di seguito la mappa del complesso del castello di Hara e delle sue difese.
Foto dell’ autore
Vista dall’alto dell’area un tempo occupata dal castello di Hara.
Di seguito le rovine dello ishigaki (石垣)i, il muro di pietra dello honmaru. In realtà era molto più alto, gran parte di esso fu distrutta dopo la ribellione.
Foto dell’autore
Grazie ad un sistema di QR code distribuiti lungo tutto il percorso, è possibile immergersi in un’esperienza virtuale che ricrea l’aspetto originale del castello. L’immagine che segue rappresenta una ricostruzione dell’imponente cancello d’ingresso allo honmaru, caratterizzato dalla tipica architettura detta watari yagura (渡櫓), che prevedeva una torre di guardia sopraelevata, utilizzata per lanciare frecce contro gli eventuali assalitori.
Questa foto l’ho scattata nella zona sud-occidentale del complesso del castello. L’angolazione non permette di apprezzare appieno l’estensione dell’area che un tempo ospitava una yagura (櫓), una torre di guardia a tre piani, come riportato da diverse fonti storiche, tra cui i resoconti di alcuni gesuiti. Dalla cima di questa struttura, si aveva una visuale strategica sul mare di Ariake, le isole Amakusa e, sullo sfondo, il maestoso Monte Unzen.
Nel corso del 1618, la torre di guardia subì un processo di smantellamento, condividendo la stessa sorte di altre strutture del castello. I materiali recuperati da questa demolizione furono destinati alla costruzione del castello di Shimabara. È evidente, quindi, che la torre non era più presente al momento dello scoppio della ribellione.
Foto dell’autore
Sempre all’interno della zona zona centrale del castello c’è una statua dedicata al leader della ribellione Amakusa Shirō.
Foto dell’autore
Questa statua è opera dello scultore Kitamura Seibō (北村西望), originario di Shimabara, noto anche per aver creato la statua commemorativa della pace nel Parco della Pace di Nagasaki. Il suo vero nome era Tokisada Masuda (益田 時貞). Figlio di un vassallo di Yukinaga Onischi (un signore feudale cristiano giustiziato nella Battaglia di Sekigahara), era un cristiano molto carismatico. Eletto capo dai ribelli, combatté valorosamente fino alla fine, ponendo tragicamente fine alla sua giovane vita a soli 15 anni.
Ten no tsukai – 天のつかい
Il giovane capo era venerato dalla popolazione come il “ten no tsukai“, il messaggero del cielo, addirittura considerato il figlio di Dio in persona. Questa credenza si fondava su un’antica profezia, attribuita al missionario Marcos, esiliato da Shimabara. Secondo la leggenda, Marcos aveva predetto l’arrivo, dopo venticinque anni, di un messia che avrebbe liberato il popolo dalle sofferenze. E così fu: nel 1637, proprio come previsto, si racconta che Shirō iniziò a manifestare poteri soprannaturali, compiendo miracoli che ricordavano quelli di Cristo. Perseguitati e affamati, i cristiani di Amakusa e Shimabara videro in lui la realizzazione della profezia e si unirono alla sua causa, pronti a tutto pur di seguirlo.
Poco vicino sorge anche una lapide dedicata a Amakusa Shirō. Questa tomba è stata costruita attorno a una lapide scoperta casualmente in una casa privata a Nishi Arima che si trova nelle vicinanze del castello. La testa di Amakusa Shirō, ucciso durante la rivolta, fu inviata a Nagasaki dove scomparve.
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Davanti alla tomba è stato eretto un monumento a forma di croce
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Guardano verso il mare troviamo tre statue cristiane che ricordano un Jizō. Il loro sguardo è rivolto verso l’isola di Yushima, dove si radunarono i capi della rivolta di Shimabara.
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Honekami Jizō – Il Jizō delle ossa
All’entrata delle rovine del castello si trova una statua di Jizō eretta in periodo Meiji, n memoria di oltre mille scheletri, da cui il nome honekami, ritrovati durante i lavori nei terreni circostanti le rovine del castello di Hara, che con il tempo erano diventati terreni agricoli. Il Jizō non è stato eretto direttamente sui resti del castello ma su terrapieno apposito e sulla è impressa la seguente iscrizione:
三界万霊乃至平等 南無阿弥陀仏骨塔
Sangai Banrei Naishi Byōdō Namuamidabutsu Kottō
Tutte le creature dei tre mondi sono uguali, Namuamidabutsu, pagoda delle ossa
Sangai banrei è un termine buddhista dove “sangai” che si riferisce ai tre regni esistenziali: il mondo del desiderio, il mondo della forma e il mondo senza forma. “Banrei”, invece indica tutte le creature senzienti e non senzienti che abitano questi tre regni.
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Le rovine del Castello di Hara sono una delle testimonianze di ciò che scatenò la clandestinità dei cristiani giapponesi. A causa della seguente politica di isolamento e la conseguente assenza di missionari, i cristiani rimasti furono lasciati soli a mantenere la loro fede in clandestinità, e dovettero trovare nuovi luoghi per preservare le loro comunità religiose. Il ricordo della ribellione fu mantenuto vivo dalle comunità cristiane nascoste di Sotome e in altre aree della regione di Nagasaki durante tutto il periodo del divieto del cristianesimo.
Il primo giorno di Giugno e di Ottobre, del calendario lunare, si celebra il koromogae no hi (衣替えの日), una tradizionale usanza giapponese che prevede il cambio degli abiti in base alle stagioni. Sebbene questa pratica sia profondamente radicata nella cultura giapponese da secoli, le sue origini e la sua evoluzione storica spesso passano inosservate. Koromogae significa letteralmente “cambiare vestiti” – koromo (衣) significa “vestiti” e gae (替え), dal verbo kaeru (替える), che significa “cambiare”.
Sebbene il Giappone sia un paese relativamente piccolo, la sua conformazione geografica allungata determina la presenza di diverse zone climatiche. Questo comporta una variazione nel periodo del koromogae a seconda della regione. In particolare, in Hokkaido, dove il clima è più fresco, il cambio di stagione avviene con un ritardo rispetto alle regioni meridionali, che beneficiano di temperature più miti.
Origini del koromogae
Le origini del koromogae si perdono nel lontano periodo Heian (平安時代,794-1197). All’epoca, l’anno era caratterizzato da due stagioni distinte, con il cambio degli abiti che avveniva il primo Aprile per l’abbigliamento estivo, chiamato natsu shōzoku (夏装束), e il primo Ottobre per quello invernale, denominato fuyu shōzoku (冬装束). Si presume che questa usanza sia stata introdotta in Giappone dalla Cina proprio durante quel periodo. Prese il nome di kōi (更衣), che significa letteralmente “cambio d’abito”, e ancora oggi questa parola viene utilizzata per indicare spogliatoi, camerini o stanze per cambiarsi d’abito, ovvero le kōishitsu (更衣室).
Tuttavia, il termine kōi (更衣), oltre a designare il cambio degli abiti stagionali, era impiegato anche per indicare la jokan (女官), ossia la dama di corte addetta alla vestizione dell’imperatore. Per ovviare a possibili equivoci, si ritiene che la parola sia stata modificata in koromogae (衣替え).
Durante il periodo Edo (江戸時代, 1603-1868), questa usanza si estese oltre i confini della corte imperiale, raggiungendo anche i samurai e la popolazione comune. Lo shogunato Tokugawa rese ufficiale il cambio stagionale degli abiti, integrandolo nell’etichetta buke shakai no shikitari (武家社会のしきたり) per i samurai, rendendo obbligatorio l’utilizzo di capi stagionali per l’assolvimento dei propri doveri. Data la scarsa disponibilità di kimono per ogni stagione tra la maggior parte della popolazione, il processo di preparazione richiedeva un impegno e un tempo decisamente maggiori rispetto ad oggi, includendo attività come l’aggiunta o la rimozione di imbottiture in cotone e il riadattamento dei capi nel caso di bambini e ragazzi.
Il bakufu, quindi, decretò ufficialmente che tutti coloro che lavoravano all’interno del castello, ovvero la classe dei samurai, dovessero effettuare un cambio di vestiario quattro volte l’anno in base al calendario lunare. Nello specifico, dal primo Aprile al quattro Maggio indossavano l’awase (袷), un kimono foderato; dal cinque Maggio alla fine di Agosto il katabira (帷子), un kimono a strato singolo; nuovamente l‘awase, dal primo all’otto Settembre; e infine il wataire (綿入れ), un indumento imbottito, dal nove Settembre alla fine di Marzo dell’anno successivo.
È interessante notare che le date per il cambio degli abiti coincidevano con il tango no sekku (端午の節句), la festa dei ragazzi del 5 Maggio e con il chōyō no sekku (重陽の節句), la Festa dei Crisantemi del 9 Settembre. Sembra che all’epoca ci fosse l’usanza di celebrare queste feste rinnovando il proprio guardaroba.
Durante il periodo Edo il koromogae si diffuse ampiamente anche tra la gente comune ma con regole meno rigide rispetto a quelle della classe dei samurai. Artigiani, commercianti e contadini cambiavano gli abiti in base al lavoro e al clima. Le donne della corte imperiale, mogli e figlie di samurai, potevano godere di outfit differenti a seconda del clima delle loro regioni, grazie alla produzione di abiti più elaborati durante il periodo Edo. Tuttavia, come scritto in precedenza, le famiglie comuni non possedevano così tanti kimono, e sembra che li riutilizzassero ad ogni cambio di stagione, aggiungendo o rimuovendo l’imbottitura in cotone.
Watanuki
I kanji utilizzati per indicare il primo di Aprile, 四月一日, che normalmente si leggono shigatsu tsuitachi, hanno anche una lettura particolare che si crede sia nata proprio durante il periodo Edo e sia legata al koromogae. Questa lettura, watanuki, deriva dal fatto che il 1° Aprile del vecchio calendario (primi di maggio del calendario attuale), il cotone veniva rimosso dal wataire indossato per il freddo invernale per creare l’awase. Il termine è composto dalla parola “wata”, cotone, e “nuki“, rimuovere.
Con l’adozione del calendario gregoriano e l’abbandono del calendario lunare durante il periodo Meiji (明治時代 1868-1912) si stabilirono due periodi annuali per il cambio degli abiti. Il governo introdusse le divise in stile occidentale per i dipendenti pubblici, le forze dell’ordine e l’esercito, stabilendo che gli abiti estivi venissero indossati dal 1° Giugno al 30 Settembre e quelli invernali dal 1° Ottobre al 31 Maggio dell’anno successivo. Questa tendenza si diffuse alle uniformi scolastiche e, di conseguenza, alla popolazione in generale.
Oggi, solo le istituzioni scolastiche che prevedono di indossare la divisa, chiamata seifuku (制服), le aziende con un codice di abbigliamento specifico, le forze di polizia, marina ed esercito mantengono viva la tradizione. Per quanto riguarda le scuole, i miei figli, prima del cambio di uniforme, hanno un periodo periodo chiamato ikōkikan (移行期間), letteralmente “periodo del cambio d’abito”, che dura una o due settimane, durante il quale possono vestirsi liberamente con abiti estivi o invernali a seconda delle loro preferenze.
Cool Biz
In Giappone, negli ultimi anni, è cresciuto il numero di aziende che hanno aderito al Cool Biz (クールビズ), una campagna governativa che promuove un abbigliamento leggero e confortevole adatto ad una temperatura ambientale di 28°C. Il termine Cool Biz, nato dalla fusione delle parole inglesi “COOL” e “BIZ” (abbreviazione di BUSINESS), identifica non solo uno stile di abbigliamento specifico, ma anche un vero e proprio stile di vita che ne incoraggia l’adozione. L’iniziativa, nata nel 2005, sotto il governo di KoizumiJunichirō, è stata lanciata dal Ministero dell’Ambiente, all’epoca guidato dall’attuale governatrice della metropoli di Tōkyō, Koike Yuriko (小池百合子).
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In Giappone, l’abbigliamento formale per gli uomini d’affari, i famosi salarymen, è in molte aziende, ancora rigidamente codificato: completo e cravatta, anche nelle giornate più torride. Di conseguenza, la temperatura negli uffici è spesso mantenuta a livelli eccessivamente bassi, con un conseguente impatto negativo sul consumo energetico e, di riflesso, sull’ambiente. Per contrastare questa tendenza e promuovere uno stile di vita più sostenibile, è nato il Cool Biz, un’iniziativa volta a rivedere le convenzioni in materia di abbigliamento in favore di un look più leggero e confortevole, soprattutto durante i mesi estivi.
La tutela dell’ambiente è stata una delle motivazioni principali alla base dell’adozione del Cool Biz. Raffreddare gli ambienti interni con l’aria condizionata durante l’estate richiede un notevole dispendio energetico. Maggiore è la differenza tra la temperatura impostata e quella esterna, maggiore sarà la quantità di energia necessaria per raggiungere il comfort desiderato. Vestirsi in modo fresco aiuta a ridurre la necessità di abbassare troppo la temperatura dell’aria condizionata, il che a sua volta riduce la quantità di energia necessaria e contribuisce a migliorare l’ambiente.
Come stabilito dal Ministero dell’Ambiente, il periodo ufficiale del Cool Biz si estende generalmente dal 1° Maggio al 30 Settembre di ogni anno. Tuttavia, è importante precisare che anche durante il mese di ottobre potrebbero verificarsi giornate caratterizzate da temperature elevate. In tali circostanze, aziende e singoli individui hanno la facoltà di optare per un abbigliamento più leggero a propria discrezione.
Per gli uomini, il Cool Biz si caratterizza principalmente per l’assenza di cravatta e giacca. Sebbene le specifiche norme di abbigliamento variano da azienda a azienda, generalmente sono ammesse camicie a maniche corte o polo. Rispetto agli uomini, l’impatto del Cool Biz sull’abbigliamento femminile è minore, in quanto molte aziende già consentono un abbigliamento business casual. Tuttavia, è fondamentale sottolineare sia per donne che per gli uomini che il Cool Biz non permette un esagerata esposizione della pelle per contrastare il caldo. Indumenti quali canottiere, pantaloni corti sono infatti considerati inappropriati in tale contesto.
ll koromogae, una tradizione tramandata di generazione in generazione, è diventato quasi un rituale in Giappone. Ma negli ultimi tempi, con l’avvento sul mercato di pratici accessori che aiutano e facilitano il riordino, sempre più persone scelgono di non doverlo più fare. Mia moglie continua a farlo con i vestiti dei nostri figli e ad ogni cambio mi dice sempre quanto sia bello assaporare il passaggio da una stagione all’altra.
I nomi dei mesi del vecchio calendario lunare risuonano ancora oggi come echi di un’epoca passata, portando con sé un’aura di bellezza mista a nostalgia. Nel calendario moderno, sono conosciuti come wafū getsumei (和風月明), “nomi dei mesi in stile giapponese”, e rappresentano un omaggio al ricco patrimonio culturale del Giappone.
Fumizuki, ci riporta indietro nel tempo, all’epoca del vecchio calendario lunisolare. Questo antico sistema di misurazione del tempo, basato sui cicli lunari e solari, era in uso in Giappone fino al 1872, anno 5 del periodo Meiji (1868-1912). Sebbene oggi utilizziamo il calendario gregoriano, l’eredità del vecchio calendario continua a permeare la cultura giapponese, soprattutto per quanto riguarda i mesi e il loro legame con la natura.
Mentre l’arcipelago giapponese è ancora avvolto nello tsuyu (梅雨), la stagione delle piogge, Luglio, mese indissolubilmente legato all’estate, ha fatto il suo ingresso. Un nome alternativo ampiamente diffuso questo mese è fumizuki (文月), che designava il settimo mese del kyūreki (旧暦), il vecchio calendario lunisolare, corrispondente approssimativamente al mese di Agosto nel calendario odierno, che segna di fatto il passaggio dal caldo torrido dell’estate alle brezze rinfrescanti dell’autunno.
Le origini del termine fumizuki
L’origine del nome fumizuki è incerta e oggetto di diverse teorie. Una di queste lo lega all’aspetto delle risaie in quel periodo: fumizuki deriverebbe infatti dal termine hofumizuki (穂含月), che significa letteralmente “mese in cui le spighe di riso sono piene”. Un’altra teoria, ancora più suggestiva, collega fumizuki al termine fumihirogezuki (文披月). Questo termine, che letteralmente significa “mese in cui si aprono i libri (文 bun sta per libro, mentre 披く – hiraku significa aprire), farebbe riferimento a un’antica usanza legata alla festività del tanabata (七夕). In passato, pare che durante questo giorno di festa fosse consuetudine esporre i libri all’aria aperta per favorirne l’aerazione. Fumihirogezuki si sarebbe poi evoluto nel più conciso fumizuki.
Tuttavia, poiché il tanabata è una tradizione di origine cinese introdotta in Giappone durante il periodo Nara (710-794), non esisteva originariamente nella cultura giapponese, e quindi la validità dell’etimologia di questo nome viene spesso messa in discussione.
Mushiboshi – 虫干し
Il mushiboshi, consisteva nell’esporre al sole libri e altri prodotti cartacei per lungo tempo. Questa tradizione, molto diffusa in passato, aveva lo scopo di prevenire il deterioramento dei materiali causato da umidità, muffa e insetti. I raggi solari, infatti, avevano un duplice effetto: asciugavano i libri e allontanavano i parassiti.
La connessione tra fumizuki e il mushiboshi va ricercata nella condizione naturale che questo mese fosse particolarmente adatto a questa pratica. L’aria calda e secca, infatti, era considerata ideale per l’essiccazione dei libri. Inoltre, la fine dell’estate coincideva con un periodo di relativa calma nelle attività agricole, liberando tempo per dedicarsi alla cura dei libri e dei documenti preziosi.
Oltre al suo valore meramente pratico, il mushiboshi aveva anche un significato simbolico. L’esposizione dei libri al sole rappresentava un modo per onorare la conoscenza e la cultura tramandate attraverso le pagine scritte. Era un gesto di rispetto verso il sapere e un impegno a preservarlo per le generazioni future.
Questa tradizione si svolge spesso il 7 Luglio, nel giorno di tanabata, che era anche conosciuto come “il giorno di apertura dei libri”, in giapponese “文を開く日”. Secondo questa teoria, l’atto di “aprire i libri”, “文を開く” sarebbe quindi collegato al nome Fumizuki, “文月”.
Nomi alternativi a fumizuki
Tanabatazuki e Medaizuki
Esistono altre denominazioni per il settimo mese del calendario lunare. Una di queste è tanabatazuki (七夕月), che richiama la famosa festività di tanabata, evento che si svolge proprio in questo mese. Un altro nome suggestivo è medaizuki (愛逢月), che letteralmente significa “mese dell’incontro amoroso” e fa riferimento alla leggenda di Orihime e Hikoboshi, due stelle che si possono incontrare solo una volta all’anno proprio durante la notte del tanabata.
Oyazugi
親の墓参りに行く月
Oya no hakamairi ni iku tsuki
Il mese in cui le persone visitano le tombe dei loro genitori
Nel calendario lunare tradizionale, l’urabone (盂蘭盆会), si celebrava durante il settimo mese. Il bon è una tradizione buddista in cui si accolgono a casa gli spiriti degli antenati per offrirgli dei riti commemorativi detti kuyō (供養). Si crede che da questa trazione derivi il nome oyazugi (親月) conosciuto anche come shingetsu.
Ryōgetsu e akihazuki
Il settimo mese coincideva anche con il passaggio dal caldo torrido dell’estate alle brezze rinfrescanti dell’autunno. Questo cambiamento di stagione si riflette nei nomi attribuiti a questo mese, come ryōgetsu (涼月, “il mese fresco”) e akihazuki (秋初月, “il mese di inizio autunno”).
Ominaeshizuki – 女郎花月
Il nome si riferisce al mese in cui sboccia l’ominameshi (女郎花), uno dei sette fiori autunnali che anticamente fiorivano verso il settimo mese del vecchio calendario.
Rangetsu – 欄月
Questo nome indica il mese della fioritura delle orchidee, in giapponese ran no hana (欄の花).
Kenshingetsu (健申月) – saru no tsuki (申の月) – shingetsu (申月)
Fin dall’antichità, in Cina e di seguito anche in Giappone, si nutriva un grande interesse per l’ hokkyokusei (北極星), l’orsa maggiore, che ruota una volta al giorno attorno alla stella polare, fissa in una posizione precisa. Le tre stelle che compongono il manico del mestolo raffigurato dall’orsa maggiore sono conosciute come tohei (斗柄). In base alla direzione verso cui il tohei era rivolto al tramonto, si associava uno dei dodici segni zodiacali, determinando così il nome di ciascun mese. Questo sistema è chiamato gekkan (月建).
Durante il solstizio d’inverno (11° mese del vecchio calendario), il tohei punta esattamente a nord. Poiché il nord corrisponde al segno zodiacale del ratto (子), questo mese è stato chiamato kōshi no tsuki (建子の月). L’11° mese del vecchio calendario è quindi kōshi no tsuki, mentre il 7° mese ha il nome di kenshin no tsuki, saru no tsuki o shingetsu.
Unagi, un cibo tipico consumato durante il fumizuki
In Giappone, esistono molte usanze legate al consumo di specifici cibi in giorni particolari. Tra queste, la più famosa è quella di mangiare l’unagi (鰻), l’anguilla durante il doyō no ushi no hi (土用の丑の日).
Il termine doyō viene utilizzato per indicare il lasso di tempo di circa 18-19 giorni che precede ogni cambio di stagione. Ushi (丑) invece si traduce con “bue” ed è uno dei dodici segni dello zodiaco cinese. Ushi no hi (丑の日) significa letteralmente “giorno del bue”. Di conseguenza, doyō no ushi no hi è il giorno del bue che cade durante questo periodo di cambio stagionale, e si verifica ogni 12 giorni all’interno di questo intervallo di 18 giorni.
Il doyō cade quindi prima dei quattro cambiamenti stagionali: risshun (立春,primo giorno di primavera), rikka (立夏, primo giorno d’estate), risshū (立秋, primo giorno d’autunno) e rittō (立冬, primo giorno d’inverno). Quest’anno il giorno di mezza estate del bue cade rispettivamente il 24 Luglio e il 5 Agosto.
Questo giorno nel periodo estivo cade in quel momento dell’anno in cui il caldo è più intenso, causando spesso spossatezza, perdita di appetito e facile affaticamento. Fin dai tempi antichi, esiste una tradizione secondo la quale mangiare cibi il cui nome inizia con la “u” fornissero la resistenza necessaria per superare il caldo insopportabile dell’estate giapponese.
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Ma quando nasce l’usanza di mangiare l’anguilla durante questo periodo estivo?
Non si sa di preciso quando e dove sia nata questa usanza. La gente era già solita mangiare molti cibi come l’ume (prugna giapponese) e gli udon per combattere il caldo. Tuttavia, per qualche motivo, l’unagi, nonostante il suo alto valore nutrizionale che aiuta a recuperare le energie necessarie per affrontare il caldo estivo, non era favorito come alimento durante l’estate.
Si presume che questa usanza si sia consolidata a partire dal periodo Edo (1603-1868) grazie ad Hiraga Gennai (平賀源内). Per chi non lo conoscesse, Hiraga Gennai fu un naturalista ed era considerato un genio del suo tempo. Proveniente dal dominio di Takamatsu sull’isola di Shikoku, rifiutò la vita ristretta del guerriero e decise di diventare un rōnin, un samurai senza padrone, e si trasferì a Edo, dove poté fare ciò che aveva sempre desiderato, pensare e agire liberamente. Entrato in contatto con Tanuma Okitsugu (田沼意次), consigliere anziano di Tokugawa Ihearu, si impegnò incoraggiare la produzione di vari beni dedicati allo scambio. Al servizio di Tanuma, venne inviato a Nagasaki, dove, una volta entrato in contatto la cultura e la “tecnologia” introdotte dai mercanti occidentali poté dare pieno sfogo al suo genio, dedicandosi anche alla produzione di termometri, dinamo e di ceramiche in stile olandese. Si distinse anche come drammaturgo con la creazione di importanti opere teatrali.
Durante il periodo Edo, il periodo migliore per l’anguilla era l’inverno, di conseguenza in estate era molto difficile venderla e questo creava diversi grattacapi ai ristoranti specializzati in questo piatto. Un ristorante di anguille in difficoltà economica si rivolse allora a Gennai, che come suo solito, ebbe un’idea geniale. Collegò la lettera “u” di unagi con la “u” di ushi (bue) e preparò un cartello per il ristoratore che recitava “Anguilla alla griglia nel Giorno del Bue”. Questa semplice ma geniale idea sortì l’effetto desiderato e moltissime persone si recarono a mangiare l’unagi. Anche la fama dello stesso Gennai aiutò la diffusione di questa tendenza che si diffuse non solo tra i ristoranti specializzati in questo piatto ma anche tra gli altri sino ai giorni nostri.
Di conseguenza, si è consolidata l’usanza di mangiare l’anguilla in estate, tradizione ancora oggi apprezzata da molte persone. Questa abitudine, radicata nel senso delle stagioni e in antiche credenze, rappresenta un elemento culturale unico del Giappone che continua a essere tramandato senza perdere il suo fascino.
Fumizuki, un mese ricco di eventi e matsuri
Tanabata – 七夕
Forse uno tra gli eventi più conosciuti anche all’estero. Si svolge in tutto il paese, il 7 Luglio per celebrare la leggendaria storia d’amore di Orihime e Hikoboshi. In questa occasione, i desideri vengono scritti sui tanzaku (短冊), strisce di carta colorata e appesi a rami di bambù lungo le strade delle città.
Kyōto Gion Matsuri – 祇園祭
Uno dei festival estivi più rappresentativi del Giappone, durante il quale i magnifici yamaboko (山鉾), sfilano per strade di Kyōto.
Umibiraki – 海開き
Letteralmente “apertura del mare”: un evento che segna l’inizio della stagione balneare estiva, con cerimonie per la sicurezza tenute sulle spiagge di tutto il paese.
Yamabiraki – 山開き
Letteralmente l’apertura della montagna, evento che segna l’inizio della stagione alpinistica. Particolarmente rilevante è il giorno di apertura del monte Fuji, con date che a volte possono differire tra il versante di Yamanashi e quello di Shizuoka.
Andando oltre la superficie del significato e delle origini del nome fumizuki, possiamo scoprire la cultura e le usanze di un’epoca passata. Questa conoscenza potrebbe ampliare i nostri orizzonti permettendoci di riscoprire un nuovo e profondo rispetto per la vita e la natura di quel tempo.
Guidato da un’incrollabile fede, Francesco Saverio intraprese un viaggio verso l’estremo oriente, approdando a Satsuma (parte occidentale dell’odierna prefettura di Kagoshima, nel Kyūshū) nel 1549. Il suo obiettivo era ambizioso: diffondere il vangelo cristiano in un paese ancora legato a tradizioni millenarie.
In quel periodo, in Giappone, il potere era nelle mani di Oda Nobunaga, un abile stratega che aveva unito sotto il suo dominio gran parte del territorio. Pur concedendo inizialmente protezione ai cristiani, permettendo la costruzione di luoghi di culto a Kyōto e Azuchi, Nobunaga non era mosso da semplice tolleranza. I suoi calcoli erano ben precisi: i missionari rappresentavano un ponte verso l’Occidente, un’opportunità per acquisire tecnologie e conoscenze che avrebbero potuto rafforzare il suo dominio. Armi da fuoco, segreti per la produzione della seta grezza, nozioni di astronomia: tutto ciò era accessibile solo attraverso i commerci con Portogallo e Spagna. Nobunaga era pronto a sfruttare la devozione di Saverio per i propri fini politici.
Sotto l’influenza di missionari gesuiti, il Cristianesimo iniziò a diffondersi in tutto il Giappone e, tra le aree che accolsero con favore la nuova fede, Nagasaki si distinse come un vero e proprio centro fiorente. Qui, il signore feudale Ōmura Sumitada (大村純忠), mosso da una profonda conversione, si distinse come il primo daimyō cristiano. La sua decisione ebbe un impatto rivoluzionario: Nagasaki divenne un porto franco aperto al commercio estero, attirando mercanti e missionari da tutto il mondo.
Alla morte di Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi prese il potere mostrandosi inizialmente a sua volta benevolo verso il Cristianesimo. Tuttavia, l’incidente della nave spagnola San Felipe del 1596 segnò una drastica svolta nella sua politica. Durante gli interrogatori, l’equipaggio rivelò la natura espansionistica dell’impero spagnolo, affermando che la diffusione del Cristianesimo in Giappone era solo l’inizio di una futura occupazione dei territori, come era già successo in altre zone dell’Asia Orientale. Questa scoperta spinse Hideyoshi ad assumere una posizione nettamente contraria al Cristianesimo, che culminò nella crocifissione e nel martirio di 26 tra sacerdoti e fedeli a Nagasaki.
Tokugawa Ieyasu, fondatore dello shogunato Tokugawa nel 1603, emanò editti di espulsione per i missionari, allontanandoli dal Giappone. Questa mossa diede inizio a un periodo di chiusura del paese verso l’Occidente. Nel 1637, la ribellione di Shimabara (島原の乱, Shimabara no ran), guidata dal cristiano Amakusa Shirō (天草四郎), rappresentò una sfida diretta all’autorità dello shogunato. La ribellione, sebbene repressa nel sangue, spinse il terzo shōgun Tokugawa, Iemitsu, a rafforzare la proibizione del Cristianesimo e a chiudere quasi completamente il Giappone all’Occidente dando inizio ad un periodo di autarchia conosciuto con il nome di sakoku (鎖国), letteralmente, “il paese incatenato”.
La sua decisione era motivata da diverse ragioni: il timore di influenze straniere che potessero minare la stabilità del suo regime, la preoccupazione per la diffusione di idee incompatibili con la cultura giapponese e la volontà di preservare l’autonomia religiosa del paese.
La repressione del cristianesimo a Nagasaki
Il fumie – 踏み絵
Tra il 1620 e il 1630, a Nagasaki ebbero inizio le persecuzioni religiose contro i cristiani. Nelle fasi iniziali della repressione del cristianesimo i missionari e i fedeli non erano condannati immediatamente a torture efferate. Per costringerli all’abiura e come prova della loro rinuncia alla fede, venivano sottoposti a un test crudele: erano costretti a calpestare un’immagine della Vergine Maria, realizzata in carta o in legno. Questa prova prendeva il nome di fumie (踏み絵). Il termine e composto da due due kanji: il primo, fumi 踏み, “calpestare” e il secondo quello di “e” (絵) per indicare un dipinto.
La seguente immagine rappresenta l’atto del calpestare un bassorilievo della Vergine Maria di fronte a funzionari del governo di Nagasaki. Illustrazione è stata realizzata per il medico tedesco Philipp Franz von Siebold, che lavorò presso il trading post olandese di Dejima dal 1823 al 1829.
Chi cedeva a questa umiliazione, rinunciando alla propria fede, e abbracciava il Buddismo, veniva graziato. Questo atto di apostasia rappresentava una lacerazione profonda per la loro anima, un tradimento dei loro valori più intimi in cambio della sopravvivenza fisica.
L’atto di calpestare l’immagine della Vergine Maria, assumeva un significato estremamente simbolico per i cristiani di quell’epoca. Non si trattava di un semplice gesto di obbedienza, ma di una vera e propria abiura della propria fede, un atto di apostasia che segnava una macchia indelebile sulla coscienza. Coloro che cedevano a questa pressione, rinunciando al Cristianesimo e convertendosi al Buddismo, lo facevano spesso con il cuore straziato, divisi tra la paura della tortura e la fedeltà ai propri principi.
Questo metodo repressivo si diffuse presto in diverse aree del Kyūshū, ad eccezione di alcune zone come il dominio di Satsuma. Successivamente il fumie venne esteso a tutta la popolazione, diventando di fatto un vero e proprio strumento di controllo e repressione.
Inizialmente, le tavole per il fumie venivano realizzate utilizzando immagini sacre confiscate ai cristiani. Tuttavia, a causa dei danni subiti e con l’istituzionalizzazione e la diffusione di questo sistema, le tavole stesse subirono un processo di standardizzazione. Per questo motivo, vennero ampiamente utilizzate tavole in metallo con immagini religiose in rilievo oppure, tavole in ottone.
L’inasprimento delle misure anti-cristiane spinse l’Ufficio del Magistrato di Nagasaki a commissionare la realizzazione di tavole per il fumie in ottone. Oltre a sopperire alla carenza di tavole, questo provvedimento mirava ad acquisire il controllo sull’autorità di perseguitare i cristiani nella regione, attraverso la distribuzione delle tavole agli altri feudi del Kyūshū.
Fonte Wikipedia
Sebbene il sistema del fumie fosse ufficialmente istituzionalizzato solo nel Kyūshū, procedure simili venivano applicate sporadicamente anche in altre zone del paese in caso di sospetti infiltrati o di senpuku kirishitan (潜伏キリシタン), i cristiani nascosti.
Con il tempo, a Nagasaki il fumie divenne un evento annuale che si svolgeva in ogni quartiere il primo giorno dell’anno. Nonostante l’abolizione ufficiale del sistema con la firma del Trattato di amicizia e commercio tra Giappone e Stati Uniti nel 1858, come testimoniano i registri dell’epoca, la pratica continuò ad essere applicata per alcuni anni in alcune zone al di fuori di Nagasaki.
Anazuri – 穴吊り
Lo anazuri era un altro metodo di tortura utilizzato per forzare i cristiani all’ abiura.
L’anazuri, una tortura atroce che letteralmente significa “appendere nella fossa”, consisteva nel calare le vittime, legate e capovolte, in una fossa adibita a discarica. Il sangue affluiva alla testa provocando un dolore lancinante e inesorabile che, con il passare delle ore, diventava indescrivibile. Le vittime, in questa condizione di agonia, erano costrette ad ascoltare per ore le insistenti parole di un funzionario che le incitava a rinunciare alla propria fede promettendo loro sollievo e liberazione.
“Rinuncia alla tua fede. Se rinunci alla tua fede, ti aiuteremo. Rinunciando, ti sentirai meglio”
Era una tortura efferata che prolungava l’agonia delle vittime, aveva come obiettivo la loro abiura piuttosto che la loro morte. I funzionari giapponesi, consapevoli del potere del martirio nel rafforzare la fede, escogitarono questo metodo per spezzare la volontà dei cristiani, costringendoli a rinunciare al loro credo sotto il peso di una sofferenza inenarrabile. Un atto di apostasia forzata, dunque, una conversione imposta dove la fede era la vera vittima sacrificale, immolata sull’altare della disperazione.
Lo shogunato, temendo il potere motivante del martirio, escogitò una strategia subdola per estirpare la fede cristiana: la tortura dei leader spirituali. Si pensava che l’abiura di figure autorevoli avrebbe causato un effetto domino di apostasie tra i fedeli. Per questo motivo, inizialmente il potere dominante optò per la coercizione all’abiura, piuttosto che per l’esecuzione, ritenendola un metodo di persecuzione più efficace e meno controproducente.
Un mio conoscente giapponese cattolico che conosce approfonditamente le vicende legate al cristianesimo della zona di Nagasaki, mi ha spiegato anche alcune preghiere che si sono diffuse tra i vari gruppi di cristiani di quel periodo e che venivano recitate da chi veniva sottoposto a questa tremenda tortura. Si dice che pregassero dicendo: “Prego, Signore, prendi la mia vita prima che io cada”. In quel periodo, i cristiani usavano l’espressione “cadere” (転ぶ, korobu in giapponese) per indicare proprio l’apostasia.
水磔 – Suitaku
La crocifissione in acqua
Tra i supplizi della crocifissione, il più crudele è senza dubbio quello dove il condannato, capovolto, veniva fissato a un palo in acque basse soggette a violenti flutti e maree. Non solo subisce l’atroce dolore del reflusso sanguigno, ma è condannato a vivere l’incubo di annegare con l’innalzarsi della marea, una duplice agonia che dilania sia il corpo che la mente.
Si dice che questa crocifissione in acqua sia stata ideata all’inizio del periodo Edo, e si dice che un gran numero di cristiani siano stati crocifissi anche sulla spiaggia di Shinagawa poco la fondazione della città.
Unzen no junkyōsha – 雲仙の殉教者
I martiri di Unzen
A pochi chilometri da casa mia si erge l’Unzendake (雲仙岳) , un vulcano attivo situato al centro della penisola di Shimabara, nella prefettura di Nagasaki. E una montagna bellissima e maestosa con una natura mozzafiato che mostra uno splendido susseguirsi delle stagioni. Tuttavia, su questa montagna c’è una ferita rimasta aperta nel corso dei secoli e al susseguirsi delle stagioni: una croce di pietra che sembra aprire le braccia tra le rocce bruciate e i vapori dello shōnetsu jigoku di Unzen (雲仙焦熱地獄), l’inferno di Unzen.
La maggior parte dei turisti associano Unzen solo alle eleganti terme che circondano il suo “inferno”, spesso ignorando la ricca storia sepolta sotto la sua superficie bollente. Ignorato dai turisti attratti dalle sue terme lussuose, questo gigante ha forgiato la penisola con eruzioni devastanti, l’ultima delle quali tra il 1991 e il 1994. Tra le sue ceneri sono nate storie di eroismo sovrumano, come quella di Paulo Uchibori. Un patrimonio storico che negli ultimi decenni è stato riscoperto e valorizzato.
Tra il 1627 e il 1632, il Giappone si macchiò di un’atrocità che avrebbe segnato per sempre la storia della religione cristiana: il martirio di Unzen. Nella regione di Shimabara, il signore feudale Matsukura Shigemasa (松倉 重政), animato da un feroce zelo anticristiano, scatenò una brutale persecuzione contro i fedeli. A sostenere la sua crociata di terrore fu Takenaka Shigeyoshi, nominato magistrato di Nagasaki nel 1629. Le sorgenti termali vulcaniche di Unzen, soprannominate, Unzen jigoku (雲仙地獄), l’ “Inferno di Unzen“, divennero il macabro palcoscenico di questo martirio.
I cristiani, con la forza e la minaccia di torture atroci, venivano costretti ad abiurare la loro fede ai bordi delle acque bollenti. Coloro che, con incrollabile coraggio, rifiutarono di rinnegare la propria fede, venivano spogliati, legati mani e piedi, e condannati a una morte orribile: venivano cosparsi con l’acqua bollente, o immersi direttamente nelle acque straziati dal dolore e dalla disperazione. Unzen Jigoku si trasformò così in un simbolo di intolleranza religiosa e di immane sofferenza, un monito tragico che ancora oggi risuona nella memoria collettiva.
Arima Harunobu
Figura emblematica del cristianesimo tra i daimyō, Harunobu Arima (有馬 晴信) intraprese un percorso spirituale complesso e contraddittorio. Inizialmente, si allontanò dalla fede, giungendo persino a demolire le chiese erette sotto il regno del padre Yoshisada. Tuttavia, esigenze politiche e la necessità di salvaguardare il proprio dominio lo spinsero ad abbracciare il battesimo. Con il tempo, la sua conversione si trasformò in una sincera e profonda devozione alla fede cristiana.
Sotto il comando di Arima Harunobu, la terra di Arima (attuale zona di Minami Shimabara, 南島原) si ergeva a baluardo del cattolicesimo in Giappone. Ma nel 1612, un colpo di scena travolse il feudo: lo shōgun condannò all’esilio Harunobu accusandolo di corruzione, condannandolo a morte e consegnando di fatto il suo dominio al figlio Naozumi, piegandosi all’ordine dello shōgun, abiurò la fede cristiana, abbracciò il buddismo e giurò al suo signore terreno di estirpare la religione cattolica dal suo dominio.
Obama – 小浜市
La città di Obama custodisce una memoria indelebile. I cristiani catturati ed imprigionati nelle zone di Nagasaki venivano deportati via nave dal porto di Mogi alla città di Obama, situata alle pendici del monte Unzen. Da qui, iniziarono la loro ascesa verso i cosiddetti inferni, in un evento noto come yama–iri (山入), traducibile letteralmente come “entrare nella montagna”.
Durante il periodo di persecuzione dei cristiani, coloro che venivano catturati a Nagasaki sbarcavano su una spiaggia, Ishiaihama (石合浜), dopo aver attraversato la baia di Tachibana (橘湾, Tachibana-wan), partendo dal porto di Mogi (茂木港, Mogi-ko) La spiaggia è stata inghiottita dalla strada ma nell’ufficio del turismo di Obama sono conservate delle foto risalenti al periodo Meiji.
Viaggio dei cristiani dal porto Mogi, lungo la baia di Tachibana, sino alla spiaggia Ishiai di Obama
La foto seguente ritrae il tratto della statale che conduce alla città di Obama dove un tempo era presente un punto di approdo per le imbarcazioni. Questo luogo é chiamato tutt’ oggi Ishiaihama anche se il tratto di spiaggia usato come approdo é stato eliminano per creare spazio alla strada.
Fonte: foto dell’autore. Ishiaihama, Obama-shi
La seguente foto é stata scatta in periodo Meiji nello stesso luogo della mia foto ed é conservata presso l’ufficio del turismo della città di Obama.
I cristiani, una volta finiti sulla spiaggia, venivano legati tra loro e appesantiti con pietre al collo, poi condotti sul monte Unzen e condannati a un’atroce morte. Oggi, un piccolo parco, l’ Ishiai Kōen (石合公園), sorge sulla costa dove si consumarono questi tragici eventi, offrendo un luogo di memoria e riflessione. Il parco è un monito a non dimenticare le sofferenze del passato e a custodire i valori di libertà e tolleranza.
Foto dell’autore
Dietro il municipio di Obama c’è una sorgente conosciuta come ue no kawa yūsui (上の川湧水), anch’essa teatro di eventi tragici durante l’epoca della persecuzione dei cristiani. Come riportato all’interno della kirishitan junkyōshi no hiwa (キリシタン殉教史の悲話), la “Tragica storia del martirio dei cristiani” del 1629, questa sorgente rappresentava l’ultimo possibile ristoro di un viaggio disperato per i condannati a morte. Condotti verso il loro supplizio sotto un sole implacabile, non potevano nemmeno sperare in un sollievo dalla sete. Le guardie, invece, indifferenti al loro dolore, si concedevano il privilegio di dissetarsi presso questa fonte. Oggi, la sorgente è un luogo di memoria e di riflessione, un monito a non dimenticare le sofferenze del passato e a custodire i valori di libertà e tolleranza.
Foto dell’autore
Nello stesso luogo c’è anche una piccolo monumento in ricordo del martirio dei cristiani passati per questo luogo.
Foto dell’autore
Lungo la strada statale che sale verso Unzen si incontra una fermata dell’autobus che prende il nome mimitori (耳採). In questo luogo i cristiani subivano l’atroce mutilazione dell’orecchio sinistro. La leggenda narra che gli abitanti del villaggio, mossi da compassione, raccolsero le orecchie recise e le seppellirono in un tumulo, detto mimizuka (耳塚) un monito silenzioso contro la barbarie umana. Questo mimizuka rimase intatto per secoli, un simbolo tangibile della sofferenza e della fede incrollabile dei cristiani, fino al 1957, quando la ristrutturazione della strada nazionale ne decretò la scomparsa.
Foto dell’autore
Si narra anche che i Ventisei Santi Martiri di Nagasaki, durante il loro trasferimento da Kyōto a Nagasaki, per ordine di Hideyoshi, avrebbero dovuto subire il taglio dell’orecchio sinistro e del naso al loro arrivo al ponte ichijō modoribashi. Tuttavia, sembra che Ishida Mitsunari, provando compassione per i cristiani, riuscì a far sì che venissero mutilate solo l’orecchio orecchie sinistro.
Non è chiaro perché anche ai cristiani di deportati in queste zone siano state tagliate le orecchie: forse per costringerli ad abiurare o come segno di riconoscimento in caso di fuga, o semplicemente perché i funzionari seguirono semplicemente l’esempio di Kyōto.
Unzen junkyōdō – 雲仙殉教道
La via del martirio di Unzen
Lungo la strada statale che da Obama conduce all’ingresso di Unzen, un bivio indica il strada che conduce verso la Unzen Kyōkaidō (雲仙教会堂), la chiesa cattolica edificata nel 1981 in memoria dei martiri cristiani in occasione della visita papale a Nagasaki. Un cippo in pietra segna il luogo dove i condannati, prima di essere torturati all’Inferno di Unzen, percorrevano la cosiddetta Unzen junkyōdō (雲仙殉教道, la via del martirio di Unzen). La lapide, eretta circa 400 anni dopo quei tragici eventi, ne conserva il ricordo.
La lapide commemorativa riporta il seguente testo:
“Sotto il regime dello shogunato di periodo Edo, i cristiani subirono una dura persecuzione, costretti a rinnegare la loro fede e ad affrontare terribili sofferenze. Tra il 1627 e il 1632, Unzen si trasformò in un luogo di supplizio per i cristiani, dove vennero sottoposti a torture efferate come l’immersione in acqua bollente. Molti fedeli morirono per la loro fede, ma nemmeno il potere dello shogunato fu in grado di annientare la loro profonda devozione. Questo luogo è il crocevia dei sentieri che provengono da Obama e Ariie (ora parte di Minami Shimabara). Si narra che i cristiani percorressero queste vie per giungere a Unzen. Il cippo di pietra in basso a destra risale a quell’epoca.”
Foto dell’autore
Il monumento dei Martiri di Unzen
Come accennato in precedenza gli inferni di Unzen sono una famosa meta turistica all’interno delle sorgenti termali di Unzen. Si trova all’interno del primo parco nazionale del Giappone, il Parco Nazionale Unzen-Amakusa. L’area è avvolta dall’aroma di zolfo, con vapore che sgorga dal sottosuolo e nuvole di vapore che si aggirano intorno, creando un paesaggio infernale. E possibile esplorare a piedi e gratuitamente circa 30 inferni diversi. Tra questi, l’inferno anche quello conosciuto come Oito jigoku, all’interno del quale è stato costruito un monumento dedicato ai martiri cristiani, apparso nella scena iniziale del film Silence, chinmoku (沈黙), in giapponese.
Proprio nel cuore del Parco Nazionale Unzen-Amakusa, si trova l’Unzen Jigoku (雲仙地獄), l’Inferno di Unzen, una suggestiva zona geotermica che attira visitatori da tutto il mondo. Qui, dove il sibilo del vapore si mescola a l’acre odore di zolfo, si dispiega un paesaggio infernale che lascia senza fiato. La parola “jigoku” ha il doppio significato di “sorgente termale” e “inferno”.
Percorrendo i sentieri gratuiti che si snodano tra fumarole gorgoglianti e pozze di fango bollente, ci si immerge in un’atmosfera surreale. Sembra quasi di aver varcato le soglie degli inferi, dove la crosta terrestre ha squarciato un varco verso le profondità incandescenti del pianeta. Più di 30 “inferni” differenti costellano la zona e tra questi, spicca l’Oito Jigoku (お糸地獄), dove il fango ribolle come un calderone infernale.
L’Inferno di Unzen non è solo un luogo di meraviglia naturale, ma anche un sito ricco di storia e spiritualità. Nel suggestivo scenario dell’Oito Jigoku, un monumento rende omaggio ai martiri cristiani che qui persero la vita. La loro storia si intreccia con la forza brutale della natura, creando un’atmosfera carica di emozioni che invita alla riflessione.
Gli appassionati di cinema riconosceranno nell’Inferno di Unzen alcuni scorci familiari. Questo luogo infernale, infatti, ha fatto da sfondo alle scene iniziali del film “Silence”, diretto da Martin Scorsese. Passeggiando tra i sentieri fumanti, si rivive l’atmosfera opprimente che ha ispirato il regista.
Oito jigoku, foto dell’autore
Oito-jigoku – お糸地獄
L’ Oito Jigoku, l’Inferno di Oito, custodisce una leggenda che risale alla fine del 1800. Protagonista di questa storia è Oito, una donna agiata che viveva nei pressi del castello di Shimabara. La sua vita fu sconvolta dall’accusa di un crimine terribile: l’omicidio del marito, compiuto con la complicità del suo amante. Condannata a morte, Oito subì la sua esecuzione. Ma proprio nell’istante fatale, la leggenda narra che un jigoku, sgorgò dal sottosuolo, come un macabro presagio del suo destino ultraterreno.
Sulla collina che sovrasta l’inferno di Oito si trova il Monumento ai Martiri Cristiani. Eretto durante il periodo Meiji (1868-1912), per commemorare i 33 cristiani che furono torturati e uccisi a Unzen tra gli anni Venti e Trenta del Seicento.
Foto dell’autore
Come scritto in precedenza a partire dal 1627, decine di cristiani vennero prelevati da tutta Nagasaki e dalla penisola di Shimabara e portati a Unzen, dove furono torturati nelle sorgenti infernali, finché non avessero abiurato la loro fede. Molti si rifiutarono; forse fu proprio il loro sacrificio ad ispirare la gente di Unzen a commemorare i martiri dopo la revoca del bando sul Cristianesimo.
Nonostante l’impossibilità di identificare con precisione i luoghi del martirio di cristiani per mancanza di formati storiche e perché nel corso dei secoli le diverse eruzioni hanno modificato sostanzialmente il paesaggio, due lapidi monumentali sono state erette a imperitura memoria dei martiri.
La seguente illustrazione riporta il “Martirio a Unzen Jigoku,” ed é tratta da “Storia del Giappone” di Arnoldus Montanus, insegnante e scrittore olandese, pubblicata nel 1669, custodita nella Biblioteca della Dieta Nazionale.
Lungo il percorso che si snoda oggi attraverso l’Oito jigoku si possono incontrare tre monumenti commemorativi in ricordo dei 33 martiri cristiani qui periti tra il 1627 e il 1631. Il Monumento della Fiamma Sacra, Seika Moyu no Hi (聖火燃ゆの碑), una pietra eretta nel 1939 e scolpita con un haiku del poeta Ikuta Chōsuke, che recita come segue”
“I vostri spiriti elevati e il sacro sangue rossonon sono mai venuti meno e si vedono ancora vividamente attraverso la montagna rossa ricoperta di fiori di azalea.”
Foto dell’autoreFoto dell’autore
Come un monito silenzioso una croce si erge tra la quiete del paesaggio. Voluta dall’Arcivescovo di Nagasaki nel 1961: sulla base, i nomi di sei martiri ricordano la loro sofferenza e testimoniano la fede tenace dei cristiani del passato e del presente. Immersi nella bellezza del paesaggio e nella ricca storia del luogo, si scopre la resilienza dei cattolici giapponesi di fronte alle persecuzioni subite.
Concludo questo articolo con la frase riportata sul monumento”
“A partire dal 1627, per ben cinque anni, l’Inferno di Unzen fu teatro di un martirio che presto risuonò oltre i confini del Giappone, commuovendo i cuori di molti. Decine di uomini e donne, senza mai piegarsi, subirono il martirio per la loro fede, gettati nelle pozze di zolfo bollente o cosparsi di acqua rovente su tutto il corpo. Seguendo l’insegnamento sacro “Non temete colui che può uccidere il corpo, ma non l’anima”, onorarono la fedeltà a Dio e la dignità dell’anima, trionfando sulla tortura e sulla morte. La gloria di questi santi martiri, vincitori di prove terribili, rimarrà impressa in questo luogo per sempre.“
La Daigo Fukuryū Maru (第五福竜丸, “nave del drago fortunato numero cinque”), un peschereccio giapponese per la pesca del tonno, appartenente alla flotta del porto di Yaizu (Shizuoka), divenne involontariamente protagonista di uno degli eventi più tragici legati ai test nucleari. Il 1° Marzo 1954, mentre si trovava a 160 chilometri dall’atollo di Bikini nelle Isole Marshall, il peschereccio e il suo equipaggio di 23 uomini furono esposti a radiazioni a causa del test della bomba all’idrogeno Castle Bravo condotto dagli Stati Uniti.
Fonte: Wikipedia
L’esplosione, mille volte più potente della bomba atomica sganciata su Hiroshima, generò una nube di ricaduta radioattiva che si abbatté sulla Daigo Fukuryū Maru, contaminando l’equipaggio e l’imbarcazione. Inizialmente ignari del pericolo, i pescatori continuarono le loro attività, inconsapevoli di essere diventati vittime di una tragedia nucleare.
Il peschereccio si trovava ben al di fuori del raggio d’azione della bomba, ma abbastanza vicino da essere ricoperta da ricadute altamente radioattive diverse ore dopo l’esplosione. L’equipaggio, inconsapevole del pericolo, aumentò ulteriormente la propria esposizione alle radiazioni prendendosi il tempo di recuperare tutta la costosa attrezzatura da pesca. La cenere radioattiva (shi no hashi, 死の灰, in giapponese) ricoprì i capelli e la pelle dei pescatori, entrando persino nelle loro bocche.
La nave fece ritorno in porto il 14 Marzo, dove l’equipaggio venne ricoverato in ospedale per curare i sintomi di una misteriosa malattia che era iniziata durante il viaggio di ritorno. In ospedale la misteriosa malattia fu identificata come sindrome da radiazioni acute e l’equipaggio ricevette tutte le cure necessarie. Parte del trattamento consisteva in trasfusioni di sangue per contrastare la diminuzione dei globuli bianchi.
Incredibilmente, il pescato della nave non venne immediatamente sequestrato e fu comunque inviato al mercato nonostante le condizioni dell’equipaggio. Le autorità dovettero quindi agire in fretta per recuperare il tonno contaminato prima che qualcuno potesse acquistarlo. L’intervento ebbe buon fine, e si dice che tutto il pescato radioattivo venne sepolto vicino al mercato di Tsukiji.
Gli eventi
Poco prima dell’alba del 1° Marzo 1954, la maggior parte dell’equipaggio del peschereccio stava riposando sottocoperta, sfiniti dopo una notte di duro lavoro. Stando al racconto e alle annotazioni sul diario di bordo di Yoshio Masaki, il capo pesca, sembra che l’imbarcazione sia stata improvvisamente investita da una luce intensa. Masaki riporta di aver provato una strana sensazione come se qualcosa di brutto fosse lì li per accadere. Un altro membro dell’equipaggio scrisse che in direzione delle isole Marshall il cielo sembrava aver preso fuoco. Il diario di bordo riporta che nove minuti dopo il bagliore è arrivato un suono ruggente, mai sentito prima.
Nell’udire quel rumore intenso l’intero equipaggio corse sul ponte. Qualcuno tra di loro gridò “è la bomba atomica!”. In quel momento un senso di terrore si fece strada nel cuore degli uomini dell’equipaggio che solo pochi anni prima avevano combattuto nella Seconda Guerra Mondiale e conoscevano bene la distruzione subita dalle città di Hiroshima e Nagasaki. Scrutarono in silenzio l’orizzonte aspettando di vedere apparire il fungo atomico che avevano visto nelle foto di quei bombardamenti. Scrutavano il cielo e il mare nelle quattro direzioni alla ricerca di aeroplani o di altre navi ma con esito negativo.
Ma quello in cui erano a loro malgrado coinvolti andava ben oltre la loro immaginazione ed era ben più terribile di una bomba atomica come quelle sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Il bagliore e l’onda d’urto provenivano dalla detonazione di un’arma termonucleare, una nuova versione dello strumento di guerra più potente e letale che il genere umano avesse mai ideato. Il test, nome in codice Castle Bravo, era andato terribilmente male. La bomba risultò essere due volte più potente di quanto previsto dagli scienziati, e sebbene il peschereccio si trovasse a 138 chilometri dal sito della detonazione e al di fuori della zona di pericolo ufficialmente dichiarata dalle autorità, era, purtroppo, all’interno del raggio d’azione dell’esplosione.
Sfinito e impaurito, l’equipaggio tornò a lavorare recuperando il pescato e l’attrezzatura, ma nel frattempo strati di nuvole di una forma che non avevano mai visto si avvicinarono dalla direzione dell’esplosione. Iniziò a piovere, la pioggia aveva uno strano colore biancastro ed era accompagnata da fortissime raffiche di vento (si scoprirà in seguito che gli americani avevano previsto una zona venti, ma nella direzione opposta). Questa strana pioggia lasciò sulla nave e addosso ai membri dell’equipaggio una sostanza che assomigliava a cenere. Questa sostanza si attaccava a qualsiasi superficie compreso il pescato, le mani, collo, viso e capelli degli uomini, finendo per entrare inevitabilmente in bocca e negli occhi.
La pioggia e la cenere caddero incessantemente sul peschereccio e il suo equipaggio per cinque lunghissime ore. A seguire, alcuni membri dell’equipaggio iniziarono ad ammalarsi con febbre alta e vomito. A loro insaputa erano stati esposti ai resti altamente radioattivi dei coralli inceneriti dall’immensa esplosione nucleare, che erano stati scaraventati in cielo per poi ricadere su una vasta area di oceano. Quando tornarono in porto due settimane dopo, la maggior parte dell’equipaggio soffriva di mal di testa, sanguinamento gengivale, ustioni cutanee e perdita di capelli a ciocche. Tutti gli uomini furono ricoverati in ospedale.
L’operatore radio Aikichi Kuboyama morì diversi mesi dopo l’esplosione e venne tristemente considerato come la prima vittima della bomba a idrogeno. La causa ufficiale del decesso fu attribuita all’insufficienza epatica, di cui soffriva da anni. Tuttavia, era chiaro che le radiazioni avevano indebolito così tanto il suo sistema immunitario da essere state la causa scatenante della morte.
La tragedia della Daigo Fukuryū Maru non fu un caso isolato. Le conseguenze del test nucleare Castle Bravo si estesero ben oltre l’incidente in cui è rimasto coinvolto il peschereccio, colpendo indirettamente numerose imbarcazioni giapponesi che solcavano le acque del Pacifico. Entro la fine del 1954, ben 856 navi avevano riportato a terra tonno contaminato dalle radiazioni, esponendo potenzialmente migliaia di membri dell’equipaggio a dosi elevate di radiazioni. Ancora oggi, molti aspetti di questa tragedia rimangono avvolti nel mistero, tra cui l’entità precisa dei danni alla salute subiti dai pescatori.
A seguito della diagnosi di sindrome da radiazioni acute per l’equipaggio della Daigo Fukuryū Maru, il governo giapponese ha presentato una protesta formale agli Stati Uniti. La notizia ha avuto un immediato impatto sull’opinione pubblica, provocando una grave crisi diplomatica tra le due nazioni. La vicenda si è conclusa con il versamento di un indennizzo da parte degli Stati Uniti al Giappone pari a 15 milioni di dollari in riparazione ai danni subiti dall’industria ittica. Di questa somma, 5.550 dollari sono stati destinati a ciascun membro superstite dell’equipaggio, mentre 2.800 dollari sono andati alla vedova del signor Kuboyama. I media giapponesi dedicarono un’ampia copertura alla tragedia del peschereccio che in pochi giorni, trovo copertura anche nella stampa internazionale.
Fallout
Sebbene si fosse già a conoscenza che alti livelli di radiazioni avevano causato quella che allora veniva chiamata “malattia da bomba atomica” (genbakubyō, 原爆病) tra i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki, si credeva che tale malattia fosse esclusivamente associata all’esposizione diretta alle radiazioni generate al momento dell’esplosione delle bombe. I ricercatori medici giapponesi scoprirono che in questo caso, gli uomini dell’equipaggio, soffrivano di qualcosa di diverso, una malattia che gli esperti definirono “malattia da radiazioni acute” causata non dall’esposizione diretta allo scoppio della bomba, ma dalla successiva pioggia radioattiva. I giapponesi iniziarono a chiamare questa pioggia shi no hai (死の灰), “cenere della morte”. I media e il mondo intero iniziarono presto a chiamarla con un nuovo nome che, nel giro di poche settimane, entrò a far parte del lessico globale, ovvero: fallout.
La popolazione giapponese che per anni aveva onorato ma allo stesso tempo stigmatizzato ed evitato gli hibakusha (被爆者), ovvero i cittadini di Hiroshima e Nagasaki sopravvissuti alle bombe atomiche, ora scopriva un nuovo sentimento di compassione per l’equipaggio e indirizzò tutta la sua indignazione verso gli Stati Uniti, rei di aver nuovamente reso vittima il Giappone di armi atomiche.
L’incidente della Daigo Fukuryū Maru permise di strappare via quel velo di segretezza che circondava i test di armi nucleari statunitensi in corso nel Pacifico da otto anni, sotto il nome di Operation Ivy. Ma allo stesso tempo alimentò nuove paure tra la popolazione. I giornali riportarono la notizia mostrando le foto del pescato contaminato riportato in porto dal peschereccio. Per evitare lo scaturire di una paura collettiva le autorità sanitarie giapponesi ordinarono controlli su qualunque pesce pescato in un raggio di 2.500 chilometri dal sito del test atomico. Migliaia di campioni risultarono infatti contaminati da radiazioni.
L’ incidente contribuì anche a diffondere il terrore delle radiazioni nucleari nella cultura popolare giapponese. Il mostro radioattivo Gojira, primo film del genere kaijū tokusatsu (怪獣特撮), arrivò sugli schermi giapponesi nell’autunno del 1954, pochi mesi dopo l’incidente. Nel film originale, l’equipaggio di un peschereccio vede uno strano bagliore arancione sott’acqua, arretra terrorizzato da un lampo accecante e tutto ciò che rimane è lo scafo carbonizzato della nave vuota che ondeggia tra le onde. Un antico mostro risvegliato da un’immensa esplosionenucleare provocata dall’uomo calpesta un villaggio su un’isola, lasciando impronte radioattive. Il kaijū giunge sino alla capitale Tōkyō, incendiando qualsiasi cosa con un raggio radioattivo. La versione distribuita sul mercato americano del primo film di Gojira ha subito delle modifiche per allentare il sentimento critico nei confronti degli Stati Uniti d’America che scorreva nella società giapponese di quel periodo.
Il governo giapponese acquistò la barca e la ribattezzò Hayabusa Maru (はやぶさ丸). Una volta che i livelli di radiazione diminuirono, servì come nave scuola per il Dipartimento della Pesca di Tōkyō prima di essere de-commissionata nel 1967. Il peschereccio rimase a marcire dimenticata in un cumulo di rifiuti nella discarica yume no shima (夢の島), una zona di Tōkyō creata artificialmente usando i rifiuti. Finché, una volta a conoscenza della notizia, un gruppo di cittadini diede vita ad un movimento per la sua conservazione inviando lettere ai quotidiani e iniziando campagne a livello nazionale contro le armi nucleari. Nel Giugno del 1976 venne inaugurata dal governo metropolitano di Tōkyō un’esposizione dedicata alla Daigo Fukuryū Maru dove la nave è tuttora esposta al pubblico.
Tra i riti più suggestivi del Giappone, il nagoshi no harae (夏越の祓), con il suo chi no wa kuguri (茅の輪くぐり), spicca per la sua semplicità e profondità. Celebrato nel mese di Giugno nei santuari shintoisti, questo rituale di purificazione offre ai fedeli l’occasione di liberarsi dalle impurità accumulate durante la prima metà dell’anno e di prepararsi ad affrontare i mesi successivi con rinnovata serenità. In questo articolo, vi guideremo alla scoperta di questo rituale, un viaggio attraverso le sue origini, il suo significato e il modo corretto per attraversare l’anello di erba sacra. Conosceremo inoltre i kataashiro, i simboli delle nostre colpe e sfortune, e comprenderemo il valore spirituale di questa antica tradizione.
Che cos’è il Nagoshi no Harae?
Il nagoshi no harae è una cerimonia di purificazione che si tiene alla fine di Giugno presso i santuari shintoisti. I partecipanti attraversano un anello di erba sacra, detto chi no wa kuguri, per purificarsi da peccati e impurità. L’anello di erba sacra è chiamato “chi no wa” e viene realizzato intrecciando erba chigaya, il miscanto.
Nell’antica tradizione shintoista, si ritiene che le azioni quotidiane accumulino peccati e impurità. Per questo motivo, sin dai tempi antichi si è celebrata una cerimonia conosciuta come ooharae (大祓, “grande purificazione”) per purificare questi peccati e impurità. In Giappone, si celebrano due riti di purificazione durante l’anno, quello che si tiene a fine Giugno si chiama nagoshi no harae (夏越の祓, “grande purificazione estiva”), mentre quella che si tiene a fine Dicembre si chiama toshikoshi no harae (年越の祓, “grande purificazione di capodanno”) o toshikoshi ooharae (年越大祓).
Il nagoshi no harae non si limita a un rituale di purificazione, ma assume un valore più profondo. È un’occasione per esprimere riconoscenza per le benedizioni ricevute durante la prima metà dell’anno e per invocare salute e prosperità per i mesi a venire. Aperto a tutti e celebrato in santuari in tutto il Giappone, assume in alcuni casi un’atmosfera festosa, diventando un evento atteso da molti come un vero e proprio festival estivo.
Il significato del passaggio attraverso l’anello
La leggenda di Somin Shōrai
Il chi no wa kuguri, il rituale del passaggio attraverso l’anello di miscanto che i giapponesi compiono durante il nagoshi no harae, affonda le sue radici nella ricca mitologia giapponese. Una leggenda narra di un viaggiatore in cerca di un posto dove riposare che si imbatté in due fratelli. Il minore, nonostante la sua ricchezza, lo respinse con durezza, mentre il maggiore, Somin Shōrai (蘇民将来), sebbene in condizioni economiche disagiate, lo accolse con generosità.
Fonte: Wikipedia
La leggenda narra che il viaggiatore stanco che bussò alla porta di Somin Shōrai non era un semplice uomo, ma la potente divinità shintoista Mutō no Kami (武塔神), conosciuta anche come MutōTenjin (武塔天神) o Susanoo no Mikoto (須佐之男命). Profondamente toccato dalla gentilezza e dall’ospitalità di Somin Shōrai, Mutō no Kami gli donò un anello di chigaya, come segno di gratitudine e protezione. L’uomo, seguendo gli insegnamenti del viandante divino, indossò l’anello intorno alla vita e, grazie a questo, riuscì a sfuggire all’epidemia che colpì la sua regione e a prosperare per generazioni.
Ispirata da questa leggenda, la gente iniziò a praticare il chi no wa kuguri e ad affiggere gli ofuda (御札, dei talismani) ispirati a Somin Shōrai all’ingresso delle proprie case durante il mese di Giugno. La leggenda di Somin Shōrai ha diverse varianti e rappresenta anche la base del famoso Gion Matsuri (祇園祭) di Kyōto. Secondo la versione legata al rinomato festival, Gozu Tennō (un altro nome di Mutōshin), dopo aver ricevuto ospitalità dalla famiglia di Somin Shōrai, gli suggerì di scrivere la frase “Somin Shōrai no shison nari” (“Qui vivono i discendenti di Somin Shōrai“) in lettere d’oro su carta rossa. Seguendo il consiglio, la famiglia di Somin Shōrai fu risparmiata da un’epidemia che colpì la città, mentre la famiglia del fratello maggiore avido, Gotan Shōrai (che aveva rifiutato di ospitare il viaggiatore), fu completamente decimata.
Ancora oggi, a Kyōto, molti abitanti preservano la tradizione di appendere alle loro case dei fuda, talismani realizzati con fili di miscanto intrecciati noti come chimaki (粽), come simbolo della loro discendenza da Somin Shōrai.
L’ ofuda riporta la scritta: Somin Shōrai no shison nariFonte: Kyōto Yasaka Jinja
Come si attraversa il chi no wa?
Foto dell’autore. Isahaya Jinja, Nagasaki-ken
Il rituale del chi no wa kuguri prevede solitamente tre passaggi attraverso l’anello di miscanto, disegnando un otto. Il primo passaggio avviene da sinistra a destra, seguito da un secondo passaggio da destra verso sinistra, per poi concludere con un ultimo passaggio a sinistra per poi procedere verso il seguente anello che si trova di fronte al luogo di preghiera. Esistono però alcune varianti a seconda del santuario. Ecco come si svolge il rituale nel santuario della mia città.
Foto dell’autore. Isahaya Jinja, Nagasaki-ken
Prima di attraversare il chi no wa, ci si inchina e successivamente, si passa attraverso l’anello da sinistra a destra recitando le seguenti parole, per poi tornare di fronte all’anello.
水無月の夏越の祓する人は千歳の命延ぶと云うなり
Minazuki no nagoshi no haraesuru hito ha chitose no inochi nobutoiu nari
Chi compie la purificazione d’estate durante Minazuki (Giugno) possa allungare la propria vita fino a mille anni.
Anche la seconda volta, ci si inchina e attraversando l’anello questa volta da destra a sinistra, per poi tornare davanti a quest’ ultimo si recitano le seguenti parole:
Come se tutti i pensieri appartenessero al sesto mese lunare, si purificano tagliando e tagliando le foglie di chigaya.
Al terzo paesaggio, ci si inchina e si attraversa da sinistra a destra, tornando poi davanti all’anello recitando le seguenti parole:
蘇民将来 蘇民将来
Somin Shōrai Somin Shōrai
Ripetere più volte il nome di Somin Shōrai sembra sia visto come un modo per ottenere fortuna o successo, proprio come Somin fu in grado di sfuggire alla carestia che colpi il suo paese.
Infine, ci si inchina nuovamente, si attraversa l’anello e si procede al seguente anello che di solito si trova di fronte al luogo di preghiera del santuario.
Le frasi che vengono ripetute ad ogni passaggio sono dette tonaekotoba (唱え詞) e possono variare da regione a regione.
La purificazione con i katashiro durante il nagoshi no harae
I katashiro (形代), noti anche come hitokata (人形, bambole), sono figure simboliche a forma umana, tipicamente realizzate in carta, ma a volte anche in altri materiali. La loro forma e decorazione variano a seconda del loro scopo.
I katashiro, semplici oggetti di carta, rivestono un ruolo fondamentale nei riti di purificazione shintoisti. Questi sono un tipo di yorishiro (依代), ovvero rappresentazioni simboliche, che fungono da tramite tra l’individuo e il kami, assorbendo le impurità e le negatività che gravano sul primo. Attraverso il gesto di strofinare il katashiro sul proprio corpo o di soffiare su di esso, la persona trasferisce le proprie colpe (罪, tsumi) e le contaminazioni (穢れ, kegare) su questo sostituto, liberandosi simbolicamente dal loro peso. Il successivo getto del katashiro in acqua rappresenta l’allontanamento definitivo delle impurità, purificando l’individuo e ripristinando la sua armonia interiore.
Oltre al loro ruolo nella purificazione rituale, i katashiro trovano impiego anche in pratiche volte ad allontanare il maleficio e la sfortuna. In caso di periodi di negatività o sfortuna persistenti, un katashiro può essere utilizzato per assorbire le energie negative o prevenire ulteriori eventi avversi. Se si sospetta di essere vittima di una maledizione, la creazione di un katashiro come bersaglio alternativo può fungere da esca, attirando su di esso gli effetti malefici al posto della persona designata.
Inoltre, i katashiro possono assumere un ruolo centrale in incantesimi e maledizioni, sostituendo un bersaglio umano reale. In questi casi, la bambola di carta viene spesso annotata con il nome, la data di nascita e altre informazioni personali della persona che si desidera colpire. L’esecuzione dell’incantesimo sul katashiro indirizza gli effetti desiderati sulla persona reale rappresentata.
Nella tradizione shintoista, l’utilizzo dei katashiro per scopi malvagi, come maledizioni o incantesimi di negatività, è severamente sconsigliato. I katashiro, infatti, rivestono un ruolo sacro e purificatore, e il loro impiego per causare danno ad altri contraddice l’essenza stessa della spiritualità shintoista che pone grande enfasi sul rispetto e sulla compassione, valori che vengono profondamente violati da simili pratiche.
La pratica di purificazione utilizzando i katashiro affonda le sue radici nella storia giapponese, risalendo al periodo Nara e Heian (710-1185 d.C.). Testimonianze storiche attestano l’utilizzo di questi oggetti rituali come metodo tradizionale di purificazione sin da quell’epoca.
Durante il periodo Heian, un rituale chiamato “nanase no harai” (七瀬の祓え, letteralmente “purificazione delle sette maree”) veniva celebrato mensilmente a corte. Un maestro di divinazione Yin-Yang, noto come onmyōji, offriva un katashiro o hitokata all’imperatore, il quale soffiava su di esso e lo strofinava sul proprio corpo per trasferire simbolicamente le calamità che affliggevano il paese. Infine, il katashiro veniva gettato in mare o in un fiume, liberando così il paese da sfortune e negatività.
Ancora oggi, i katashiro trovano impiego in diverse cerimonie di purificazione, come il nagoshi no harae. In queste occasioni, i fedeli passano attraverso un anello rituale e utilizzano i katashiro per assorbire le proprie colpe, impurità e sfortune. Questi oggetti vengono poi purificati e gettati in acqua o bruciati in un rituale finale.
L’adattabilità dell’utilizzò rituale dei katashiro si manifesta anche in forme più moderne. In molti luoghi è possibile purificare le proprie automobili utilizzando dei katashiro a forma di auto, chiamati kuruma katashiro (車形代). Inoltre, sono recentemente comparsi katashiro pensati per gli animali domestici, dimostrando la capacità di questo rituale di evolversi e rispondere alle esigenze contemporanee.
Foto dell’autore. Isahaya Jinja, Nagasaki-ken
Durante la cerimonia di purificazione i peccati e le impurità accumulate nei primi sei mesi dell’anno possono essere purificati trasferendoli su un katashiro, hitokata attraverso due semplici gesti:
1. Si strofina il katashiro su tutto il corpo, prestando particolare attenzione alle zone dolenti o malate.
2. Infine, concentrandosi sull’intenzione di trasferire i peccati, le impurità e i dolori del corpo si soffia sul katashiro tre volte dicendo “fuuu“. Si ritiene che questo atto trasferisca sul katashiro tutti i peccati, le impurità e i dolori del corpo.
Come si vede nella foto i katashiro riprendono i cinque colori dello Shintō (verde, giallo, rosso, bianco e viola) tipici dei masakaki (真榊), i stendardi colorati che si vedono spesso appesi nei santuari.
A tutti i partecipanti del rituale di purificazione con il katashiro, viene dato un chi no wa mamori (茅の輪守り) un amuleto che deve essere riconsegnato al santuario durante il capodanno per esser bruciato.
Chi no wa mamori, Isahaya Jinja, Nagasaki-ken
Il minazuki, una dolce tradizione di Kyōto
Durante il periodo del nagoshi no harae, a Kyōto si può gustare un dolce speciale che prende il nome dal sesto mese dell’antico calendario lunare Giappone, il minazuki.
Nell’antico Giappone, durante il koori no sekku (氷の節句), la festa del primo gelo, i nobili di corte consumavano il ghiaccio conservato nelle ghiacciaie, le himuro (氷室), per augurare un’estate serena. Per la gente comune, però, il ghiaccio era un lusso inarrivabile. Ecco perché a Kyōto nacque il minazuki, un dolce che rievocava la freschezza del ghiaccio con la sua forma e il suo nome, “sesto mese”, e che veniva decorato con fagioli rossi, simbolo di buon auspicio.
Si dice che gustare il minazuki in questa occasione porti salute e fortuna per il resto dell’anno, motivo per cui è diventato un alimento rituale durante il nagoshi no harae.
Il nagoshi no harae è un’occasione per esprimere gratitudine per aver trascorso la prima metà dell’anno in salute e per pregare per un futuro altrettanto prospero. Si tratta di un evento ricco di significato, che ci permette di immergerci nelle tradizioni stagionali e di vivere appieno la bellezza di questo periodo. Attraverso rituali come il passaggio attraverso il chi no wa e mangiando il minazuki, possiamo celebrare la fine di una parte dell’anno e accogliere con gioia quello successivo.
Fin dai tempi antichi, i ponti hanno rappresentato punti fondamentali delle arterie vitali per le comunità, facilitando il commercio, la comunicazione e la vita quotidiana delle persone. Oltre a collegare sponde e territori, i ponti hanno assunto un ruolo simbolico, diventando custodi di storie, tradizioni e identità.
In questo articolo vi parlerò di un ponte di Kyōto che intreccia la sua esistenza con la leggendaria figura degli onmyōji (陰陽師), i maestri di arti divinatorie e magiche.
Il ponte ichijō modori a Kyōto, un luogo avvolto nel mistero
Nascosto tra le vivaci strade di Kyōto, l’ ichijō modoribashi (一条戻橋, il ponte Ichijō modori ) si erge discreto sul fiume Horikawa, un semplice ponte che cela una storia ricca di mistero e leggenda. La sua lunghezza di appena sei metri e la sua struttura ordinaria lo rendono quasi invisibile al flusso incessante dei cittadini, ma per chi conosce i segreti della città, questo piccolo ponte rappresenta un varco verso un mondo soprannaturale.
Si narra che sotto questo ponte si aggirino gli spiriti dell’antica capitale, sussurri del passato che si mescolano al rumore dell’acqua che scorre. L’ombra di Abe no Seimei (安倍晴明) il famoso onmyōji del periodo Heian, aleggia ancora su queste pietre, testimone di una battaglia epica contro demoni e forze oscure.
Abe no Seimei
Abe no Seimei fu una figura storica vissuta durante il periodo Heian e appartenente alla famiglia Abe. La leggenda lo dipinge come un sensitivo in grado di controllare gli shikigami (式神), esseri soprannaturali, e di scacciare gli spiriti maligni. Tuttavia, storicamente, fu un burocrate, appartenente all’Onmyōryō (陰陽寮), un dipartimento del Nakatsukasasho, che si occupava della compilazione di divinazione, astronomia, misurazione del tempo e calendari. Tra questi, il bokusen (卜占), traducibile approssimativamente in italiano come “divinazione”, era il più importante. Ad esempio, quando una nobildonna diventava consorte dell’imperatore, si trattava di un evento nazionale, e gli ufficiali dell’Onmyōryō ricorrevano alla divinazione per determinare la data propizia per il suo ingresso a palazzo.
Inoltre, al verificarsi di fenomeni strani, la gente comune, temendo potesse trattarsi di un presagio negativo, si affidava alla divinazione degli Onmyōji (陰陽師), ossia gli ufficiali dell’Onmyōryō. L’Onmyōryō inoltre si occupava di tutta una serie di questioni che erano, in passato, considerate dei tabù, come “Non fare questo in questo giorno”, “Non andare in questa direzione” e “Non celebrare un funerale in questo giorno”.
Inizialmente Abe no Seimei ricopriva la carica di tenmon hakasei (天文博士) occupandosi della redazione del calendario e allo studio dell’astronomia. Era noto comunque che anche chi ricopriva questa carica dedicasse molto tempo anche alla divinazione.
Taizan Fukun no Sai
Il Taizan Fukun no Sai (泰山府君祭) era considerato uno dei rituali onmyōdō più segreti e potenti. Era gelosamente custodito dalla famiglia di Abe e pochi altri ed era fortemente bramato da chi non ne era a conoscenza.
Con questo rituale si implorava Taizan (re degli inferi cinese), Re Enma e gli altri giudici del Meido (purgatorio) e dello Jigoku (inferno) di allungare la vita di una persona, salvarla dalla morte o addirittura riportare in vita i defunti. Venivano fatte offerte sotto forma di oro, argento seta o cavalli, o vite umane utilizzando i katashiro, o bambole di carte. Non esistevano delle formule particolari; si evocavano i servitori di queste entità invitandoli a sedere tra i partecipanti. Di seguito veniva consegnata loro una lettera contenente l’intervento richiesto.
Il seguente dipinto conservato presso il museo nazionale di Nara rappresenta una scena del Taizan Fukun no Sai. Sulla destra si possono vedere due servitori degli inferi apparsi grazie all’evocazione di Seimei.
Si tratta di una creazione successiva, e chiaramente non è accaduto nulla di così strano. Tuttavia, i nobili dell’epoca probabilmente credevano che le capacità di divinazione di Seimei fossero molto accurate proprio perché era un abile maestro di questo rituale.
In questo modo, Abe no Seimei si guadagnò la fiducia dei potenti dell’epoca ed ottenne il titolo di Onmyōdō daiichinininsha (陰陽道第一人者, “massimo esperto dell’Onmyōdō“). In quel momento, Seimei aveva già superato i 60 anni e si era già ritirato dall’Onmyōryō, ma anche dopo aver lasciato l’incarico, continuò a praticare la divinazione e la magia su richiesta personale dei nobili.
Abe no Seimei scrisse numerosi libri su divinazione e predizione del futuro, tra cui lo Senji Ryakketsu (占事略决), contenente seimila predizioni e trentasei tecniche di divinazione che utilizzano gli shikigami, ed adattò lo Hoki Naiden (ほき内伝), che descrive in dettaglio tecniche di divinazione segrete.
La fama di Abe no Seimei era tale che la sua famiglia mantenne il controllo dell’Onmyōdō fino alla sua chiusura nel 1869. Dopo la sua morte, le storie e leggende sulla vita di Seimei iniziarono a diffondersi rapidamente per centinaia di anni.
Abe no Seimei, la leggenda
La leggenda narra che Abe no Seimei possedesse poteri magici grazie alla sua provenienza da una stirpe ultraterrena. Si diceva infatti che sua madre fosse una kitsune, uno spirito volpe mutaforma, il che lo rendeva un mezzo yōkai.
Il padre di Seimei, Yasuana, durante una battuta di caccia si imbatté in una volpe bianca braccata dai cacciatori. Mosso da compassione, la salvò da quel destino crudele. La volpe, in segno di profonda gratitudine, si trasformò in una bellissima donna rivelando il suo vero nome: Kuzunoha. Innamoratasi di Yasuna, divenne sua moglie e gli diede un figlio, il piccolo Seimei.
Abe no Seimei: l’infanzia prodigiosa e il segreto della madre
Si narra che fin da piccolo, Abe no Seimei dimostrò di possedere doti straordinarie. Già all’età di cinque anni, la sua natura di mezzo yōkai si palesava in modo evidente: era in grado di soggiogare deboli oni e piegarli al suo volere. Un evento sconvolgente segnò la sua infanzia: Seimei vide sua madre, Kuzunoha, trasformarsi nella volpe bianca che suo padre aveva salvato anni prima. La donna, dopo avergli rivelato la sua vera identità, svanì nella foresta, lasciando il bambino solo con il padre.
Consapevole dei poteri immensi e del retaggio non umano di suo figlio, Kuzunoha affidò Seimei alle cure di Kamo no Tadayuki (賀茂 保憲), un maestro onmyōji. La speranza era che il saggio onmyōji potesse guidare il giovane Seimei verso un sentiero di rettitudine, evitando che il suo potere si corrompesse.
Abe no Seimei e le sfide con Chitoku Hōshi e Ashiya Dōman
Le abilità di Abe no Seimei attiravano numerosi rivali. Tra i suoi sfidanti, uno dei più noti era Chitoku Hōshi 智徳法師), che si dice essere dotato di eccezionali poteri. Spinto dall’ammirazione per le abilità di Seimei e dal desiderio di metterle alla prova, Chitoku escogitò un piano per ingannarlo. Travestitosi da umile viaggiatore, si recò presso la dimora dell’onmyōji e gli chiese di istruirlo nelle arti magiche.
Tuttavia, l’astuzia di Seimei non tardò a smascherare il travestimento di Chitoku. Con un colpo d’occhio, l’onmyōji riconobbe la vera natura dei due presunti servitori che accompagnavano il sacerdote: si trattava infatti di shikigami, abilmente camuffati da esseri umani.
Seimei, decise di stare al gioco con Chitoku, accettò di allenarlo, ma gli chiese di tornare il giorno seguente perché non era un buon giorno per iniziare. Chitoku, ignaro di tutto, se ne tornò a casa. Nel frattempo, Seimei sciolse il legame con entrambi gli shikigami, liberandoli dal controllo del rivale. Il giorno seguente, Chitoku si rese conto che i suoi servitori erano scomparsi e tornò da Seimei, chiedendogli di riavere gli shikigami. Seimei scoppiò a ridere, rimproverandolo con rabbia per aver tentato di ingannarlo.
Un altro famoso rivale di Abe no Seimei fu Ashiya Dōman (蘆屋道満). Dōman, onmyōji affermato ma ormai attempato, era convinto di non avere rivali nella sua arte. Quando seppe del giovane Seimei e del suo talento prodigioso, lo sfidò a un duello magico per dimostrare la sua superiorità.
All’ombra degli alberi secolari dei giardini imperiali, Dōman e Seimei si apprestarono a dar vita a un prodigioso duello di magia. Dōman, raccolse una manciata di sabbia dorata e la infuse con la sua energia mistica. I granelli si sollevarono nell’aria come per magia, trasformandosi in una miriade di rondini che iniziarono a svolazzare tra le fronde degli alberi. Seimei, aprì il suo ventaglio e lo agitò. Le rondini, come ipnotizzate, si raggrupparono e si disintegrarono, tornando ad essere i semplici frammenti di terra da cui erano state create.
Seimei recitò allora un incantesimo. Un drago apparve nel cielo sopra di loro. La pioggia iniziò a cadere tutt’intorno. Dōman pronunciò a sua volta un incantesimo, ma per quanto ci provasse, non riuscì a far svanire il drago. Anzi, la pioggia divenne sempre più intensa, inondando il giardino. Infine, Seimei lanciò nuovamente il suo incantesimo. La pioggia cessò e il drago scomparve.
La terza e ultima sfida consisteva in una prova di divinazione: i contendenti dovevano indovinare il contenuto di una scatola di legno. Dōman, indignato per aver perso il round precedente, sfidò Seimei: “Chiunque perda questa sfida diventerà il servo dell’altro!” Dōman dichiarò con sicurezza che all’interno della scatola c’erano 15 arance. Seimei lo contraddisse, affermando che nella scatola c’erano 15 topi. L’imperatore e i suoi servitori che avevano preparato la prova scossero la testa, poiché avevano messo 15 arance nella scatola. Annunciarono quindi la sconfitta di Seimei. Tuttavia, quando aprirono la scatola, ne saltarono fuori 15 topi. Seimei non solo aveva indovinato il contenuto della scatola, ma aveva anche trasformato le arance in topi, ingannando Dōman e l’intera corte ottenendo la vittoria.
Dōman continuò a covare rancore nei confronti di Abe no Seimei continuando a tramare contro di lui. Sedusse la moglie di Seimei e la convinse a rivelargli i segreti magici del marito. La donna gli mostrò lo scrigno di pietra in cui Seimei custodiva l’Hokinaiden, il suo libro di incantesimi, passato di generazione in generazione fino ad arrivare a Seimei.
Una notte, al ritorno a casa, Seimei incontrò Dōman che gli disse di essere entrato in possesso del suo libro di magia. Seimei lo derise, affermando che era impossibile, talmente impossibile, che se vera avrebbe potuto tagliargli la gola. Dōman, mostrò il libro e Seimei, che capendo di essere stato tradito dalla moglie, gli offrì la gola. Dōman la tagliò con gioia e Seimei morì.
Sentendo la scomparsa del grande stregone, Hokudō attraversò il mare dalla Cina fino in Giappone. Qui, raccolte le ossa di Seimei, compì un prodigio riportandolo in vita. Insieme, i due si prepararono a vendicarsi di Dōman e della ex moglie di Seimei, ora sposata proprio con l’assassino.
Hokudō si recò direttamente nell’abitazione di Seimei, dove ora viveva Dōman con la sua nuova consorte e chiese se Abe no Seimei fosse in casa. Dōman rispose che purtroppo Seimei era stato assassinato tempo addietro. Hokudō disse che non era possibile, poiché aveva incontrato Seimei quel giorno stesso. Dōman scoppiò a ridere e disse: “Se davvero fosse vivo, potrebbe tagliarmi la gola!”. Fu in quel momento che la voce di Seimei echeggiò nell’abitazione, seguito dalla sua stessa apparizione. Senza indugio, Seimei, giustiziò Dōman e la sua ex moglie con un solo colpo.
Durante uno dei miei soggiorni studio in Giappone e in seguito durante un viaggio di piacere con mia moglie, ho avuto l’occasione di attraversare questo ponte, attratto da un’inquietante curiosità.
L’ ichijō modori è più di un semplice ponte: è un portale verso un’altra realtà, un luogo dove la storia e la leggenda si intrecciano indissolubilmente, creando un’atmosfera magica e suggestiva che cattura l’immaginazione.
Il ponte è posizionato lungo il fiume Horikawa, dove la via ichijō-doori (一条通) si snoda da est a ovest all’estremità settentrionale di Kyōto. La sua costruzione risale all’epoca della costruzione di Heiankyō (平安京, 794), uno dei nomi che precedettero l’attuale Kyōto. Si dice che il fiume Horikawa fosse un canale concepito per portare acqua pura alle ville dei nobili presenti in quella zona. Nonostante le numerose ricostruzioni, il ponte ha conservato la sua posizione originaria, simbolo di una continuità che sfida il tempo. Il ponte e la stessa via ichijō, oltre a segnare il confine tra la capitale e il mondo esterno, erano considerati metaforicamente come la linea di demarcazione tra questo mondo e l’altro, un varco verso l’ignoto.
Il nome originale del ponte era tsuchimikado-bashi (土御門橋). Come riportato nel genpei seisuiki (源平盛衰記), una delle varianti dell’ Heike monogatari (平家物語), sembra che Abe no Seimei, che viveva in una villa sul lato occidentale del ponte, fosse solito sigillare gli shikigami (式神, gli spiriti evocati) che utilizzava, sotto il ponte perché “aveva paura di fare arrabbiare la moglie” e li evocasse quando necessario. Gli shikigami sono spiriti al servizio gli onmyōji. Sembra che svolgessero il ruolo di giudicare le cattive e le buone azioni che scaturiscono dal cuore degli uomini.
Seimei Jinja
A pochi passi dal ponte si erge il Seimei-jinja (晴明神社), un santuario shintoista dedicato ad Abe no Seimei. All’interno del santuario, alcune iscrizioni raccontano che un tempo il ponte si trovava all’estremità nord-orientale di Heiankyō, in una zona chiamata kimon (鬼門), letteralmente “porta dei demoni”. Questa collocazione ha probabilmente alimentato la leggenda che narra di un collegamento tra questo mondo e l’aldilà.
Nella tradizione dell’onmyōdō (陰陽道), la via dello yin e dello yang, la direzione nord-est, ushitora (艮), è considerata infausta e da evitare. Associata all’ingresso e all’uscita dei demoni malvagi, questa zona è ritenuta un concentrato di energie negative e un varco per creature ultraterrene. Per questo motivo, viene spesso chiamata anche kihō (鬼方), “direzione dei demoni”.
Il santuario, che sembra sia stato costruito nel 1007, sul suolo della sua dimora di Abe no Seimei, per volere dell’Imperatore Ichijō in onore delle sue imprese, reca sul portale principale non il nome del famoso onmyōji, ma il gobōsei (五芒星), il pentagramma, uno dei talismani di Seimei cosciuto con il nome di Seimei Kikyō (晴明紋). Questo simbolo legato inizialmente alla famiglia Abe diventerà in seguito il simbolo ufficiale dell’Onmyōryō. Il santuario offre protezione da demoni e malefici, spiriti maligni e calamità. Seimei infatti era considerato come una sorta di guardiano protettore della capitale dai disastri provenienti dalla porta dei demoni.
All’interno del santuario c’è anche un pozzo la cui acqua si dice sgorghi grazie alla forze spirituale dell’onmyōji. Si dice che abbia il potere di guarire le malattie e l’acqua che sgorga può essere bevuta ancora oggi. Il punto in cui sgorga l’acqua è rivolto verso la ehō (恵方), “direzione fortunata” dell’anno in corso, in modo da ottenere acqua propizia. La “direzione fortunata” cambia ogni anno, quindi nel giorno di Risshun (inizio della primavera), il coperchio viene posto in quella direzione.
Il nome del ponte si crede derivi da un misterioso evento avvenuto durante il 18 anno dell’era Engi (918), quando il corteo funebre di un nobile filosofo giapponese di nome Miyoshi Kiyotsura (三善 清行) lo attraversò. La leggenda narra che il figlio di nome Jōzō, un monaco buddista che si trovava in pellegrinaggio a Kumano nella provincia di Kii, si precipitò sul posto e si aggrappò alla bara recitando sutra. All’improvviso, il cielo si oscurò, tuonò e Kiyotsura resuscitò temporaneamente e parlò con Jōzō. Questo è ciò che è registrato nella raccolta di storie buddiste di periodo Kamakura conosciuta come Senjūshō (撰集抄). Da allora, il ponte è stato chiamato ichijō modoribashi, il ponte dove l’anima ha fatto ritorno.
In realtà, come riportato nei testi custoditi nel santuario, esiste anche una leggenda sulla resurrezione dello stesso Seimei. Fu sconfitto e ucciso in una battaglia contro il suo rivale onmyōji Ashiya Doman, ma il suo maestro dalla Cina venne in Giappone e lo riportò in vita con una tecnica di resurrezione. Anche questo ha aumentato l’alone di mistero e ha dato vita a varie leggende.
Una famosa storia di demoni che ha come scenario il ponte è quella di Watanabe no Tsuna (渡辺綱), raccontata nello Heike Monogatari. Valoroso generale del periodo Heian e contemporaneo di Abe Seimei durante il suo servizio presso Minamoto no Yorimitsu, stava attraversando il ponte Modorihashi di notte quando incontrò una bella donna misteriosa che gli chiese di accompagnarla a casa. Quando Tsuna accettò e la donna cercò di attirarlo fuori dalla città, si trasformò in un demone. Tsuna la uccise tagliandole il braccio con la sua famosa spada higekiri (髭切), donata da Yorimitsu.
Scontro riportato all’interno dell’Heike Monogatari tra Watanabe no Tsuna e il demone sullo sfondo dell’Ichijō Modoribashi. Fonte: www.arc.ritsumei.ac.jp
Anche la figura di Minamoto no Yorimitsu (源 頼光) è legata a diverse leggende su demoni e spiriti accadute presso il medesimo ponte. Conosciuto anche con il nome di Minamoto no Raikō, fu un noto militare giapponese. La sua figura storica si mescola alla leggenda per quanto riguarda le vicende del capo dell’esercito dei demoni shutendoji (酒呑童子) e del ragno gigante tsuchigumo (土蜘蛛).
Durante il turbolento sengoku jidai (戦国時代, periodo degli stati combattenti), i suoi pilastri divennero macabri patiboli, per esibire i corpi di criminali condannati a monito per la popolazione. Tra le figure più illustri si annovera il monaco buddista Sen no Rikyū (千利休) , maestro della cerimonia tè elevato a rango di consigliere da Toyotomi Hideyoshi, ma poi caduto in disgrazia e costretto a compiere seppuku. La sua testa, recisa dopo la morte, sarebbe stata esposta proprio sul Modoribashi.
Al contrario, durante la Seconda Guerra Mondiale, soldati in procinto di partire per il fronte, insieme alle loro famiglie, attraversavano il ponte pregando per un loro ritorno sicuro.
Il ponte Modoribashi è anche il luogo dove Toyotomi Hideyoshi ordinò di mozzare i lobi delle orecchie ai 26 martiri cristiani del Giappone, prima di mandarli a Nagasaki per quella che sarebbe stata ricordata come la più grande crocifissione di massa nella storia giapponese. Fu inteso come un monito, come parte della campagna di Hideyoshi contro il Cristianesimo.
A dimostrazione del fascino intramontabile che esercita, la figura di Abe no Seimei, continua ad ispirare artisti e appassionati di tutto il Giappone, come testimonia l’ asteroide a lui dedicato e l’omaggio del pattinatore Yuzuru Hanyu nel suo programma di pattinaggio olimpico.
Prima di parlare del shinishōzoku mi permetto una breve introduzione sul concetto di morte, di aldilà e di fantasma nella cultura giapponese.
La morte e l’oltretomba nella cultura giapponese
Nella tradizione giapponese, la morte assume un ruolo centrale, quasi equiparabile all’importanza della vita stessa. Il trapasso segna l’inizio di un viaggio spirituale verso l’aldilà, dove l’anima del defunto si avventura nello yominokuni (黄泉の国), l’oltretomba shintoista, o nell’ anoyo (あの世), la terra pura del Buddhismo. Tuttavia, questo percorso non è privo di insidie: ostacoli e difficoltà possono intrappolare lo spirito, condannandolo a vagare come uno yūrei (幽霊), un fantasma tormentato, figura che ricorre frequentemente nel folklore giapponese.
Intrappolate in un limbo tra l’esistenza terrena e l’aldilà, queste figure tormentate hanno assunto un ruolo di primaria importanza nell’immaginario nipponico, divenendo protagoniste di innumerevoli storie e leggende permeando con la loro presenza la cultura popolare giapponese.
Tormentati da un’eterna inquietudine, gli yūrei sono gli spiriti di coloro che non hanno trovato pace dopo la morte. Spesso li si vede vagare alla ricerca di vendetta o punizione per i torti subiti in vita. La tradizione shintō insegna che dentro di noi risiede un kami, simile all’anima che pervade il nostro corpo fisico. Al cessar della vita, il kami si libera dalla sua veste terrena.
Questo spirito deve raggiungere l’aldilà, ma il viaggio può essere arduo. Per questo motivo, in Giappone, quando un membro della famiglia muore, i parenti in vita devono vegliare sul defunto, aiutarlo e accompagnarlo nel suo viaggio verso l’aldilà attraverso specifici rituali, detti kuyō (供養). Una volta superati tutti gli ostacoli per raggiungere l’aldilà, questo antenato veglierà a sua volta sui suoi discendenti sulla terra per proteggerli da qualsiasi sventura.
Tuttavia, coloro che hanno subito una morte innaturale, lasciando questioni aperte o non avendo avuto un funerale adeguato, potrebbero rimanere intrappolati tra la vita e la morte. Di conseguenza, gli yūrei sono queste anime tormentate, definite come disconnesse, che non troveranno pace finché non risolveranno i loro problemi terreni.
Il termine yurei deriva dalla combinazione di due kanji: 幽 (yū), che significa “oscuro” o “tenebroso”, e 霊 (rei), che significa “anima” o “spirito”. Un yūreigeneralmente assume una forma umana priva di piedi e fluttua nell’aria. Inoltre, è caratterizzato da lunghi capelli neri e indossa un kimono bianco, simile a quelli utilizzati durante i riti funebri. Può presentare anche delle deformità, in quanto conserva l’aspetto che aveva al momento del decesso.
Nella cultura giapponese, la collera dei defunti che non riescono a trovare riposo è sempre stata fonte di timore. Per tale ragione, ogni volta che un imperatore decedeva, si rendeva necessario il trasferimento in un nuovo palazzo, poiché si credeva che lo yūrei del precedente imperatore potesse tormentare il suo successore.
Lo stesso discorso valeva per un celebre rituale suicida, il seppuku (切腹): quando un samurai subiva una sconfitta in battaglia, gli era concessa la possibilità di morire “con dignità”, non per mano del nemico, ma per sua stessa mano. In questo modo, si credeva di evitare anche la potenziale comparsa di uno yūrei vendicativo dopo la sua morte.
Il kimono bianco che la maggior parte dei giapponesi indossa al momento della sepoltura è chiamato kyōkatabira (経帷子). La parola stessa è composta da due kanji: kyō in riferimento ai sutra buddisti e katabira (帷子) che indica un kimono leggero senza fodera, che veniva indossato in occasioni informali, spesso in casa.
Nato dalla fibra grezza della canapa, il katabira trovò la sua ascesa durante il periodo Heian (794-1185). In questo periodo, il bianco del katabira assunse un significato più profondo, divenendo espressione di un connubio tra le tradizioni shintoiste e buddiste. L’imperatore, durante le cerimonie sacre, sfoggiava un byakue (白衣), un kimono bianco di seta, mentre i sacerdoti shintoisti adottarono un abito simile, il jōe (浄衣), che significa “abito purificato”. Ancora oggi, le spose nel giorno delle nozze velano la loro bellezza con uno shiromuku (白無垢), un kimono bianco simbolo di purezza immacolata.
I preti buddisti, in contrapposizione alle sete pregiate del byakue e del jōe, preferirono la canapa grezza per i loro abiti, dando vita al kyōkatabira. Questo katabira, recante incisi sutra buddisti, divenne l’indumento distintivo dei pellegrini buddisti durante i loro viaggi in Giappone, simboleggiano la purezza e la dedizione al loro cammino spirituale.
Bianco, il colore della purezza
Nel paese del sol levante, il bianco domina la scena dei funerali. Ma perché questa scelta cromatica? Le ragioni si intrecciano con la tradizione e la simbologia. Il bianco, emblema di purezza e distacco dal mondo terreno, si contrappone al rosso, simbolo di vita e vitalità, secondo il principio del kōhaku (紅白). Un binomio che accompagna il defunto nel suo passaggio verso l’aldilà.
Come ho già scritto in altri articoli, il bianco rappresenta da tempo immemore la purezza, in particolare quella rituale. Lo Shintō pone grande enfasi sulla pulizia e la purificazione. Infatti, in molti santuari shintoisti troviamo un luogo dedicato alle abluzioni, un rito da compiere prima di entrare.
La purezza rituale va oltre il semplice bagno, seppur parte importante della tradizione giapponese. Per raggiungerla, è necessario liberarsi dal kegare (穢れ), le “impurità”, attraverso una serie di riti specifici condotti da un sacerdote. Il kimono bianco, simbolo visibile di purezza, è riservato a tre categorie: sacerdoti, spose e defunti (veniva indossato anche da chi si apprestava a commettere il seppuku).
Il bianco è anche il colore associato agli yūrei, i fantasmi.
L’abito dei defunti
Come abbiamo già approfondito diverse volte all’interno del nostro blog, il Buddismo arrivò in Giappone intorno al VII secolo d.C. e trovò terreno fertile per diffondersi. Incontrando lo Shintoismo, religione già radicata nel paese, diede vita a un sincretismo unico (神仏習合, shinbutsu-shūgō), ben distinto dalle sue origini.
Nel corso dei secoli, shintoismo e buddismo si separarono, assumendo ruoli differenti: i kami dello shintoismo proteggono i viventi, mentre le divinità buddiste si prendono cura delle anime dei defunti. Il buddismo divenne così protagonista dei riti funebri, tradizione che ancora oggi caratterizza la cultura giapponese.
Nella tradizione buddista, la morte non segna la fine, ma l’inizio di un nuovo ciclo di esistenza (輪廻転生, rinne-tensei). In Giappone, i fedeli buddhisti onoravano questa credenza vestendo i defunti come fossero dei pellegrini in procinto di intraprendere il loro ultimo viaggio, conosciuto come li shidenotabi (死出の旅), letteralmente “il viaggio finale verso la morte”. L’abito indossato, lo shinishōzoku (死装束), aveva un significato preciso: “l’abito di chi va incontro alla morte”.
Lo shinishōzoku
Tutti gli elemento che compongono lo shinishōzoku, l’abito tradizionale buddista per i defunti in Giappone, hanno un significato simbolico preciso.
Il kyōkatabira, conosciuto anche come shirokatabira (白帷子), un kimono bianco, rappresenta la purezza del defunto. I sutra scritti all’interno offrono preghiere per il suo passaggio nell’aldilà. Guanti (手甲, tekkō) e ghette (脚絆, kyahan) proteggono il corpo durante il viaggio. Un cappello di paglia (網笠, amigasa) protegge dal sole, mentre calzini (足袋, tabi) e zoccoli (草履, zōri) facilitano il cammino. Un bastone (杖, tsue),nella mano dominante, offre sostegno al defunto e il juzu (数珠), nell’altra mano. Una borsello detto sudabukuro (頭陀袋) contiene sei monete di carta conosciute come rokumonsen (六文銭) per il pagamento per il traghetto sul fiume Sanzu (三途の川), che conduce nell’aldilà. Sulla fronte viene posto un panno bianco triangolare detto tenkan (天冠).
Si dice che i monaci scrivessero le scritture per cancellare i peccati commessi in vita e per ottenere una buona illuminazione. Le donne della famiglia del defunto si riunivano per cucire a mano il kyōkatabira. C’erano delle regole ben precise: non si potevano usare lame per tagliare il tessuto, non si potevano usare spille da balia e non si potevano fare nodi con il filo.
Nella tradizione giapponese, la piegatura di yukata e kimono segue una regola precisa: “sinistra su destra” per i vivi, “destra su sinistra” per i defunti. Mia moglie mi ha spiegato che questa tradizione deriva dal passato quando il modo in cui si piegava il kimono era un modo visibile per mostrare il proprio rango sociale. Le persone di corte erano solite piegare il kimono sinistra su destra mentre le persone comuni, specialmente i lavoratori per favorire i movimenti, erano soliti piegarlo da destra su sinistra.
Mi preme ricordare che lo shinishōzoku qui sopra descritto appartiene alla tradizione giapponese e non è detto che sia mandatoriamente seguito al giorno d’oggi. A volte viene fatto indossare al defunto sotto gli abiti da lui preferiti mentre era in vita.
Nelle cerimonie funebri shintoiste, la consuetudine prevede l’utilizzo di una manica corta bianca e dello shaku (笏,il bastone cerimoniale), richiamando l’abbigliamento dei sacerdoti shintoisti prima della deposizione nella bara. Tale pratica trova la sua origine nella tardiva legittimazione dei funerali shintoisti, risalente al periodo Meiji, che ha portato all’appropriazione di diverse tradizioni buddhiste preesistenti dalle quali lo shintoismo ha attinto.
Il tenkan
Che cos’è il tenkan?
Il tenkan è un elemento iconico della rappresentazione dei fantasmi nella cultura giapponese. La sua forma triangolare e il suo colore bianco sono spesso associati a concetti di morte, spiritualità e purificazione. Tuttavia, il significato preciso del tenkan può variare a seconda del contesto e della storia in cui viene utilizzato.
In alcune regioni è chiamato anche zukin (頭巾), hitaieboshi (額烏帽子) o kamikakushi (髪隠し). Fa parte del vestito funebre indossato dal defunto.
Il tenkan che cinge la loro fronte può essere interpretato come una benda o una copertura per una ferita ricevuta al momento del decesso, oppure come un simbolo del trauma e della sofferenza patiti durante la loro vita terrena e rappresenta un elemento chiave nella tradizione funeraria giapponese. Le sue funzioni e il suo simbolismo sono molteplici, come testimoniano le diverse interpretazioni che ne emergono.
Un segno di rispetto verso il Re Enma, figura venerata nell’oltretomba che giudica le anime dei dannati e assegna loro la pena che si sono meritati con le azioni compiute durante la loro vita
Un mezzo per proteggere i defunti dalle forze oscure dell’inferno
Un emblema di status sociale, che conferisce al defunto un’identità aristocratica nell’aldilà
Il significato del termine tenkan non si riferisce esclusivamente alla striscia di stoffa bianca a forma di triangolo. Anche il copricapo indossato dalle bambole Hina viene chiamata tenkan, così come un elemento del costume del teatro No. Nel teatro No, il tenkan sembra essere utilizzato per i personaggi di alto rango o per rappresentare divinità e creature celesti.
Sotto questa luce, il tenkan indossato dai defunti potrebbe rappresentare il desiderio degli antichi di “inviare i propri cari nell’aldilà con un aspetto nobile”.
Il delicato atto di vestire il defunto con il kimono funebre rappresenta un momento cruciale nel complesso rituale funebre giapponese. Questa pratica, carica di simbolismo e significato culturale, assume due forme principali: la vestizione preliminare durante la pulizia del corpo in ospedale e la vestizione definitiva al momento della chiusura della bara, in presenza di familiari e parenti.
La modalità di vestizione può variare: in alcuni casi, il kimono viene indossato correttamente, inserendo le braccia nelle maniche del defunto, mentre in altri viene semplicemente steso sul corpo. In alcune regioni, persiste la superstizione di vestire il defunto al rovescio, come a voler sottolineare il passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti.
Ogni aspetto di questo rituale, dalla scelta del kimono al modo in cui viene indossato, è permeato di profondo significato e riflette il profondo rispetto e la cura che la cultura giapponese riserva ai propri defunti.
In passato si credeva che gli spiriti dopo la morte siano masse di luce bianca e questo sembra abbia portato all’ associazione del kimono funebre al bianco degli spiriti. Inoltre, l’idea che i fantasmi indossano il kimono funebre si è diffusa nella società perché nelle storie di fantasmi e nelle rappresentazioni kabuki, i morti sono rappresentati indossando un kimono funebre per essere facilmente identificati come tali.