Autore: francesco baldessari

  • Can you share your insights on the historical importance of rice in Japan, including its use as a currency in the 7th century? (Italian follows)

    To answer this question, I had to do some research, and, as it often happens, I gained an unexpected reward: I understood the true role and, therefore, the true importance of rice in history. I learned something important—it turns out rice was always scarce because it was expensive to produce, so much so that it was often used as currency, particularly but not only in the Edo period. The Tokugawa used also metal currency, but rice was the base of its economy.

    Rice and other grains together had an enormous economic impact on Japan, leading to great changes in all aspects of life and production. The easiest way to appreciate the magnitude of this shift is to remember that until rice’s arrival in 300 BCE, the Japanese were primarily hunters and gatherers. Within the next few hundred years, the population would treble, towns and a bureaucracy would emerge, society would acquire complexity, and clans would form, with one of them ruling over a nation for the first time. None of this would have been possible without one or more crops capable of leaving a surplus that can be stored almost indefinitely.

    This is an essential stage for any civilization in any environment. However, relying on several grains rather than just one is more advantageous. Australia’s Aborigines are a prime example of what happens when this fundamental step cannot be made: all the intellectual resources of the community are dedicated to survival.

    These grains were not native and had to be imported, and their cultivation learned. Although rice is enormously productive, it requires a range of complex skills, from those necessary to manage water flow (since it is an aquatic plant , it requires canals, sluices, dikes, water pumps, and so forth) to those needed to store it for long periods. Together with other crops, and not alone, rice therefore caused a revolution. The complexities of production led to the birth of clans, originally organization dedicated to agricultural production. In their turn, clans defined the history of Japan

    Production was expensive even in medieval times and until the Edo period, peasants and lower-class people could produce rice but not eat it. People mostly ate other grains like millet and barley, and even samurai didn’t eat it daily.

    Rice as currency in Edo times

    The statement that the Tokugawa shogunate replaced coins with rice and made it a form of currency is a simplified way of explaining a complex economic system.

    The Tokugawa shogunate based much of its economic system on rice rather than minted coins. Rice was the primary measure of wealth and a key component of the feudal economy. Each feudal domain (han) was assessed on the basis of its rice production capacity, measured in koku (石). One koku was defined as the amount of rice sufficient to feed one person for a year (approximately 180 liters). The wealth and status of a domain were expressed in terms of how many koku it could produce annually.

    Rice played an essential role in taxation and payments. The shogunate and feudal lords (daimyo) taxed peasants in rice, not coins. Peasants had to give a portion of their rice harvest to the local daimyo as a form of tax. Similarly, samurai were paid in rice stipends and not coins, just as Roman soldiers were paid in salt which they would use to support themselves and their retainers. This system is often referred to as a rice economy because rice was used in place of money in many economic transactions.

    While rice was the primary measure of wealth and a key form of payment, the Tokugawa period did see the use of coins, but these were often in limited circulation compared to rice.

    In major cities like Edo (modern-day Tokyo) and Osaka, rice became a commodity that could be traded in specialized markets called kome ichi (米市, rice markets). These markets facilitated the buying, selling, and even speculating of rice as if it were a currency.currency.

    Production after the Edo period increased, but only after WWII did rice really become affordable to all.

    Potresti spiegare, perché il riso ha avuto un ruolo così importante nella cultura giapponese e perché è stato usato come denaro?

    Per rispondere a questa domanda, ho dovuto fare qualche ricerca e, come spesso accade, ne ho ricevuto una ricompensa inaspettata: ho compreso il vero ruolo e quindi la vera importanza del riso nella storia. Ho imparato qualcosa di fondamentale: il riso è sempre stato scarso perché costoso da produrre, al punto che veniva spesso usato come moneta, in particolare – ma non solo – durante il periodo Edo. I Tokugawa usavano anche monete metalliche, ma fu il riso la base della loro economia.

    Il riso, insieme ad altri cereali, ebbe un impatto economico enorme sul Giappone, portando a grandi cambiamenti in ogni aspetto della vita e della produzione. Il modo più semplice per comprendere la portata di questo cambiamento è ricordare che, fino all’arrivo del riso intorno al 300 a.C., i giapponesi erano prevalentemente cacciatori e raccoglitori. Nei secoli successivi, la popolazione si triplicò, nacquero città e una burocrazia, la società si fece più complessa e si formarono i clan, uno dei quali finì per governare la nazione per la prima volta. Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza una o più colture capaci di produrre eccedenze conservabili a lungo.

    Questo è uno stadio essenziale per qualunque civiltà, in qualunque ambiente. Tuttavia, è ancora più vantaggioso potersi basare su diversi cereali, anziché su uno solo. Gli aborigeni australiani sono un esempio evidente di cosa accade quando questo passaggio fondamentale non può essere compiuto: tutte le risorse intellettuali della comunità sono dedicate alla sola sopravvivenza.

    Questi cereali non erano originari del Giappone e dovettero essere importati, e la loro coltivazione appresa. Anche se il riso è una pianta estremamente produttiva, richiede una gamma di competenze complesse: dalla gestione delle acque (essendo una pianta acquatica, servono canali, chiuse, argini, pompe e così via) fino alla sua conservazione a lungo termine. Insieme ad altre colture, e non da solo, il riso ha dunque innescato una rivoluzione. Le complessità della sua produzione portarono alla nascita dei clan, che all’origine erano organizzazioni dedicate alla produzione agricola. Furono poi questi stessi clan a definire la storia del Giappone.

    La produzione era costosa anche in epoca medievale e, fino al periodo Edo, i contadini e le classi popolari potevano produrre riso, ma non permettersi di mangiarlo. L’alimentazione comune era basata su altri cereali, come miglio e orzo, e persino i samurai non lo mangiavano tutti i giorni.


    Il riso come moneta in epoca Edo

    Affermare che lo shogunato Tokugawa sostituì le monete con il riso rendendolo una forma di moneta è un modo semplificato di descrivere un sistema economico complesso.

    Lo shogunato Tokugawa fondò gran parte del suo sistema economico sul riso più che sulle monete coniate. Il riso era la principale unità di misura della ricchezza e un elemento chiave dell’economia feudale. Ogni dominio feudale (han) veniva valutato in base alla sua capacità produttiva di riso, misurata in koku (石). Un koku era definito come la quantità di riso necessaria a nutrire una persona per un anno (circa 180 litri). La ricchezza e il prestigio di un dominio venivano espressi in base a quanti koku riusciva a produrre annualmente.

    Il riso aveva un ruolo essenziale nella tassazione e nei pagamenti. Lo shogunato e i signori feudali (daimyō) tassavano i contadini in riso, non in monete. I contadini dovevano cedere una parte del raccolto al daimyo locale come forma di imposta. Allo stesso modo, i samurai venivano pagati con stipendi in riso, non in monete — proprio come i soldati romani venivano pagati in sale, con cui poi mantenevano sé stessi e i propri servitori. Questo sistema è spesso chiamato “economia del riso” perché il riso sostituiva la moneta in molte transazioni economiche.

    Sebbene il riso fosse la principale misura della ricchezza e forma di pagamento, durante il periodo Tokugawa si usavano anche monete, ma queste avevano una circolazione limitata rispetto al riso.

    Nelle grandi città come Edo (l’attuale Tokyo) e Ōsaka, il riso divenne una merce che poteva essere scambiata nei mercati specializzati chiamati kome ichi (米市, mercati del riso). In questi mercati il riso veniva comprato, venduto e persino oggetto di speculazione, come fosse una vera e propria moneta.


    La produzione aumentò dopo il periodo Edo, ma solo dopo la Seconda guerra mondiale il riso divenne davvero accessibile a tutti.

  • Il posto di Dio nella vita dei giapponesi

    Hellisotherppl666 | Nure-onna ぬれ女 from Bakemono no e scroll Unknown artist  Edo period #nureonna #yokai #ukiyoe #obake #bakemono | Instagram

    Beh, se l’idea di Dio che hai in mente è quella del Dio cristiano, allora in Giappone non c’è posto per lui. I giapponesi non credono in un unico Dio al centro della realtà, che impone una morale universale. Credono invece che ci siano spiriti in ogni cosa — e che in qualche modo bisogna fare i conti con questi spiriti. Bisogna tenere conto della loro volontà, delle loro preferenze, dei loro umori. Potrebbero non gradire quello che stai facendo — oppure, al contrario, approvarlo.

    In altre parole, il mondo è vivo, e tutto ciò che esiste ha una volontà e uno scopo. È per questo che bisogna prestare attenzione a ciò che accade intorno a noi. E i giapponesi si relazionano con gli spiriti solo quando ne hanno bisogno. Se non hanno bisogno di nulla, in genere non lo fanno.

    Questo è il punto: in Giappone, la religione, così come la intendiamo noi, non esiste davvero. Esistono solo spiriti, ciascuno con una propria vita e una propria volontà.

    Vicino a casa mia c’è un piccolo negozio che vende oggetti usati. A me e ad altri stranieri piace molto — è pieno di cose interessanti — ma i giapponesi non ne sono entusiasti. Mia moglie, per esempio, dice che tutte le cose che porto a casa da lì 「宿ってる」 — c’è qualcosa di vivo dentro — e preferisce non avere a che fare con qualsiasi cosa sia.

    Ricordo una volta in cui avevo alcune statue africane nella mia stanza. Le portai al piano di sotto, nella stanza dove si trova il butsudan, l’altare in cui vivono i suoi antenati. Lei riportò subito le statue di sopra, dicendo che non era una buona idea mettere spiriti africani e spiriti giapponesi nella stessa stanza.

    I morti sono tutta un’altra categoria.

    Non sono semplicemente spiriti che vagano — sono parte della tua famiglia, anche se sono morti da decenni. Hai delle responsabilità nei loro confronti. Li nutri, parli con loro, mostri loro le cose. Spieghi cosa sta succedendo nella tua vita. Tieni accesa una luce, letteralmente, affinché non si sentano abbandonati. Non sono solo ricordati — sono presenti.

    Nel caso di mia moglie, i suoi genitori vivono nel butsudan. Ogni mattina porta loro del cibo, suona una campanella per salutarli e a volte si scusa con loro. Se compra qualcosa di nuovo, glielo mostra. Se succede qualcosa di brutto, glielo racconta. È una relazione quotidiana — non fede, non preghiera, non adorazione, ma continuità.

    Una volta, per esempio, mia moglie stava avendo dei problemi al lavoro. Tornata a casa, me ne parlò, e poi aggiunse:

    «A volte penso che sia colpa di mio padre. Non pulisco la sua tomba da tanti anni, magari è arrabbiato».

    Poi però si fermò e si rassicurò da sola:

    «No… papà non è così. Non è il tipo di persona che si arrabbierebbe per una cosa del genere».

    Questo mostra come anche gli spiriti di famiglia possano essere, a volte, una fonte di timore. Bisogna stare attenti, e dare loro ciò che desiderano. Questo è, in fondo, ciò che voglio dire.

    Un mio amico ha un punto di vista diverso. Spesso mi dice di essere preoccupato per suo padre, che è morto, perché i suoi figli vivono all’estero e non potranno prendersi cura della tomba. Anche questo dimostra che gli spiriti — persino quelli di famiglia — possono diventare motivo di inquietudine. Bisogna essere rispettosi, presenti, e assicurarsi di non abbandonarli.

    Ed è proprio qui che sta la differenza. La spiritualità giapponese non è un sistema di credenze, ma un sistema di relazioni — con i luoghi, con gli oggetti, con gli antenati, con le presenze invisibili che ci circondano.

    In questo senso, il Giappone non è un paese secolare. È qualcosa di molto più antico: un luogo in cui il mondo è ancora vivo.


  • Perché Kansai e Kanto? Sapresti dire all’origine dei due nomi?

    in questo Ukiyo-e dell’epoca potete vedere il punto di frontiera di Arai, uno dei tanti nella zona di Hakone

    Come no. I due nomi, Kansai e Kantō — che significano a ovest del posto di blocco e a est del posto di blocco — nacquero perché, all’epoca, il paese era diviso in circa 250 unità semi-indipendenti chiamate han.

    Per viaggiare da una città all’altra, bisognava attraversare dei posti di controllo. Il più importante si trovava a Hakone, lungo il Tōkaidō — la strada che collegava Edo (l’attuale Tokyo) a Heian (l’attuale Kyoto. Kyoto assunse ufficialmente questo nome nel 1899.)

    Il posto di blocco di Hakone esiste ancora. Divideva est e ovest proprio a causa dell’importanza di quella separazione:

    da un lato c’era la parte più antica del Giappone, con l’Imperatore;

    dall’altro, la parte più giovane, e il suo più grande nemico: lo shogunato Tokugawa.

    E qual era il nome originario di Kansai?

    Kinai, che significa all’interno del territorio della Capitale — cioè Heian.

  • Cosa intendeva dire Miyamoto Musashi con la seguente frase?

    Cosa intendeva dire Miyamoto Musashi con la seguente frase?

    La prima cosa da fare in questi casi è procurarsi l’originale. Si tratta dell’originale giapponese preso dal leggendario libro di Miyamoto Musashi Go Rin no Sho. Eccolo. 

    心は広く直なるを本とすべし。道においては我に師匠なし、自己を以て師となす。広き心も偏りては我慢となる。直なる心も頑になれば道に違う。広く直にして、よく工夫あるを本とす。

    Il giapponese è arcaico. Mia moglie, data un’occhiata, si è rifiutata di aiutarmi dicendo che questo non è giapponese. Mah,  shakura

    La traduzione mi è costata ore di ricerca e Lavoro. Sono abbastanza sicuro sia corretta, per quanto si può essere certi con un testo di questo genere.

    Alcune note. 

    Ci sono due grossi problemi nella prima frase. Il primo è Kokoro, un concetto praticamente intraducibile,

    A seconda delle circostanze, esso può essere tradotto sia con cuore in senso figurato sia con mente. In ambedue i casi, non corrisponde al cuore italiano e alla mente italiana. Questo non è il luogo in cui soffermarsi tropp sull’ argomento. Diciamo che è una mente più intuitiva che razionale, una mente che deve essere del tutto vuota per essere completamente disponibile al guerriero, un concetto questo che ha un nome: mushin, dove mu vuol dire vuoto, assenza e shin mente.

    Per quello che riguarda Michi, che è poi il -dō di aikido, bushido e kendō, occorre tenere presente che in Giappone non si impara da un mae Un uomo più anziano di noi ci insegna qual è la strada, che è null’altro che un punto di partenza e un punto di fine. Tutto quello che sta in mezzo lo dobbiamo fare noi, concepirlo noi.

    Ora siamo pronti a leggere

    心は広く直なるを本とすべし。

    La mente deve essere sempre attenta e retta.

    道においては我に師匠なし、自己を以て師となす。

    Lungo la mia strada non ho maestri, ma sono io stesso maestro.

    広き心も偏りては我慢となる。

    Una mente aperta e non retta tende all’arroganza

    直なる心も頑になれば道に違う。

    Una mente retta ma inflessibile ci farà perdere la via.

    広く直にして、よく工夫あるを本とす。

    Occorre essere aperti, retti, e pieni di risorse.

  • Il tramonto dei Tokugawa

    La comparsa delle “Nere Navi” del Commodoro Matthew Perry nel 1853 e la sua richiesta di apertura dei porti giapponesi al commercio estero sono spesso viste come l’evento che ha posto fine all’isolamento del Giappone e ha portato alla fine dello shogunato Tokugawa. Tuttavia, è importante notare che il Giappone stava già affrontando numerose sfide interne prima dell’arrivo di Perry. Esse avrebbero prima o poi, Navi Nere o meno, portato alla caduta della dinastia.
    La prima, più grave, più bizzarra e più vecchia di queste contraddizioni è la posizione ambigua della classe samurai.
    Abbiamo visto come i soldati che avevano combattuto per i clan tozama (e quindi contro Tokugawa Ieyasu, sono stati letteralmente buttati sulla strada, senza alcun permesso di fare un lavoro che non fosse quello del soldato. Gli fu concesso in altri termini , di morire di fame.
    È infatti evidente che, se da una parte i Tokugawa avevano dichiarato i guerrieri la classe dominante, dall’altra lo shogunato presa misure che resero praticamente impossibile un conflitto fra clan. Vi lascio immaginare come fosse ridotta la classe guerriera dopo 250 anni e passa di pace. La classe samurai, che formava l’élite governativa e militare del paese, era in una crescente crisi finanziaria. Molti samurai erano indebitati e alcuni persino impoveriti, a causa dei cambiamenti nell’economia giapponese e dell’inadeguatezza del sistema feudale a gestire questi cambiamenti.
    Anche se nominalmente ricchi, i samurai come classe erano senza dubbio fra i poveri, mentre il denaro fluiva abbondante dalle loro tasche in quelle dei mercanti della Shitamachi di Tokyo. La povertà era diffusa non solo fra. I rōmin, ma anche quasi al massimo delle scale di potere interne della classe dei samurai. A questo si opponeva il successo della ricchezza tra le classi sociali, soprattutto tra i mercanti in arricchimento e la classe samurai in decadenza. La classe samurai fu quindi la prima a ribellarsi con impegno, perché era quella che aveva più interesse ad un cambiamento della situazione. Gli organizzatori dei numerosi disordini del periodo erano guerrieri. Saigo Takamori è un ottimo esempio non solo delle tensioni, ma anche delle contraddizioni del periodo.
    Ma anche il popolo ne aveva abbastanza dei rigori estremi della vita sotto i Tokugawa, un regime che rese obbligatorio tutto quello che non era proibito. Una delle conseguenze fu un fenomeno estremamente bizzarro, il movimento “ee janaika.”
    Consisteva nell’esplosione improvvisa di feste in cui la gente perdeva ogni controllo di sé e ballava per ore e giorni, dicendo “ee janaika” (letteralmente “non è forse bene?”, una frase il cui spirito è meglio espresso dalla frase “Ne ho abbastanza (di ordine e legalità”) è un esempio delle manifestazioni di malessere e delle tensioni sociali che esistevano durante gli ultimi giorni dello shogunato Tokugawa.
    Come già detto, I festival “ee ja nai ka” spesso vedevano persone, in particolare contadini e cittadini comuni, ballare, cantare e comportarsi in modi che erano considerati bizzarri o al di fuori delle norme sociali. Molti indossavano costumi stravaganti o si travestivano, e la natura spontanea e caotica degli eventi li rendeva difficili da controllare.
    La gravità della situazione è resa evidente da tutti gli slogan estremi generanti da questo periodo. Ecco una breve lista.
    Wakon Yōsai : L’idea di adottare la tecnologia e le tecniche occidentali pur mantenendo l’essenza e lo spirito giapponese è spesso riassunta nella frase “Wakon Yōsai” (和魂洋才). Tradotto letteralmente, “Wakon” (和魂), il termine significa “spirito giapponese” e “Yōsai” (洋才) significa “talento occidentale” o “conoscenza occidentale”. Questa filosofia è diventata popolare durante la Restaurazione Meiji ma nacque prima, dalla necessità di importare tecnologia europea superiore a quella giapponese senza dover per questo buttare a mare secoli di cultura.
    Sonno Joi (尊皇攘夷): Tradotto letteralmente, “sonno” significa “rispettare l’imperatore” e “joi” significa “espellere i barbari”. Questo slogan era popolare tra coloro che volevano restaurare l’autorità politica dell’Imperatore e opporsi all’influenza straniera in Giappone.
    Fukoku Kyohei (富国強兵): Questo slogan significa “Paese Ricco, Esercito Forte”. Rifletteva l’obiettivo della nazione di diventare economica e militarmente potente seguendo modelli occidentali.
    Bunmei Kaika (文明開化): Questa espressione può essere tradotta come “Illuminazione e Civiltà” o “Civilizzazione e Modernizzazione”. Rappresentava l’entusiasmo per l’adozione della cultura e della tecnologia occidentali durante l’era Meiji.
    Kinnō (勤王): Questa parola significa “leale servizio all’Imperatore”. Era un concetto centrale per i gruppi che sostenevano un ritorno al potere imperiale.
    Ognuno di questi slogan e concetti ha giocato un ruolo nella mobilitazione delle persone e nella guida delle politiche durante questo periodo turbolento della storia giapponese. Rappresentavano il desiderio di modernizzare il Giappone, ma anche le preoccupazioni riguar all’influenza straniera e la perdita dell’identità culturale giapponese.
    Frank

  • Storia della violenza in Giappone

    Il Giappone e la violenza

    Il Giappone nel XXI secolo è il paese pacifico per eccellenza, e a buon ragione. Io stesso, che ho abitato i due terzi della mia vita in questo paese, possono testimoniare che la violenza è assente al punto tale che se ne avverte la mancanza. È tutto un po’ troppo tranquillo, pacifico per essere vero, in particolare nel caso dei giapponesi, la cui storia è probabilmente una delle più brutali e distruttive che ci siano mai state.

    Basti il semplice fatto che i giapponesi sono stati guerrieri eccezionalmente sanguinari, tanto che una parte della loro paga veniva da teste di nemici recise che il loro padrone comprava. Il Taikō, Toyotomi Hideyoshi, faceva impalare i bambini di coloro che sconfiggeva. Tokugawa Ieyasu non esitò a far giustiziare il suo stesso figlio e a far decapitare sulla pubblica piazza un bambino di sette anni. Ieyasu è colui cui Hideyoshi morente affidò la propria famiglia perché la proteggesse. Lui la distrusse. Tutto questo senza contare che questi combattimenti erano sempre fra giapponesi. Le vittime erano i giapponesi quanto i carnefici. Visto che la guerra dei Genpei è finita nel 1985, che il periodo successivo è iniziato con lotte fra clan per la supremazia a Kamakura finite 40 anni dopo,, che nel 1333 Kamakura è stata conquistata e arsa da Nitta Yoshisada, che ci era nato, che i tre secoli successivi sono una guerra dietro l’altra, è palese che i giapponesi hanno sempre combattuto guerre civili fino al 1900.

     La tragedia dei veterani della guerra civile

    E quindi non solo legittimo, ma necessario domandarsi quando e come questo popolo, indubbiamente grande ma certamente anche difficile, sia cambiato, e per mano di chi.

    Certamente non nel XVII secolo. Come mostrato in un altro mio scritto, dopo una guerra civile di fenomenale lunghezza,  133 anni, il Giappone fu quasi sopraffatto da un’ondata di violenza dovuta ai veterani di quella guerra, licenziati di punto in bianco il giorno dopo la vittoria di Yeyasu a Sekigahara. Si trattava di un persone che avevano combattuto a lungo in una guerra straordinariamente violenta e sanguinosa, per giunta fra fratelli,  soldati che avevano di conseguenza riportato ferite fisiche e mentali considerevoli. Non solo erano stati licenziati, ma era stato loro proibito di cambiare professione, presumibilmente per vivere quindi di aria e poco altro.

    Si ebbe un’ondata di tsujigiri, vale a dire agguati in cui persone venivano tagliate a pezzi con una spada senza nessuna ragione plausibile, verosimilmente proprio da quei reduci che la classe dei samurai aveva tradito, burocratizzandosi una volta venuta la “pace”.  L’unica ipotesi che spiega il loro comportamento è che si trattasse di una forma di terrorismo volta a tenere presente al pubblico il problema dei veterani.

    La guerra civile nel 1615 continuò con i disperati combattimenti che finirono con la presa del castello di Osaka, dove il figlio di Hideyoshi si era  rifugiato. Alla difesa del castello accorsero ben 90.000 reduci, fra cui famose figure come Sanada Yukimura, Gotō Matabei, Akashi Morishige e Kimura Shigenari. Era la loro ultima speranza, ma Ieyasu la spense nel sangue. Coloro che più avevano sofferto, i veterani, si trovarono ad essere vittime di una campagna che li voleva distrutti. Ho ancora davanti agli occhi dei veterani della Guerra del Vietnam marciare portando un cartello che diceva:
    “We killed, we bled, we died for WORSE than nothing.”
    Abbiamo ucciso, siamo stati feriti, siamo morti per meno di niente.

    La ribellione di Shimabara, cui parteciparono altri veterani, fu addirittura del 1637. Non è sorprendente che una guerra civile così lunga avesse degli strascichi di questo peso, ed è imprudente pensare che dopo di essi il ritorno all’ordine fosse completo. Un’intera classe sociale stava venendo distrutta in una delle più grandi catastrofi della storia del paese.

    Miyamoto Musashi, il famoso spadaccino, si trovò Ronin dopo aver combattuto a Sekigahara, a Osaka e a Shimabara. Sappiamo che era molto attivo dopo il 1630, con duelli frequenti. Tutto questo ci dice che il XVII secolo era un’epoca in cui avere armi era comune, come era comune servirsene. Musashi, che io sappia, non fu mai incarcerato nonostante fosse responsabile probabilmente di 30 omicidi. Il duello era quindi tollerato ed anzi apprezzato, dato che Miyamoto Musashi divenne ciò nonostante la leggenda che è.

    Saigo Takamori nel 1877 muore di propria mano dopo avere combattuto una guerra che era destinato a perdere, una ribellione per far tornare quelli che (dimostrando di non aver capito la sua stessa storia) lui riteneva essere stati gli anni d’oro, quelli dei Tokugawa (e quindi dei samurai, lui credeva).

    Il continuo problema dei reduci della guerra civile, ancora vivo e vegeto ben 11 anni dopo l’inizio della restaurazione Meiji, ci garantisce che il paese era ben lontano dall’essere non violento.

    fino al 1945 in Giappone vige il militarismo. Inutile domandarsi come I giapponesi abbiano fatto per comportarsi come si sono comportati in Cina, ad esempio a Nanking. Hanno semplicemente trattato I cinesi come di solito trattavano sé stessi.

    Finita la guerra, la violenza fisica per punire la servitù era ancora normale, e io conosco personalmente una persona il cui genitori praticavano questa forma di violenza su base quotidiana. Notare che questa non era violenza qualsiasi. È violenza istituzionale, un diritto della classe superiore su quella inferiore, nulla di illegale o di negativo. A meno che non sbloccasse nell’omicidio, bastonare i servi non ho mai portato nessuno in galera.

    La violenza dei militari nei confronti delle altre classi fino al 1945 è ben nota., come lo è stata  la sorpresa dei giapponesi quando si resero conto che gli occupanti americani li trattavano meglio di quanto facessero i militari del loro paese.

    Siamo arrivati al 1945 e la violenza non è ancora scomparsa dalle vite dei giapponesi. Come l’episodio della mia amica in cui i genitori battevano la servitù dimostra, non è scomparsa all’improvviso dal 20mo secolo. Ma allora chi?


    Gli americani

    Per Chet

  • I genitori di oggi

    Una delle poche cose veramente belle della vecchiaia, e io ormai a settant’anni sono un vecchio, non c’è niente da fare, è il poter andare indietro con la memoria e paragonare il presente al passato, trovando indizi utili per interpretare gli eventi della tua vita quotidiana. Chiaramente bisogna essere sveglie a sufficienza da non credere che una volta fosse meglio di oggi. Secondo me era peggio. molto peggio.
    L’altro giorno, io e la mia fisioterapeuta stavamo guardando fuori dalla finestra un uomo in un parco che stava giocando con i suoi due figli. E allora mi sono sovvenuti gli anni 80 e 90, che io ho trascorso qui in Giappone, e gli uomini di quell’epoca ormai finita. Padri che erano degli sconosciuti ai loro figli. Bivaccavano in un divano all’ingresso di casa perché non c’era un posto a letto per loro. I loro figli non potevano non considerarli degli estranei perché non li vedevano mai e di fatto li disprezzavano perché non sapevano nulla delle cose che contano. Internet stampanti, videogiochi e balle del genere.
    Allora c’era l’impiego a vita e la tua compagnia era tutto per te.
    La mia fisioterapista all’improvviso mi ha fatto notare come prima di qualche anno fa una scena del genere sarebbe stata impossibile. Negli anni 80 e 90 tutto era aperto sette giorni la settimana e nel loro giorno di riposo i maschi di questo paese dormivano tutto il giorno per recuperare.

    Fra i miei vicini ce n’è uno che di figli ne ha tre e tutte le sere lo vedi in bicicletta con un bambino piccolissimo nel cestino del manubrio, un altro in piedi sul portapacchi e il terzo in spalla.
    Vi posso assicurare che è una visione commovente. È ovvio che si diverte come un pazzo e i suoi figli lo adorano.

    E io mi sono reso conto di quanto sia dovuto cambiare il Giappone per far sì che questo tizio si possa godere i suoi figli. Al contrario dell’Italia, Tokyo visualmente non ha molto di differente dalla Tokyo di 45 anni fa, quando sono arrivato, ma la società è cambiata, di molto anche. Ha dovuto andare in malora il sistema di impiego a vita, per i datori di lavoro non più sostenibile economicamente e per i lavoratori non più desiderabile perché adesso guadagnano a sufficienza per accettare uno stipendio in pratica inferiore a quello del padre.
    Hanno dovuto cambiare le donne. La sua probabilmente ora è da qualche parte che lavora. Se no, è a casa che legge il giornale, il momento preferito della giornata di qualsiasi massaia: quando marito e figli se ne vanno fuori dai piedi.
    Il risultato è un Giappone molto diverso da quello di quarant’anni fa. Questi uomini preferiscono essere liberi piuttosto che lavorare. Sentono il senso del dovere nei confronti della loro azienda fino a un certo punto. Amano i loro figli al punto tale che, mi ha detto una mia amica, un comune dalle parti di Yokohama ha indetto un corso gratuito sui primi quattro mesi dopo il parto. Tutti i partecipanti erano di sesso maschile. Personalmente parlando, ho imparato che bisogna essere un po’ scettici in questi casi, ma spero con tutto il mio essere che questa volta sia vero.

    Che una volta tanto tutti vincano e siano felici
    Che gli uomini una volta tanto abbiano imparato a non essere severi, ma teneri con i loro bambini.
    È vero che ho settant’anni , ma porto ancora due orecchini sull’orecchio destro, non per motivi estetici, ma per motivi di carattere culturale e politico, come si faceva cinquant’anni fa, quando ero ragazzo. Servono per annunciare a coloro che non mi conoscono che non sono un integrato. Io sono ancora un hippy: spero ancora che cambi tutto, anche se non lo credo più.
    Ho ancora voglia di scontrarmi con i mulini a vento. Non mi fido delle istituzioni, che mi sembra siano tutte da abbattere. Ho i capelli lunghi e me ne vanto. Sono un cane sciolto, come sempre, ma sto sempre dalla parte dei bambini, particolarmente delle bambine, e non dei genitori. Speriamo stavolta sia la volta buona.

  • Il valore mistico del fantasma di un ombrello rotto

    Molti anni fa stavo buttando via il mio tempo con amici della scuola di linguaggio dei segni che frequentavo. Sì, sono segnante del linguaggio dei segni giapponese, che ho studiato per 12 anni. A un certo punto, una ragazza si mise ad scarabocchiare.

    Sul pezzo di carta comparve un ombrello con un buco per la bocca, due occhi e una gamba sola. Io le chiesi cosa fosse. Lei mi dissec che era il fantasma di un ombrello rotto. Questo fu il mio primo incontro con l’animismo giapponese, del quale avevo sempre sentito parlare ma che non avevo mai creduto fosse qualcosa di vero.

    La mia amica proseguì dicendo che se tu rompi un ombrello, per esempio facendoci un buco, lo uccidi. L’ombrello così si trova a essere nell’aldilà e ti odia con tutte le sue forze per averlo appunto ucciso.

    Ora, anche noi abbiamo i fantasmi, ma nessuno, credo, li prenda così sul serio.

    Qualche tempo dopo, fortuna volle che mi capitasse qualcosa di ancora più inconsueto. Stavo insegnando italiano ad una mia amica, che probabilmente leggerà anche queste righe. Takahashi Aki è una donna simpaticissima e quella mattina mi stava raccontando come avesse appena buttato via delle bambole che appartenevano a sua figlia. Prima di buttarle, disse, le aveva naturalmente bendate.

    Io non potevo naturalmente non interromperla. Aveva fatto cosa? Le aveva bendate.

    E perché mai? Perché non lo sapeva, ma così le aveva insegnato sua madre. E perché pensava a sua madre l’avesse insegnato una cosa simile? Probabilmente perché le bambole non vedessero chi le buttava via e così non potessero vendicarsi. Tempo dopo, racconta la storia ad un’altra mia amica cinese Che mi disse che in Cina la ragione è diversa. Le bambole si bendano perché non riescano a tornare a casa.

    Dopo di allora, come spesso capita, cominciai a vedere spesso quello che nei primi vent’anni non avevo mai visto. L’animismo giapponese e quello cinese sono ancora vivi e così lo è il culto degli antenati. Qualcuno potrà obiettare che il numero di persone che acquistano un butsudan, una specie di altare che si tiene in casa e dove vivono i propri morti, sta crollando. Verissimo, come è vero che sta esplodendo quello di coloro che preferiscono, per motivi sia affettivi che finanziari, improvvisarne uno con uno sgabello o altro mobile. Ci metti sopra una foto dell’antenato, di solito il marito, il gioco è fatto.

    La gente si comporta come se la fotografia fosse l’antenato. Gli fa vedere cose, mette cose da mangiare dove le può vedere e quindi mangiarle, gli parla, gli racconta del 1000 magagne che affliggono gli anziani, così facendo allungandosi la vita di un tanto grazie al rilassamento che ne consegue.

    Ora possiamo anche parlare di funerali delle cose. Perché fare il funerale ad un oggetto?

    Ieri ho pubblicato una foto da me scattata al santuario Egara Tenjinsha, un santuario qui a Kamakura, dove vivo da ormai 25 anni e dove penso proprio morirò. La foto ritrae i funerali di pennelli di artisti famosi. Non è il solo a far funerali alle cose. Zuisenji lo fa alle fotografie, Hongakuji alle bambole. Ci sono anche santuari che lo fanno alle radiografie,, agli MRI e chi più ne ha più ne metta.. Parlando di cerimonie funebri per oggetti, quello che vedete sotto è un grande festival di culto delle bambole. Non c’è da stupirsi se le bambole sono l’oggetto più frequentemente al centro di un culto funebre per oggetti. Sono gli oggetti più simili a un essere umano. Una volta, mia moglie si rifiutò di venire ad una mostra di bambole con me. Una persona che conosco, uno storico di una certa età e di grande razionalità, disse di sentirsi in un poco in imbarazzo quando vede qualcuno buttare via una bambola senza dire almeno grazie.

    Molte ragazze, di solito, quando buttano via un rossetto usato o un altro aggeggio del genere lo ringraziano. Ed è quello che si fa durante il funerale di un oggetto. Lo si ringrazia per i suoi servizi. Tsurugaoka Hachimangū, il santuario principale della città, ha un festival annuale in gennaio di ringraziamento agli utensili rotti. Moltissimi artigiani vi partecipano. Su tutto questo ho scritto un libro, anzi ne ho scritti tre

    Li trovate su Amazon Italia.

  • Cos’è lo Shinto

    L’altro giorno ho capito una cosa che mi stava sul gozzo da tempo e che non sapevo neppure di non sapere, che non sapevo neppure di stare cercando. Eccola Cosa intendono dire queste persone quando parlano di shintō, una parola che aborro?
    L’uso della parola shintō fra stranieri è sempre stato un mistero per me, perché la parola non viene mai e dico mai usata in giapponese. E allora perché i giapponesi la usano quando parlano con stranieri? A questo punto la folgorazione. I giapponesi usano questa parola perché la usano gli stranieri, appunto. Questo è il punto chiave. I giapponesi la usano perché la usiamo noi, esattamente il stesso meccanismo visto nella scomparsa del termine gaijin, che i giapponesi tendono a non usare perché sanno che noi stranieri pensiamo erroneamente sia un termine discriminatorio. E gli stranieri, perché la usano? Perché è stata loro insegnata dagli stessi giapponesi prima della seconda guerra mondiale. Ma sappiamo che quella definizione è falsa. Pura propaganda
    Ma questa parola, allora, cosa vuole dire?
    Ora arriva l’interessante, perché ci sono tre possibilità diverse.
    Nella bocca degli stranieri, il termine è una religione più o meno come il cattolicesimo, con un fondatore, regole, una comunità e così via. Questo shintō non esiste. Lo Shinto non è una religione.
    Poi esiste lo scinto dei santuari, che in giapponese non si chiamano santuari shintō. Non si chiamano neppure santuari. La tassonomia dei luoghi di culto giapponese è un mondo ancora sconosciuto (non a me.)
    La seconda definizione possibile viene dai santuari stessi e dall’associazione che li rappresenta, il Jinja Honcho. Tenete presente che questi santuari sono ciascuno dedicati ad uno spirito diverso,che ha una genesi sua e che in un certo senso è un culto a sé stante. Per loro l’unico shintō è quello di Stato, quello di prima della guerra, uno scinto di Stato cui vogliono ritornare.
    Poi c’è lo Shintō dei giapponesi che parlano di con gli stranieri che parlano di scinto.
    Inutile dire che è molto diverso da quello che gli stranieri hanno in testa.
    Che girotondo di cantonate, a ciascuno la sua.
    Ma è importante? Certo che è importante. È importante o no il cattolicesimo per capire gli italiani? Cazzo che è importante. Perché non dovrebbe esserlo allora lo scinto in un quarto senso, quello che usano i giapponesi quando parlano di scinto fra e dicono che non è una religione. Lo scinto è semplicemente il modo di concepire la realtà dei giapponesi. Un modo di vedere la realtà per noi surreale. Una realtà dove i morti sono vivi, ti parlano e vogliono cose da te. Una realtà fatta di paura di cose che non si vedono. Una realtà individuale, ciascuno si fa la sua. Non è così che funzionano le realtà da noi. La realtà per definizione è una. Non qui. Il processo di comprensione del Giappone, ne sono più che mai convinto, comincia da qui.

  • Cosa sono il Buddhismo giapponese e lo Shintō

    La questione riguarda correttamente non il Buddhismo in generale, ma il Buddhismo giapponese, che è una realtà completamente diversa. Il Buddhismo giapponese, in tutte le sue scuole, non è il vero Buddhismo perché al suo centro non si trovano le Quattro Nobili Verità, ma il culto degli antenati giapponesi, che ha tanto a che fare con il vero Buddhismo quanto la pizza italiana autentica. Inoltre, un Shogun lo ha introdotto per motivi puramente politici. Nello specifico, il Buddhismo è stato incaricato del culto degli antenati da Tokugawa Iemitsu (1604–1651), e oggi i templi buddhisti in Giappone sono poco più che cimiteri. Il culto degli antenati è in realtà incompatibile con il vero Buddhismo. Quindi, qual è la vera relazione tra Buddhismo e Shinto?

    Aspetta un momento. Ho un’altra domanda. Cos’è lo Shinto? Vorrei porre alcune domande al signor Hantani Sadahiko. Spero che possa confermare ciò che dico o dirmi se sbaglio.

    1. È vero che nessun giapponese usa mai il termine Shinto e che nessuna associazione, nessun partito politico, nulla in Giappone è mai chiamato Shinto? Risponderò per lui. Sì, è vero. I giapponesi normali non usano mai il termine Shinto.

    2. Quelli che in inglese sono chiamati santuari Shinto in giapponese sono classificati in realtà in vari modi: myōjin, jinja, taisha, jingū e così via. Mai con un’espressione chiamata Shinto.

    3. Quindi, cos’è lo Shinto?

    Lo Shintō non è altro che il modo in cui gli stranieri chiamano il culto dei kami e degli antenati, qualcosa di così profondamente radicato nei giapponesi che la maggior parte di loro non si rende nemmeno conto che esiste. Non hanno nemmeno un nome per esso; è un modo di vedere il mondo, non una religione.

    Perché gli stranieri usano il termine Shinto? Perché fino al 1945 il termine era usato dal governo giapponese per descrivere il culto dei kami. I giapponesi non lo facevano, ma gli stranieri lo fanno ancora.

    La differenza, la vera differenza (e capire questo mi è costato venticinque anni di riflessione), è che il Buddhismo giapponese si occupa di eventi legati alla morte e alla contaminazione (kegare). Il suo scopo è riportare i luoghi o le persone contaminate alla purezza.

    Il culto dei kami si occupa di tutto ciò che riguarda la luce, la vita, la riproduzione, la prosperità e la nascita.

    Si completano meravigliosamente a vicenda.

    ————

    English

    Please correct, translate into Italian

    The question correctly speaks not of Buddhism, but of Japanese Buddhism, which is a completely different thing. Japanese Buddhism, all schools included, is not Buddhism because at its center you will not find the Four Noble Truths but Japanese ancestor worship, which has as much to do with real Buddhism as it has to real Italian pizza. What’s more, a Shogun put it there for purely political reasons. Specifically, Buddhism was put in charge of ancestor worship by Tokugawa Iemitsu (1604–1651), and today Buddhist temples in Japan are little more than cemeteries. Ancestor worship is actually incompatible with true Buddhism. So, what is the true relationship between Buddhism and Shinto?

    Now, wait a minute. I have another question. What is Shinto? I will ask, if I may, Mr Hantani Sadahiko some questions. He will, I hope, either confirm what I say or tell me I am wrong .

    1 Is it true that no Japanese ever uses the term Shinto and that no association, no political party , nothing in Japan is ever called Shinto? I will answer for him. Yes it’s true. Normal Japanese don’t use the term Shinto. EVER.

    2 What are called Shinto Shrines in English in Japanese are classified in reality in a variety of ways: myōjin, Jinja, Taisha. Jungū and so forth. NEVER with an expression called Shinto.

    3 So, what is Shinto?

    SHINTŌ is no more than the way foreigners call the cult of kami and ancestors, something so deeply ingrained in the Japanese that most of them do not even realize it is there. Neither do they have a name for it, It’s a way of seeing the world, not a religion.

    Why do foreigners use the term Shinto? Because until 1945 the term was used by the government of Japan to describe kami worship. The Japanese never did, foreigners still do.

    The difference, the REAL difference (and understanding this has cost me twenty five years of reflection, is that Japanese Buddhism deals with events having to do with death and defilement (kegare). It’s purpose is to bring contaminated places or people back to purity.

    Kami worship deals with everything regarding light, life, reproduction, prosperity and birth.

    They complement each other wonderfully.

JapanItalyUSAUnknown