Tag: Cultura giapponese

  • Il giorno in cui il Buddha non morì

    Il giorno in cui il Buddha non morì

    Stamattina, tra le righe asettiche degli impegni di lavoro, una parola è balenata sul mio calendario digitale, un sussurro ancestrale nel frastuono della routine: Butsumetsu (仏滅). Per chi, come me, vive in Giappone, non è una semplice indicazione temporale, ma un portale su un mondo dove il tempo non era scandito solo da ore e minuti, ma anche dal respiro della fortuna e del presagio.

    Il suo significato letterale – “la morte del Buddha” – è un velo drammatico, tanto potente quanto ingannevole. Lungi dall’affondare le radici nei sacri sutra del buddismo, la sua storia è un labirinto di assonanze e credenze popolari che conduce all’antica divinazione cinese. Il kanji 仏 (bustu), che siamo abituati ad associare a Buddha, e qui un semplice prestito fonetico, spogliato di ogni sacralità. E che il parinirvana di Shakyamuni, il quindicesimo giorno del secondo mese lunare, cada talvolta in un giorno di Bustumetsu? Pura coincidenza, un capriccio del calendario senza alcun legame con il rokuyō, il ciclo divinatorio, di sei giorni, che governa il flusso della sorte.

    Il Butsumetsu è il nadir di questa danza di sei giorni che scandisce la fortuna: Senshō, Tomobiki, Senbu, Butsumetsu, Taian e Shakkō. Eppure, in questa gerarchia della sventura, non è solo. A conterdegli il primato è shakkō (赤口), un giorno che alcuni temono persino di più, forse perché i suoi kanji evocano immagini crudeli di sangue e fuoco. C’è chi lo considera più nefasto, interpretando il Butsumetsu come un giorno in cui “le cose giungono a termine”, mentre shakkō porterebbe con sé la minaccia di un “annientamento totale”. Nessuna sentenza definitiva: la percezione del peggiore veria, e la scelta è affidata a un equilibrio delicato tra presagio e consuetudine.

    Tornando alle origini. Butsumetsu era scritto con kanji diversi: 物滅, “la fine delle cose”. Un concetto forse meno suggestivo della morte di Buddha, ma più fedele alla sua funzione: segnare la fine di un ciclo, rendendolo il giorno più nefasto per qualsiasi nuovo inizio. Nel Giappone del passato, l’influenza del rokuyō non era una semplice credenza, ma una forza invisibile che governava la vita. Nessuno avrebbe osato celebrare un matrimonio, inaugurare un’attivita o traslocare in un giorno di Butsumetsu. Era un imperativo sociale che dettava i ritmi dell’esistenza, decidendo i giorni di festa e quelli di attesa, i momenti per agire e quelli per astenersi da qualsiasi azione.

    Oggi, tra l’acciaio e il vetro delle metropoli, il rokuyō è scivolato da dogma a superstizione, una consuetudine culturale più che un obbligo. Eppure, la sua ombra si allunga ancora sulla vita delle persone. Le sale per matrimoni offrono sconti vertiginosi a coppie abbastanza audaci – o razionali – da sfidare la sorte, mentre molti, soprattutto tra le generazioni più anziane, non prendono decisioni importanti senza prima consultare il calendario.

    Per molti di noi, inghiottiti dalla fretta e dalle scadenze, Butsumetsu è poco più di una nota a margine del nostro tempo efficiente e secolarizzato. Ma vederlo scritto lì, accanto ai miei appuntamenti, è stato un promemoria: anche nella più spinta modernità, il passato non svanisce. Resiste come un’iscrizione silenziosa, un invito a ricordare che ogni giorno porta con sé non solo un numero, ma anche un’anima e una storia.

  • Dov’e finita la nostra giovinezza

    Dov’e finita la nostra giovinezza

    C’è una domanda che ha aleggiato come un fantasma tra le macerie del Giappone post-bellico. Un sussurro diventato un grido sordo, carico di rabbia e smarrimento, che appartiene a un’intera generazione:

    「うちの青春どこにいった!」

    “Dov’e finita la nostra giovinezza?”

    Immagina di avere quindici anni. I tuoi sogni non sono fatti di amori, musica o feste con gli amici. I tuoi sogni sono stati cancellati. Per i ragazzi e le ragazze cresciuti nel Giappone degli anni ‘30 e ‘40, l’adolescenza fu un furto. I banchi di scuola vennero sostituiti con i torni delle fabbriche di munizioni, i campi vennero arati da mani adolescenti al posto di quelle di padri e dei fratelli, inghiottiti dal fronte. Alle ragazze, a cui si insegnava l’ideale ryōsai kenbo, ovvero della “buona moglie, madre saggia”, fu chiesto di diventare operaie o, nel peggiore dei casi, con l’inganno di sacrificare il proprio corpo come “donne di conforto”. La gioventù divenne semplicemente un’altra risorsa da consumare per la guerra.

    L’ideale per cui tutti si stavano sacrificando – un Giappone divino, invincibile e guidato da un Imperatore-dio – si frantumò nel modo più crudele e assordante. La colonna sonora delle loro notti non era musica, ma la nenia metallica dei bombardieri B-29. Le loro città non erano luoghi di incontro, ma inferni di fuoco. Poi, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki scavarono un solco incancellabile nella loro anima, mostrando la vulnerabilità terrificante di tutto ciò in cui erano stati costretti a credere. La resa del 15 agosto 1945 non portò la pace. Porto un silenzio assordante, e un vuoto.

    Il disorientamento fu totale. Le loro guide, i loro valori, i loro idoli: tutto era crollato, rivelandosi un castello di menzogne. Scrittori come Dazai Osamu diventarono lo specchio di un’anima collettiva in frantumi, dando voce a una gioventù che si sentiva profondamente tradita. Il ritorno dei soldati, spesso mutilati nel corpo e nello spirito, non fece che confermare la catastrofe. Chi erano adesso? Orfani non solo dei genitori, ma di un’intera nazione. Molti si ritrovarono a vagare per le strade di un paese in rovina, lottando per una ciotola di riso al mercato nero, con l’unica certezza di aver perso tutto.

    La loro domanda, “Dov’e finita la nostra giovinezza?”, non era semplice nostalgia. Era un’accusa gridata con la gola secca contro il mondo degli adulti che li aveva ingannati. Al posto dei ricordi del primo amore, c’erano le immagini delle città in fiamme. Al posto delle gite scolastiche, il ricordo della fame. Al posto delle fotografie felici, il volto dei morti.

    Eppure, cosa fai quando hai toccato il fondo? O ti lasci affogare, o usi quel fondo per darti la spinta per risalire. Da quell’abisso di disperazione nacque una rabbiosa, disperata voglia di rivalsa. Non una vendetta militare, ma una spinta incontenibile a creare. Se la guerra aveva distrutto la loro giovinezza, loro avrebbero usato la loro vita adulta per costruire un futuro dalle ceneri.

    Questa determinazione divenne il motore del miracolo economico giapponese. La stessa disciplina ferrea e lo stesso spirito di sacrificio, prima incanalati verso la distruzione, furono riconvertiti in una forza costruttiva senza precedenti. Quella generazione lavorò fino allo sfinimento, riversando nelle fabbriche, negli uffici e nelle università tutta l’energia che non aveva potuto esprimere. Ricostruirono le città, ma soprattutto l’orgoglio di una nazione.

    La loro rivalsa fu anche culturale. Rigettando con forza il militarismo che li aveva traditi, si aggrapparono ai nuovi ideali di pace e democrazia. Registi come Kurosawa iniziarono a esplorare le cicatrici delle guerra, cercando un barlume di umanità tra le rovine. La letteratura si fece più intima, mettendo al centro l’individuo e il suo smarrimento.

    La giovinezza rubata non venne mai restituita. Rimase un’ombra lunga, un dolore sordo che li accompagnò per tutta la vita. Ma nella fatica della ricostruzione, nel successo di un’economia che sbalordì il mondo e nella creazione di una società pacifica, quella generazione trovo il proprio riscatto.

    Dov’è finita la loro giovinezza? Non è mai più tornata. Ma al suo posto, mattone dopo mattone, hanno costruito il Giappone moderno. E questa fu la loro, silenziosa e grandiosa, risposta.

  • La casa attende

    La casa attende

    Ogni volta che sento qualcuno definire l’Obon come la “festa dei morti” giapponese, un’ondata di sottile irritazione si mescola al ricordo del mio stesso imbarazzo. Perché quell’errore, quella superficiale etichetta, un tempo era anche la mia. Appena giunto in Giappone, archiviai la questione con la medesima superficialità, adagiandosi in un parallelo comodo e rassicurante. Pensavo: “Certo, un momento per onorare i defunti. Come da noi”. Ma la verità è che non avevo compreso nulla. Stavo guardando la luna, ma vedevo solo il dito che la indicava.

    Fu solo partecipando al mio primo Obon nel furusato, il paese di origine della famiglia di un collega, che l’impalcatura della mia certezza iniziò a vacillare. L’aria non era greve di lutto, né impregnata di quella solennità malinconica che la mia cultura mi aveva insegnato ad associare alla morte. Certo, aleggiava un rispetto profondo, un pensiero commosso, ma l’emozione dominante era un’altra: un’attesa vibrante, una letizia serena, quasi elettrica. Era l’atmosfera di chi si prepara a riabbracciare una persona cara dopo un lungo, lunghissimo viaggio.

    Ho capito allora che l’equivoco fondamentale risiede nel nostro stesso concetto di “morte”, che è quasi sempre una cesura, un punto di non ritorno. I defunti appartengono al passato; sono presenza da commemorare, figure da compiangere. Qui, durante l’Obon, non si commemorano i “morti”. Si accolgono a braccia aperte i sorei, gli spiriti venerati degli antenati, che non sono entità incorporee o spettri inquieti del folklore, ma sono a tutti gli effetti membri della famiglia, temporaneamente residenti altrove.

    L’intera ritualità non è un atto di commemorazione, bensì una preparazione attiva e gioiosa al ricongiungimento. Quando accendiamo il mukaebi, il piccolo fuoco di benvenuto, non stiamo eseguendo un rito scaramantico per placare chissà quali entità. Stiamo accendendo la luce del portico per i nostri nonni e bisnonni, un gesto d’amore puro che sussurra: “La strada di casa è questa. Vi stiamo aspettando”. L’altare domestico, il butsudan, smette di essere un sacrario funebre per trasformarsi nel cuore pulsante della casa, la tavola ideale attorno alla quale tutti siedono, vivi e antenati, condividendo lo stesso sacro spazio.

    E poi c’è il Bon Odori. La prima volta che vidi centinaia di persone danzare al ritmo febbrile dei taiko, la mia logica occidentale andò in cortocircuito. Una danza? In una “festa dei morti”? Eppure, nessuno danzava con mestizia. I volti erano sorridenti, i gesti carichi di energia, la gioia era un’onda contagiosa. È una coreografia di gratitudine, un omaggio danzato per intrattenere gli ospiti d’onore, per celebrare il miracolo di essere di nuovo tutti insieme, sotto lo stesso cielo estivo.

    Definire l’Obon “festa dei morti” significa appiattire questa realtà complessa e meravigliosa, svuotandola del suo significato più profondo. Significa ignorare il concetto cardine della continuità della famiglia. La famiglia non è la somma degli individui presenti, ma un lignaggio ininterrotto, un fiume di cui gli antenati sono la sorgente e noi il corso attuale. L’Obon e la celebrazione di questo fiume, il momento in cui percepiamo più forte la corrente che ci unisce a chi ci ha preceduto. Non è un volgersi indietro verso ciò che è concluso, ma un percepire, qui e ora, la presenza di ciò che non ha mai fine.

    Oggi quando sento quella definizione, non avverto più solo irritazione, ma una sincera compassione per l’orizzonte che a quella persona rimane precluso. Sta riducendo una profondo modo di vivere la vita a una semplice data di calendario. No, questa non è una “festa dei morti”. È la festa della famiglia. È il celebrare la vita che prosegue, imperterrita e coesa, al di là di ogni mondo.

  • L’anima delle vette

    L’anima delle vette

    Oggi, qui in Giappone, si celebra lo yama no ho, il “giorno della montagna”. Questa ricorrenza istituita ufficialmente solo nel 2016, e in realtà l’eco di un legame millenario, un dialogo silenzioso e costante tra un popolo e le vette che ne definiscono l’orizzonte. Non è una semplice festa sul calendario, ma il riconoscimento di una presenza che è al contempo fisica e spirituale, un pilastro dell’identità giapponese.

    In Giappone, le montagne non sono mai state semplici ammassi di roccia e terra. Da sempre, sono state percepite come una soglia verticale, una scala verso il cielo dove il mondo umano sfiora quello divino. Nello shintoismo, le cime più imponenti sono considerate shintai, il corpo stesso delle divinità, o kannabi, luoghi sacri dove dimorano i kami. L’ascesa alla vetta non è mai stata un mero atto sportivo, quanto un pellegrinaggio, un percorso di purificazione. Ogni passo verso l’alto e un passo verso il sacro, un modo per lasciare alle spalle l’impurità del mondo terreno e avvicinarsi all’essenza divina. Il Fuji-san, con la sua perfezione conica, non è solo un vulcano: è un’icona sacra, un mandala naturale che ha ispirato innumerevoli artisti, poeti e mistici.

    Questo senso del sacro si è poi fuso con il buddismo, che ha trovato sulle montagne il luogo ideale per la meditazione e l’ascetismo. I templi si annidano tra le foreste di cedri secolari, i sentieri si snodano verso pagode nascoste, disegnando un paesaggio dove natura e spiritualità sono inseparabili. Le montagne sono diventate il terreno di prova per gli yamabushi, i monaci asceti che, attraverso pratiche rigorose, cercano l’illuminazione attingendo forza e saggezza direttamente dalla potenza della natura selvaggia.

    Tuttavia, l’importanza delle montagne non si esaurisce nella loro dimensione spirituale. È una presenza che plasma la vita quotidiana. Per secoli, sono state fonte di ogni risorse: legname per costruire case, templi e santuari, carbone per i focolari, acqua pura che sgorga per irrigare le risaie a valle. Interi paesaggi, i satoyama, sono sorti in simbiosi con le pendici dei monti, in un delicato equilibrio di utilizzo e rispetto. La montagna è madre e custode, una risorsa vitale che insegna i valori della gratitudine e della parsimonia.

    Ancora oggi, questo legame profondo pulsa nella vita dei giapponesi. Fuggire dall’afa delle città per cercare il fresco delle alture, immergersi in un onsen vulcanico, ammirare il mutare delle foglie in autunno: sono tutte esperienze che riconnettono l’uomo moderno a questo ritmo ancestrale. Lo yama no hi è quindi soltanto un’occasione per un’escursione, ma un invito a fermarsi e ad ascoltare. A sentire il respiro della foresta, a percepire la stabilità della roccia sotto i piedi e a riconoscere, in quella maestosa immobilità, una parte fondamentale della propria anima. È un giorno per ricorda che, in un mondo che corre veloce, le montagne restano. Silenziose, potenti, eterne custodi di ciò che è veramente essenziale.

  • La lama e il gatto

    La lama e il gatto

    Nel silenzio ovattato di una veglia funebre giapponese, l’aria è densa del profumo dell’incenso e della sommessa recitazione dei sutra. Tutto parla di pace, di un distacco solenne. Eppure, in questo arazzo di gesti composti, un singolo oggetto, a occhi poco esperti, stona, quasi un paradosso: una lama. Posta sul petto del defunto, il cui capo è spesso rivolto a nord secondo un’usanza antica, essa brilla di una luce fredda in un ambiente di calde memorie. E lì tra la serenità della cerimonia si celano usanze antiche, nate da un sincretismo di credenze il cui esatto confine è ormai sfumato nel tempo.

    Perché un’arma in un momento di resa? La risposta si nasconde in un nome, mamori gatana: la “lama protettrice”.

    La sua funzione però non è marziale, ma spirituale, un ultimo scudo per l’anima in quel delicato passaggio che è la morte. Nel pensiero giappone la morte è una transizione, un passaggio durante il quale lo spirito del defunto è vulnerabile. La lama rappresenta una barriera contro l’invisibile, contro gli akuryō, spiriti maligni che la credenza vuole si affollino ai confini della vita, pronti a ghermire uno spirito divenuto vulnerabile. Ma il suo compito non si esaurisce qui. Come un eco delle antiche tradizioni samurai, in cui la spada purificava e proteggeva, questa lama diventa un’estensione della cura dei vivi, un guardiano che veglia non solo all’anima del defunto, ma anche sui familiari, difendendoli, secondo la tradizione shintoista dall’aura impura, recidendo il kegare, l’impurità spirituale che la morte porta con sé. Per la fede buddista, la lama si trasforma in un amuleto per il sacro viaggio di quarantanove giorni che l’anima percorre prima di raggiungere la terra promessa. È come il bastone di un pellegrino per un sentiero che si percorre da soli, una promessa che il cammino sarà sicuro. Un guardiano silenzioso, una barriera incorruttibile tra il mondo dei vivi e le ombre che si annidano al confine con la morte.

    Ma da cosa, esattamente, la mamori – gatana deve proteggere il defunto? È qui che tra tutte le paure senza nome e le ombre teologiche, che la minaccia più temuta prende una forma sorprendentemente familiare. Qui entra in scena il gatto. Nell’immaginario giapponese il gatto è una creatura ambivalente. Amata e venerata come portafortuna, il maneki-neko che invita la buona sorte, viene guardata con sospetto e timore quando la morte è vicina. Un’antica paura, radicata nel folklore, sussurra che se un gatto dovesse saltare sul corpo del defunto, potrebbe rubarne l’anima o, peggio, rianimarlo in una creatura mostruosa. Ed ecco che la lama lucente della mamori – gatana assume un ruolo ancora più specifico, diventando un neko – yoke, uno “scaccia gatti”. Sfruttando la credenza che i felini detestino gli oggetti scintillanti. Il bagliore metallico della lame, freddo e così alieno alla morbidezza della vita, si crede tenga a distanza l’animale, considerato in questo contesto un tramite per le forze oscure.

    Questa non è una semplice superstizione, ma il riflesso di un terrore più profondo, quello per il kasha, un demone del folklore dalle sembianze di un gatto gigante avvolto dalla fiamme. Si narra che discenda dai cieli su un carro infuocato per rapire i cadaveri dei peccatori, negando loro persino il rito della cremazione. Il gatto che sonnecchia accanto al focolare diventa così la potenziale incarnazione di questo orrore cosmico. Il nesso a questo punto, si svela in tutta la sua drammaticità: la vulnerabilità della morte, la minaccia incarnata dal gatto e la lama come unica, estrema difesa.

    La veglia giapponese si rivela così non solo una cerimonia di commiato, ma un rituale attivo di protezione. E in quel singolo gesto, nel posare la lama sul petto di una persona amata, convergono la fede, la storia e la superstizione. Che la si veda come un amuleto, purificatore o scudo, nella mamori – gatana risiede un unico, potente desiderio che unisce ogni credenza: la volontà di proteggere. La lama non è più un simbolo di violenza, ma l’ultimo disperato atto di cura, un sigillo contro antiche paure, per garantire che il viaggio finale sia sereno e indisturbato, lontano dall’ombra ambigua di un felino e dai demoni che esso potrebbe evocare.

    Disclaimer

    Una significativa eccezione a questa usanza è rappresentata dalla setta Jōdo Shinshū (la setta più diffusa in Giappone), o Buddismo della Terra Pura, che non prevede l’uso della mamori – gatana. La ragione risiede nel cuore della teologia stessa della setta, secondo cui il defunto non affronta un viaggio incerto, ma rinasce istantaneamente nella Terra Pura grazie al voto compassionevole di Amida Nyorai. Maestro di tutti i Buddha, ha infatti giurato di un raggiungere la propria illuminazione definitiva finché anche l’ultimo degli esseri senzienti non sarà stato salvato. Poiché si crede che la sua salvezza sia già compiuta, la fede in lui garantisce a tutti il raggiungimento dello stato di Buddha.

    Di conseguenza concetti come l’impurità o la necessità di riti a sostegno dell’anima del defunto (i tsuizen kuyō) perdono di significato. L’assenza della lama non e dunque un divieto assoluto, ma una logica conseguenza: in un cammino già assicurato dalla promessa di Amida, una protezione terrena diventa semplicemente superflua, un gesto d’amore rispettato ma non necessario.

  • Il vocabolario invisibile dell’affetto

    Il vocabolario invisibile dell’affetto

    Chi osserva le coppie muoversi nel paesaggio giapponese, percepisce quasi subito un velo di riserbo, un’economia di gesti che all’occhio straniero può apparire come un’impressione di algida distanza. I corpi camminano in prossimità, ma raramente si toccano; le conversazioni fioriscono, ma senza i picchi e le valli emotive a cui altre culture sono avvezze. Si è spesso tentati di interpretare questo quadro con un alfabeto che non gli appartiene, di vedere assenza là dove invece risiede una diversa, e forse più profonda, presenza.

    È come pretendere di udire una melodia composta per altri sensi. Perché l’amore, qui, spesso si spoglia della parola per indossare il silenzio. E la parola stessa, quando viene usata, possiede un peso specifico differente. L’espressione occidentale “ti amo” è come una moneta corrente, a volte troppo leggera, che suggella l’istante. La sua eco giapponese, “aishiteru”, è invece una soglia sacra, una vertigine. Non è una dichiarazione, ma un evento, carico di una gravità quasi testamentaria. Pronunciare significa indicare una promessa nell’eternità, e per questo la ci custodisce nel profondo, riservando a momenti che forse non arriveranno mai.

    La vita affettiva usa un altro lessico, quello del “suki desu”, un “mi piaci” che è in realtà un calmo riconoscimento, un porto sicuro che afferma il legame senza scatenare la tempesta. Poiché la parola è così densa, la vera comunicazione trasmigra altrove, in un regno quasi telepatico descritto dal concetto di “ishin-denshin”: “da un cuore, a un altro”. È l’ideale sublime di una connessione così pura da rendere la parola superflua; l’amore non si dichiara, ma si anticipa.

    Così, una dichiarazione può assumere la forma di un ofuro, un bagno caldo, il cui vapore accoglie la stanchezza della sera prima ancora che essa venga confessata. Può avere il sapore di un tè o di un caffè preferito, apparso come per magia mentre stai controllando le ultime carte per la riunione del giorno seguente seduto sul divano. Può essere il peso confortante del silenzio, condiviso su un treno affollato, dove la sola presenza diviene l’unico linguaggio necessario. Questi non sono solo semplici gesti, ma manifestazioni di una specifica lettura dell’anima. Chiedere, esplicitare il bisogno, romperebbe l’incantesimo, ammettendo un fallimento di quella connessione che è alla fine la prova stessa del legame.

    E in questo spazio di fiducia quasi assoluta, fiorisce un altro fiore enigmatico: amae, una forma di indulgente dipendenza. È il permesso tacito di mostrare una vulnerabilità quasi infantile, un capriccio, non come un segno di debolezza, ma come la sonda gettata nella sconfinata profondità della fiducia reciproca. L’atto di lamentarsi per un’inezia o di mostrarsi momentaneamente inetti diventa quasi rituale. La risposta, sempre indulgente e quasi protettiva, non è sottomissione, ma la più potente delle rassicurazioni come a voler dire:” il nostro legame e un rifugio così sicuro da poter accogliere anche questa tua fragilità”.

    L’occhio frettoloso non scorgerà che la superficie di questa danza. Vedrà solo due figure che non si cercano la mano in pubblico. Ma sotto quella quiete si cela un romanticismo che non ha bisogno di fuochi d’artificio, un fuoco che non necessita delle fiamme per testimoniare il proprio calore. È un’intimità intrecciata in migliaia di silenzi carichi di significato, di cure e di una complessa armonia tra protezione e abbandono. L’apice del sentimento, forse, non è trovare le parole giuste, ma raggiungere insieme quel luogo dove le parole non sono piu necessarie.

  • Un minuto di silenzio nel cuore pulsante di un’estate giapponese

    Un minuto di silenzio nel cuore pulsante di un’estate giapponese

    Il rito si rinnova, immutabile e necessario, ad ogni estate. Con l’avvicinarsi degli anniversari di Hiroshima e Nagasaki, gli schermi del Giappone si popolano di volti segnati dal tempo e scolpiti dalla memoria. Sono gli hibakusha, i sopravvissuti, i cui racconti squarciano il velo del tempo per ricondurci a quei giorni di fuoco e silenzio. Quest’anno, tuttavia, una voce si è levata rompendo la consuetudine del lutto, lasciandomi in eredità una domanda che ancora risuona dentro di me.

    Tra le innumerevoli interviste, la mia attenzione è stata catturata da una donna molto anziana, prossima al secolo di vita. Il suo volto era una mappa esistenziale di rughe profonde, ma il suo sguardo era terso, privo di quella nebbia che così spesso accompagna il ricordo di un trauma. Con una calma disarmante, si è rivolta alla giovane giornalista e ha pronunciato parole che hanno scardinato il fondamento di molte mie certezze. “Lei non può nemmeno immaginare che paese fosse il Giappone in quel periodo”, ha affermato. “Non biasimo e non incolpo nessuno per aver lanciato le bombe; non provo né odio né disprezzo nei loro confronti. Se noi giapponesi “ – e ricordo con assoluta precisione l’uso di quel “noi”, che la avvolgeva in una responsabilità collettiva – “avessimo avuto le stesse bombe, non avremmo esitato un solo istante ad usarle.”

    Quelle parole mi hanno lasciato attonito. Così lucide, così prive di qualsiasi vittimismo, provenivano da chi aveva attraversato l’inferno sulla Terra. Ne ho parlato con la nonna di mia moglie. Vive ad Isahaya, non lontano da Nagasaki. Lei non subì l’esplosione sulla sua pelle, ma la distruzione la vide con i propri occhi, e respirò l’aria greve di cenere e di perdita. Ascoltando il mio racconto, ha assentito con un cenno lento, carico di significato. “Quella donna ha ragione,” mi ha detto con la medesima, serena gravità. “La penso allo stesso modo. Tu conosci bene la situazione del Giappone in quel periodo, dovresti capirlo meglio di molti altri. Non provo alcun odio verso gli americani o i soldati che sganciarono le bombe. Eravamo tutti pedine.”

    “Eravamo tutti pedine”. Questa frase, saldata alla confessione della signora alla televisione. scava una voragine nella narrazione consolidata. Ci impone di guardare oltre il fungo atomico, di scrutare nel cuore del Giappone imperiale: un paese consumato da un’ideologia totalizzante, un nazionalismo fanatico che aveva elevato la morte per l’imperatore a onore supremo e la resa a disonore intollerabile. In un simile contesto, la compassione era debolezza e l’esitazione tradimento. La lucidità di due anziane non era un perdono concesso al nemico, ma un atto di spietata onestà storica verso se stesse e il proprio popolo. Era il riconoscimento che il germe della distruzione totale non albergava solo a bordo dell’Enola Gay, ma era stato coltivato e nutrito in casa, nel fertile terreno di un’intera nazione pronta al sacrificio ultimo, proprio e altrui.

    Prima di trasferirmi a Isahaya e poi qui a Sasebo, ho vissuto quasi un decennio a Nagasaki. Ho impresso nella memoria il rito del mokutō, il minuto di silenzio, ogni 9 agosto alle 11:02. Al suono acuto della sirena, un’onda di quiete innaturale si propaga e paralizza la città. Il traffico si congela, le conversazioni si estinguono, i gesti restano sospesi. Persino le cicale, metronomo assordante dell’estate nipponica, ammutoliscono. L’aria, densa e carica di umidità, sembra placarsi, trattenere il respiro. È una sensazione surreale, come se il tempo si contraesse su se stesso e per un istante il 1945 e il presente coincidessero in quella quiete assoluta. In quel silenzio, si onorano i morti, ma si contempla anche l’abisso. Le parole di quella anziana donna ora riempiono quel vuoto, conferendogli un significato più complesso e terribile.

    Passato il minuto, la bolla si infrange. La sirena tace e, come a un segnale convenuto, la vita riprende il suo flusso, rumorosa e calda come prima. Le auto ripartono, le cicale ricominciano il loro frinire assordante, il calore torna a opprimere. La vita prosegue, ma la memoria di quel silenzio rimane.

    Comprendo ora che quel silenzio non è un segno di rispetto per il lutto. È uno spazio sacro per la riflessione razionale, per accogliere verità scomode come quella che mi è stata offerta. Non si tratta di relativizzare o di creare false equivalenze, ma di afferrare la capacità umana, in determinate condizioni storiche e ideologiche, di diventare strumento di annientamento. Quella donna e la nonna di mia moglie non stavano assolvendo nessuno con le loro parole; stavano consegnando alla storia la verità più profonda e inquietante della guerra: che la logica della distruzione, una volta innescata, non conosce bandiera, e che chiunque, sentendosi investito di una giusta causa, può diventare un mostro. La loro non è l’eco dell’odio, ma il concentrato di una saggezza tragica: la consapevolezza di essere state, insieme ai loro stessi carnefici, ingranaggi di una macchina impazzita. E in questa consapevolezza risiede la lezione più potente, un monito che trascende il tempo e lo spazio, affidato a un minuto di silenzio nel cuore pulsante di un’estate giapponese.

    Sono anni che portavo dentro il desiderio di scrivere sulle tragedie delle due bombe atomiche. Volevo trovare le parole giuste, ma ogni brano che scrivevo mi sembrava vuoto, quasi irrispettoso nella sua inadeguatezza. Nessun tentativo riusciva a esprimere quello che realmente volevo dire, bloccato sul peso di un orrore che non si può raccontare. Poi ho ascoltato le parole di quella donna. La sua testimonianza, priva di odio e vittimismo, mi hanno offerto una prospettiva che non avevo mai considerato. Ho capito che non dovevo descrivere la disumanità della guerra, ma la straordinaria umanità di chi, avendola subita, ha scelto la pace. Sono state quelle parole a liberarmi, a permettermi di scrivere queste righe.

  • Puntare al futuro

    Puntare al futuro

    Nonostante i tanti anni trascorsi in Giappone, ci sono ancora piccoli gesti quotidiani che catturano la mia attenzione, invitandomi a riflettere come fossero silenziosi enigmi. Tra tutti, il più costante si manifesta sulla soglia di ogni casa, tempio, santuario e in ogni parcheggio: le scarpe, sfilate nel genkan, sono sempre allineate con una precisione quasi rituale, le punte rivolte verso l’uscita; le automobili, con coerenza sorprendente, sono parcheggiate quasi sempre in retromarcia, il muso già proiettato verso la strada.

    Per lungo tempo mi sono interrogato sul perché di un’usanza così radicata. Ne ho parlato con tanti giapponesi, da mia moglie ai miei colleghi, ricevendo risposte che, sebbene corrette, sembravano sempre parziali, frammenti di un quadro più grande. “È per essere più rapidi quando si esce”, mi spiegavano. “È semplicemente, shitsuke, buona educazione e disciplina personale, omoiyari, ovvero una forma di considerazione per gli altri, aggiungevano altri”. Spiegazioni valide, certo, ma sentivo che non riuscivano a cogliere l’anima di un gesto tanto universale quanto istintivo.

    Poi, qualche giorno fa, la memoria si è riaccesa. È bastato leggere un post di un mio stimato amico, Francesco Baldessari, per far riaffiorare una riflessione che avevo scritto anni fa. Le sue parole mi hanno riportato alla conclusione a cui ero giunto dopo le mie ricerche, una sintesi che finalmente dava un senso a tutto: dietro la pratica e l’etichetta si nasconde un’eredità ben più antica e complessa.

    In questo gesto sopravvive l’eco dei samurai, per cui la prontezza mentale e fisica (il kokorogamae) era una questione di vita o di morte: avere le calzature già orientate per la fuga poteva fare la differenza. La stessa mentalità di prontezza si riflette oggi nella necessità di poter lasciare un parcheggio all’istante in caso di allarme o pericolo. A questo si intreccia l’influenza dello shintoismo, che vede la casa come uno spazio sacro e puro (hare) e il genkan come la soglia sacra che lo protegge dal mondo esterno considerato carico di impurità (kegare); ordinare le scarpe diventa così una atto di profondo rispetto per questo confine. Infine vi è la disciplina silenziosa del buddismo zen, che insegna a compiere ogni azione, anche la più umile, con totale consapevolezza, trasformando il gesto banale in una forma di meditazione attiva.

    Alla fine, credo di aver compreso come tutte queste correnti – la sicurezza, il rispetto, la storia e la spiritualità – convergessero in un unico, potentissimo concetto, una filosofia racchiusa nelle seguenti parole giapponesi:

    次の行動への準備

    Tsugi no kōdō e no junbi

    La preparazione per l’azione successiva

    Ecco quella che secondo me può essere considerata come la vera chiave di volta. Non si tratta quindi di ottimizzare una via di uscita. Si tratta di una mentalità. L’atto di prepararsi non viene rimandato al momento del bisogno, ma viene anticipato, compiuto in un momento di calma. La manovra più complessa, il pensiero, lo sforzo, si concentrano all’arrivo, affinché la partenza sia fluida, sicura e priva di esitazioni. Quasi a voler plasmare il futuro agendo sul presente.

    È un atto di previdenza per se stessi, ma anche un profondo gesto di considerazione per gli altri, perché un’uscita di scena ordinata non crea né intralcio e disturbo. È un piccolo gesto che insegna come la preparazione del presente sia il più grande atto di rispetto verso il futuro. Il proprio e quello degli altri.

  • Leggere l’aria che non c’è più

    Leggere l’aria che non c’è più

    Sono passati più di dieci anni. A volte mi sembra ieri, a volte un’intera vita fa. Stasera siamo di nuovo qui, nella nostra solita izakaya soffocante di fumo di yakitori e risate educate. È un nomikai, uno dei tanti, eppure non è più la stessa cosa. Guardo i volti nuovi, ragazzi dai 18 ai 24 anni, appena usciti dal liceo o all’università. Parlano a voce bassa tra loro, ogni tanto lanciano un’occhiata allo smartphone appoggiato a faccia in giù sul tavolo, un gesto che dieci anni fa sarebbe stato un’eresia. Nessuno li riprende. L’aria è più leggera, meno carica di aspettative. Ed è proprio in questa leggerezza che sento il peso di ciò che manca.

    Manca il fantasma del bureikō.

    Ricordo i miei primi nomikai come un campo minato sociale. Io, gaijin volenteroso, cercavo disperatamente di decifrare codici che nessuno si prendeva la briga di spiegare. E poi, a un certo punto della serata, quando l’alcool aveva già fatto diversi giri, il buchō, il nostro capo divisione, si schiariva la voce e pronunciava la formula magica: “Konya wa bureikō da!”. “Stasera, nessuna formalità”. Sulla carta, era una liberazione. Un’amnistia temporanea dalle catene della gerarchia, un invito a svelare il proprio honne, i veri sentimenti seppellendo per qualche ora il tatemae, la maschera sociale che indossavamo ogni giorno in ufficio.

    Ma il bureikō non è mai stato sinonimo di libertà. Era un teatrino orchestrato, un’illusione di uguaglianza il cui scopo non era abbattere le gerarchie, ma rafforzarle in modo più subdolo. Era la prova del nove della tua intelligenza sociale, la tua capacità di kūki o yomu, di leggere l’aria. Dovevi capire fin dove potevi spingerti. Una battuta innocua sul golf del capo? Ammessa. Un commento sulla sua discutibile gestione dell’ultimo progetto? Suicidio professionale. Il bureikō ti dava la corda, ma eri tu a dover capire che non era per liberarti, ma per vedere se eri cosi stupido da impiccartici.

    Mi sono sempre chiesto da dove provenisse questa strana usanza. Non è un’invenzione del Giappone aziendale del dopoguerra. Le sua radici affondano più in profondità, forse negli antichi banchetti di corte, o nelle riunioni dei samurai prima di una battaglia. In una società verticalmente rigida, creare uno spazio controllato dove le tensioni potevano essere rilasciate era essenziale per la coesione del gruppo. Era un meccanismo di sopravvivenza sociale. L’azienda moderna, nel suo picco di crescita economica, non ha fatto altro che adottare questo modello, trasformando l’ufficio in un feudo e i dipendenti in un clan. La lealtà non era solo richiesta, era forgiata nel calore del sake e nel complesso gioco di ruolo delle nomikai. Il bureikō era il culmine di questo rito: un momento per sentirsi parte di qualcosa di più grande, un “noi” aziendale, anche se basato su una mera finzione.

    Oggi, guardo il giovane Tanaka-kun. Ha il bicchiere quasi vuoto., Dieci anni fa, sarei scattato in piedi per riempirglielo, un gesto di rispetto da senpai a kōhai. Ma oggi sono io il senpai, e lui non si aspetta nulla. Non è scortesia, è semplicemente un linguaggio che non parla più. La sua lealtà non è verso l’azienda-clan, ma verso il suo contratto di lavoro, il suo tempo libero, la sua vita al di fuori delle mura dell’ufficio. Il lavoro non è più l’identità totalizzante che era per la generazione dei miei buchō.

    Le nuove generazioni si stanno allontanando da questa tradizione non per ribellione attiva, ma per semplice indifferenza. La trovano inefficiente, stressante e, in fondo, inutile. Perché partecipare a un complesso rituale per esprimere un’opinione in modo velato, quando si può mandare un’email o, più probabilmente, parlare con gli amici su LINE? La pandemia ha dato il colpo di grazia, dimostrando che l’azienda poteva sopravvivere e prosperare anche senza queste liturgie alcoliche. Ha spezzato un’abitudine decennale e ha dato a tutti la scusa perfetta per non ricominciare.

    E così, mentre il fumo si dirada, mi rendo conto che ciò che stiamo perdendo non è solo un’usanza bizzarra. Stiamo forse perdendo un pezzo di DNA culturale che teneva insieme la società giapponese in un modo specifico: attraverso la gestione collettiva della pressione, la conformità ritualizzata e la condivisione di un codice non scritto. Forse è un bene. Forse una società più trasparente e meno basata su queste sottigliezze è una società più sana. Chi lo può dire. Eppure, in questa nuova quiete, in questa prevedibilità senza rischi, sento la nostalgia di quel brivido, di quella tensione, di quel momento in cui il capo dichiarava aperto il teatro del bureikō e tutti noi, attori consapevoli, iniziavano la nostra recita. Era estenuante, era ambiguo, ma era un modo di essere, insieme. Un modo che, silenziosamente, sta svanendo bicchiere dopo bicchiere.

  • Quando la lode è un martello

    Quando la lode è un martello

    Per uno straniero, ricevere un complimento pubblico o essere scelto come esempio di successo di fronte ai colleghi è quasi sempre motivo di orgoglio. Ci si sente riconosciuti, valorizzati. In Giappone, tuttavia, una situazione simile può trasformarsi in un momento di profondo imbarazzo, un’esperienza che un occidetale farebbe fatica a comprendere.

    Il fulcro di questo disagio risiede nel proverbio giapponese che reicita: “Il chiodo che sporge viene martellato”. Essere messi sotto i riflettori, anche per una lode, significa “sporgere” rispetto all’armonia del gruppo. In una cultura che valorizza l’umiltà, lo sforzo collettivo e il non disturbare l’equilibrio della comunità, essere lodati individualmente può essere interpretato in diversi modi, tutti comunque negativi per l’interessato.

    Innanzitutto, la persona lodata può sentirsi in colpa verso i colleghi, come se il successo individuale mettesse in ombra il contributo del team, temendo di suscitare invidia o risentimento. Invece di un “Bravo!”, nella sua testa risuona un “Perché proprio io? Ora gli altri penseranno che mi sente superiore”. In secondo luogo, l’individuo si sente sotto pressione per dover negare o sminuire il complimento in modo socialmente accettabile. Accettare apertamente una lode sarebbe visto come un atto di arroganza insopportabile. La persone di trova quindi costretta a una serie di frasi di circostanza come: “Tondemonai desu – “Niente affatto” o “Minasan no okage desu – “È tutto merito vostro”, sperando che l’attenzione si sposti da lui il più velocemente possibile.

    Uno straniero con le migliori intenzioni, potrebbe insistere nel complimento, pensando di essere incoraggiante. In realtà, sta solo prolungando l’agonia del suo interlocutore giapponese, “martellando” ancora più a fondo quel chiodo che desidera soltanto tornare a livello degli altri. È un silenzioso panico sociale che svolge dietro un sorriso tirato e ripetuti inchini, un’imbarazzante danza culturale che rimane, per la maggior parte degli stranieri, completamente invisibile.

    Riflettere su l’imbarazzo generato da un lode qui in Giappone significa avventurarsi in un paesaggio mentale dove tutte le nostre certezze occidentali sull’io e sul successo personale si dissolvono. Il panico silenzioso, la frenetica ricerca di umiltà, la danza sociale per deviare l’attenzione. Ma per comprendere il perché di questa reazione, bisogna scavare più a fondo, poiché non si tratta di tic della modernità, bensì di un’eco potente che risuona da un passato molto lontano.

    La risposta, come spesso accade quando si parla di cose Giapponesi, non risiede nel presente ma in un sedimento storico, plasmato da necessità pragmatiche prima ancora che da precetti filosofici. Immaginiamo per un istante il Giappone rurale di secoli fa, una nazione la cui sopravvivenza era legata a un’unica, esigente cultura: il riso. La risicoltura non è un’impresa per solitari; richiede un’incredibile e meticolosa cooperazione. Canali di irrigazione, semina, trapianto e raccolto dovevano essere coordinati alla perfezione all’interno del mura, il villaggio. Un singolo individuo che avesse agito per il proprio tornaconto, deviando l’acqua o anticipando i tempi, avrebbe potuto compromettere il sostentamento dell’intera comunità. In questo contesto, l’individualismo non era un’affermazione di libertà, ma una minaccia esistenziale. Il “chiodo che sporge” non era semplicemente anticonformista; era un pericolo per tutti. L’armonia non era un ideale per lo più astratto, ma la condizione necessaria per la sopravvivenza.

    Su questo pragmatismo agricolo si sono poi innestate le grandi correnti spirituali e filosofiche che hanno fornito una cornice morale a questa necessità materiale. Lo shintō, con la sua enfasi sulla purezza e sull’idea di una comunità legata a un luogo sacro, ha sempre considerato l’armonia del gruppo un valore supremo. Romperla significava creare una sorta di kegare, di impurità spirituale. Parallelamente, il buddismo, giunto sul suolo nipponico attraverso Cine e Corea, ha introdotto il concetto di muga, l’anatta, ovvero la vacuità dell’io, l’idea che l’ego e il desiderio di affermazione personale siano la radice di ogni sofferenza. Sminuire se stessi e i propri successi diventa allora non solo una norma sociale, ma anche un esercizio spirituale per trascendere l’illusione dell’ego e raggiungere la liberazione dalla sofferenza. A questa due correnti si è aggiunto in seguito il confucianesimo, che ha cementato una rigida etica sociale basata sulla lealtà, sul rispetto delle gerarchie e sul corretto adempimento del proprio ruolo all’interno della comunità. L’individuo esiste e trova il suo senso solo in relazione agli altri.

    Esiste un aneddoto storico, o meglio un sistema istituzionalizzato, che cristallizza questa mentalità in modo quasi spietato: il sistema dei gonin-gumi (五人組) perfezionato durante lo shogunato Tokugawa (1603-1868). In questo sistema, le famiglie venivano raggruppate in entità di cinque e rese collettivamente responsabili per le azioni, le tasse e il comportamento di ogni singolo membro. Se una persona commette un crimine o infrange una regola, l’intera unità veniva punita. Conformarsi, mimetizzarsi e assicurasi che nessuno “sporgesse” divenne una strategia di sopravvivenza non solo individuale, ma familiare e comunitaria. La pressione sociale non era solo un sentimento, ma una legge dello “Stato”.

    Questo imprinting non è svanito con la fine dello shogunato e l’avvento della modernità. È stato traslato con sorprendente efficacia dal villaggio rurale a molte aziende del XX secolo, dove la lealtà al gruppo e l’enfasi sul team sono diventati pilastri del miracolo economico del Giappone del dopoguerra. L’impiegato che oggi si sente a disagio per una lode, quindi, non sta semplicemente recitando una parte; sta inconsciamente rispondendo a un imperativo culturale forgiato da secoli di risaie, dottrine spirituali e controllo sociale. Quella che per molti stranieri è una semplice parola di incoraggiamento, per lui è una vibrazione che disturba una quiete secolare, un riflettore che lo isola pericolosamente dal rassicurante corpo della collettività. Comprendere questo sottile imbarazzo significa, in fondo, iniziare a comprendere l’anima del Giappone.

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