Ombrelli Rotti

Categoria: Animismo giapponese

  • Il posto di Dio nella vita dei giapponesi

    Hellisotherppl666 | Nure-onna ぬれ女 from Bakemono no e scroll Unknown artist  Edo period #nureonna #yokai #ukiyoe #obake #bakemono | Instagram

    Beh, se l’idea di Dio che hai in mente è quella del Dio cristiano, allora in Giappone non c’è posto per lui. I giapponesi non credono in un unico Dio al centro della realtà, che impone una morale universale. Credono invece che ci siano spiriti in ogni cosa — e che in qualche modo bisogna fare i conti con questi spiriti. Bisogna tenere conto della loro volontà, delle loro preferenze, dei loro umori. Potrebbero non gradire quello che stai facendo — oppure, al contrario, approvarlo.

    In altre parole, il mondo è vivo, e tutto ciò che esiste ha una volontà e uno scopo. È per questo che bisogna prestare attenzione a ciò che accade intorno a noi. E i giapponesi si relazionano con gli spiriti solo quando ne hanno bisogno. Se non hanno bisogno di nulla, in genere non lo fanno.

    Questo è il punto: in Giappone, la religione, così come la intendiamo noi, non esiste davvero. Esistono solo spiriti, ciascuno con una propria vita e una propria volontà.

    Vicino a casa mia c’è un piccolo negozio che vende oggetti usati. A me e ad altri stranieri piace molto — è pieno di cose interessanti — ma i giapponesi non ne sono entusiasti. Mia moglie, per esempio, dice che tutte le cose che porto a casa da lì 「宿ってる」 — c’è qualcosa di vivo dentro — e preferisce non avere a che fare con qualsiasi cosa sia.

    Ricordo una volta in cui avevo alcune statue africane nella mia stanza. Le portai al piano di sotto, nella stanza dove si trova il butsudan, l’altare in cui vivono i suoi antenati. Lei riportò subito le statue di sopra, dicendo che non era una buona idea mettere spiriti africani e spiriti giapponesi nella stessa stanza.

    I morti sono tutta un’altra categoria.

    Non sono semplicemente spiriti che vagano — sono parte della tua famiglia, anche se sono morti da decenni. Hai delle responsabilità nei loro confronti. Li nutri, parli con loro, mostri loro le cose. Spieghi cosa sta succedendo nella tua vita. Tieni accesa una luce, letteralmente, affinché non si sentano abbandonati. Non sono solo ricordati — sono presenti.

    Nel caso di mia moglie, i suoi genitori vivono nel butsudan. Ogni mattina porta loro del cibo, suona una campanella per salutarli e a volte si scusa con loro. Se compra qualcosa di nuovo, glielo mostra. Se succede qualcosa di brutto, glielo racconta. È una relazione quotidiana — non fede, non preghiera, non adorazione, ma continuità.

    Una volta, per esempio, mia moglie stava avendo dei problemi al lavoro. Tornata a casa, me ne parlò, e poi aggiunse:

    «A volte penso che sia colpa di mio padre. Non pulisco la sua tomba da tanti anni, magari è arrabbiato».

    Poi però si fermò e si rassicurò da sola:

    «No… papà non è così. Non è il tipo di persona che si arrabbierebbe per una cosa del genere».

    Questo mostra come anche gli spiriti di famiglia possano essere, a volte, una fonte di timore. Bisogna stare attenti, e dare loro ciò che desiderano. Questo è, in fondo, ciò che voglio dire.

    Un mio amico ha un punto di vista diverso. Spesso mi dice di essere preoccupato per suo padre, che è morto, perché i suoi figli vivono all’estero e non potranno prendersi cura della tomba. Anche questo dimostra che gli spiriti — persino quelli di famiglia — possono diventare motivo di inquietudine. Bisogna essere rispettosi, presenti, e assicurarsi di non abbandonarli.

    Ed è proprio qui che sta la differenza. La spiritualità giapponese non è un sistema di credenze, ma un sistema di relazioni — con i luoghi, con gli oggetti, con gli antenati, con le presenze invisibili che ci circondano.

    In questo senso, il Giappone non è un paese secolare. È qualcosa di molto più antico: un luogo in cui il mondo è ancora vivo.


  • Nagoshi no Harae

    Nagoshi no Harae

    Tra i riti più suggestivi del Giappone, il nagoshi no harae (夏越の祓), con il suo chi no wa kuguri (茅の輪くぐり), spicca per la sua semplicità e profondità. Celebrato nel mese di Giugno nei santuari shintoisti, questo rituale di purificazione offre ai fedeli l’occasione di liberarsi dalle impurità accumulate durante la prima metà dell’anno e di prepararsi ad affrontare i mesi successivi con rinnovata serenità. In questo articolo, vi guideremo alla scoperta di questo rituale, un viaggio attraverso le sue origini, il suo significato e il modo corretto per attraversare l’anello di erba sacra. Conosceremo inoltre i kataashiro, i simboli delle nostre colpe e sfortune, e comprenderemo il valore spirituale di questa antica tradizione.

    Che cos’è il Nagoshi no Harae?

    Il nagoshi no harae è una cerimonia di purificazione che si tiene alla fine di Giugno presso i santuari shintoisti. I partecipanti attraversano un anello di erba sacra, detto chi no wa kuguri, per purificarsi da peccati e impurità. L’anello di erba sacra è chiamato “chi no wa” e viene realizzato intrecciando erba chigaya, il miscanto.

    Nell’antica tradizione shintoista, si ritiene che le azioni quotidiane accumulino peccati e impurità. Per questo motivo, sin dai tempi antichi si è celebrata una cerimonia conosciuta come ooharae (大祓, “grande purificazione”) per purificare questi peccati e impurità. In Giappone, si celebrano due riti di purificazione durante l’anno, quello che si tiene a fine Giugno si chiama nagoshi no harae (夏越の祓, “grande purificazione estiva”), mentre quella che si tiene a fine Dicembre si chiama toshikoshi no harae (年越の祓, “grande purificazione di capodanno”) o toshikoshi ooharae (年越大祓).

    Il nagoshi no harae non si limita a un rituale di purificazione, ma assume un valore più profondo. È un’occasione per esprimere riconoscenza per le benedizioni ricevute durante la prima metà dell’anno e per invocare salute e prosperità per i mesi a venire. Aperto a tutti e celebrato in santuari in tutto il Giappone, assume in alcuni casi un’atmosfera festosa, diventando un evento atteso da molti come un vero e proprio festival estivo.

    Il significato del passaggio attraverso l’anello

    La leggenda di Somin Shōrai

    Il chi no wa kuguri, il rituale del passaggio attraverso l’anello di miscanto che i giapponesi compiono durante il nagoshi no harae, affonda le sue radici nella ricca mitologia giapponese. Una leggenda narra di un viaggiatore in cerca di un posto dove riposare che si imbatté in due fratelli. Il minore, nonostante la sua ricchezza, lo respinse con durezza, mentre il maggiore, Somin Shōrai (蘇民将来), sebbene in condizioni economiche disagiate, lo accolse con generosità.

    Fonte: Wikipedia

    La leggenda narra che il viaggiatore stanco che bussò alla porta di Somin Shōrai non era un semplice uomo, ma la potente divinità shintoista Mutō no Kami (武塔神), conosciuta anche come Mutō Tenjin (武塔天神) o Susanoo no Mikoto (須佐之男命). Profondamente toccato dalla gentilezza e dall’ospitalità di Somin Shōrai, Mutō no Kami gli donò un anello di chigaya, come segno di gratitudine e protezione. L’uomo, seguendo gli insegnamenti del viandante divino, indossò l’anello intorno alla vita e, grazie a questo, riuscì a sfuggire all’epidemia che colpì la sua regione e a prosperare per generazioni.

    Ispirata da questa leggenda, la gente iniziò a praticare il chi no wa kuguri e ad affiggere gli ofuda (御札, dei talismani) ispirati a Somin Shōrai all’ingresso delle proprie case durante il mese di Giugno. La leggenda di Somin Shōrai ha diverse varianti e rappresenta anche la base del famoso Gion Matsuri (祇園祭) di Kyōto. Secondo la versione legata al rinomato festival, Gozu Tennō (un altro nome di Mutōshin), dopo aver ricevuto ospitalità dalla famiglia di Somin Shōrai, gli suggerì di scrivere la frase “Somin Shōrai no shison nari” (“Qui vivono i discendenti di Somin Shōrai“) in lettere d’oro su carta rossa. Seguendo il consiglio, la famiglia di Somin Shōrai fu risparmiata da un’epidemia che colpì la città, mentre la famiglia del fratello maggiore avido, Gotan Shōrai (che aveva rifiutato di ospitare il viaggiatore), fu completamente decimata.

    Ancora oggi, a Kyōto, molti abitanti preservano la tradizione di appendere alle loro case dei fuda, talismani realizzati con fili di miscanto intrecciati noti come chimaki (粽), come simbolo della loro discendenza da Somin Shōrai.

    L’ ofuda riporta la scritta: Somin Shōrai no shison nari
    Fonte: Kyōto Yasaka Jinja

    Come si attraversa il chi no wa?

    Foto dell’autore. Isahaya Jinja, Nagasaki-ken

    Il rituale del chi no wa kuguri prevede solitamente tre passaggi attraverso l’anello di miscanto, disegnando un otto. Il primo passaggio avviene da sinistra a destra, seguito da un secondo passaggio da destra verso sinistra, per poi concludere con un ultimo passaggio a sinistra per poi procedere verso il seguente anello che si trova di fronte al luogo di preghiera. Esistono però alcune varianti a seconda del santuario. Ecco come si svolge il rituale nel santuario della mia città.

    Foto dell’autore. Isahaya Jinja, Nagasaki-ken
    • Prima di attraversare il chi no wa, ci si inchina e successivamente, si passa attraverso l’anello da sinistra a destra recitando le seguenti parole, per poi tornare di fronte all’anello.

    水無月の夏越の祓する人は千歳の命延ぶと云うなり

    Minazuki no nagoshi no haraesuru hito ha chitose no inochi nobutoiu nari

    Chi compie la purificazione d’estate durante Minazuki (Giugno) possa allungare la propria vita fino a mille anni.

    • Anche la seconda volta, ci si inchina e attraversando  l’anello questa volta da destra a sinistra, per poi tornare davanti a quest’ ultimo si recitano le seguenti parole:

    思ふこと みな尽きねとて 麻の葉を 切りに切りても 祓ひつるかな

    Omou koto minatsuki netote asanohawo  kirinikiritemo haraitsurukana

    Come se tutti i pensieri appartenessero al sesto mese lunare, si purificano tagliando e tagliando le foglie di chigaya.

    • Al terzo paesaggio, ci si inchina e si attraversa da sinistra a destra, tornando poi davanti all’anello recitando le seguenti parole:

    蘇民将来 蘇民将来

    Somin Shōrai Somin Shōrai

    Ripetere più volte il nome di Somin Shōrai sembra sia visto come un modo per ottenere fortuna o successo, proprio come Somin fu in grado di sfuggire alla carestia che colpi il suo paese.

    • Infine, ci si inchina nuovamente, si attraversa l’anello e si procede al seguente anello che di solito si trova di fronte al luogo di preghiera del santuario.

    Le frasi che vengono ripetute ad ogni passaggio sono dette tonaekotoba (唱え詞) e possono variare da regione a regione.

    La purificazione con i katashiro durante il nagoshi no harae

    I katashiro (形代), noti anche come hitokata (人形, bambole), sono figure simboliche a forma umana, tipicamente realizzate in carta, ma a volte anche in altri materiali. La loro forma e decorazione variano a seconda del loro scopo.

    I katashiro, semplici oggetti di carta, rivestono un ruolo fondamentale nei riti di purificazione shintoisti. Questi sono un tipo di yorishiro (依代), ovvero rappresentazioni simboliche, che fungono da tramite tra l’individuo e il kami, assorbendo le impurità e le negatività che gravano sul primo. Attraverso il gesto di strofinare il katashiro sul proprio corpo o di soffiare su di esso, la persona trasferisce le proprie colpe (罪, tsumi) e le contaminazioni (穢れ, kegare) su questo sostituto, liberandosi simbolicamente dal loro peso. Il successivo getto del katashiro in acqua rappresenta l’allontanamento definitivo delle impurità, purificando l’individuo e ripristinando la sua armonia interiore.

    Oltre al loro ruolo nella purificazione rituale, i katashiro trovano impiego anche in pratiche volte ad allontanare il maleficio e la sfortuna. In caso di periodi di negatività o sfortuna persistenti, un katashiro può essere utilizzato per assorbire le energie negative o prevenire ulteriori eventi avversi. Se si sospetta di essere vittima di una maledizione, la creazione di un katashiro come bersaglio alternativo può fungere da esca, attirando su di esso gli effetti malefici al posto della persona designata.

    Inoltre, i katashiro possono assumere un ruolo centrale in incantesimi e maledizioni, sostituendo un bersaglio umano reale. In questi casi, la bambola di carta viene spesso annotata con il nome, la data di nascita e altre informazioni personali della persona che si desidera colpire. L’esecuzione dell’incantesimo sul katashiro indirizza gli effetti desiderati sulla persona reale rappresentata.

    Nella tradizione shintoista, l’utilizzo dei katashiro per scopi malvagi, come maledizioni o incantesimi di negatività, è severamente sconsigliato. I katashiro, infatti, rivestono un ruolo sacro e purificatore, e il loro impiego per causare danno ad altri contraddice l’essenza stessa della spiritualità shintoista che pone grande enfasi sul rispetto e sulla compassione, valori che vengono profondamente violati da simili pratiche.

    La pratica di purificazione utilizzando i katashiro affonda le sue radici nella storia giapponese, risalendo al periodo Nara e Heian (710-1185 d.C.). Testimonianze storiche attestano l’utilizzo di questi oggetti rituali come metodo tradizionale di purificazione sin da quell’epoca.

    Durante il periodo Heian, un rituale chiamato “nanase no harai” (七瀬の祓え, letteralmente “purificazione delle sette maree”) veniva celebrato mensilmente a corte. Un maestro di divinazione Yin-Yang, noto come onmyōji, offriva un katashiro o hitokata all’imperatore, il quale soffiava su di esso e lo strofinava sul proprio corpo per trasferire simbolicamente le calamità che affliggevano il paese. Infine, il katashiro veniva gettato in mare o in un fiume, liberando così il paese da sfortune e negatività.

    Ancora oggi, i katashiro trovano impiego in diverse cerimonie di purificazione, come il nagoshi no harae. In queste occasioni, i fedeli passano attraverso un anello rituale e utilizzano i katashiro per assorbire le proprie colpe, impurità e sfortune. Questi oggetti vengono poi purificati e gettati in acqua o bruciati in un rituale finale.

    L’adattabilità dell’utilizzò rituale dei katashiro si manifesta anche in forme più moderne. In molti luoghi è possibile purificare le proprie automobili utilizzando dei katashiro a forma di auto, chiamati kuruma katashiro (車形代). Inoltre, sono recentemente comparsi katashiro pensati per gli animali domestici, dimostrando la capacità di questo rituale di evolversi e rispondere alle esigenze contemporanee.

    Foto dell’autore. Isahaya Jinja, Nagasaki-ken

    Durante la cerimonia di purificazione i peccati e le impurità accumulate nei primi sei mesi dell’anno possono essere purificati trasferendoli su un katashiro, hitokata attraverso due semplici gesti:

    1. Si strofina il katashiro su tutto il corpo, prestando particolare attenzione alle zone dolenti o malate.

    2. Infine, concentrandosi sull’intenzione di trasferire i peccati, le impurità e i dolori del corpo si soffia sul katashiro tre volte dicendo “fuuu“. Si ritiene che questo atto trasferisca sul katashiro tutti i peccati, le impurità e i dolori del corpo.

    Come si vede nella foto i katashiro riprendono i cinque colori dello Shintō (verde, giallo, rosso, bianco e viola) tipici dei masakaki (真榊), i stendardi colorati che si vedono spesso appesi nei santuari.

    A tutti i partecipanti del rituale di purificazione con il katashiro, viene dato un chi no wa mamori (茅の輪守り) un amuleto che deve essere riconsegnato al santuario durante il capodanno per esser bruciato.

    Chi no wa mamori, Isahaya Jinja, Nagasaki-ken

    Il minazuki, una dolce tradizione di Kyōto

    Durante il periodo del nagoshi no harae, a Kyōto si può gustare un dolce speciale che prende il nome dal sesto mese dell’antico calendario lunare Giappone, il minazuki.

    Fonte: maff

    Nell’antico Giappone, durante il koori no sekku (氷の節句), la festa del primo gelo, i nobili di corte consumavano il ghiaccio conservato nelle ghiacciaie, le himuro (氷室), per augurare un’estate serena. Per la gente comune, però, il ghiaccio era un lusso inarrivabile. Ecco perché a Kyōto nacque il minazuki, un dolce che rievocava la freschezza del ghiaccio con la sua forma e il suo nome, “sesto mese”, e che veniva decorato con fagioli rossi, simbolo di buon auspicio.

    Si dice che gustare il minazuki in questa occasione porti salute e fortuna per il resto dell’anno, motivo per cui è diventato un alimento rituale durante il nagoshi no harae.

    Il nagoshi no harae è un’occasione per esprimere gratitudine per aver trascorso la prima metà dell’anno in salute e per pregare per un futuro altrettanto prospero. Si tratta di un evento ricco di significato, che ci permette di immergerci nelle tradizioni stagionali e di vivere appieno la bellezza di questo periodo. Attraverso rituali come il passaggio attraverso il chi no wa e mangiando il minazuki, possiamo celebrare la fine di una parte dell’anno e accogliere con gioia quello successivo.


  • Perché i fantasmi del folklore giapponese indossano spesso un kimono bianco?

    Perché i fantasmi del folklore giapponese indossano spesso un kimono bianco?

    Shinishōzoku, l’abito dei defunti 

    Prima di parlare del shinishōzoku mi permetto una breve introduzione sul concetto di morte, di aldilà e di fantasma nella cultura giapponese.

    La morte e l’oltretomba nella cultura giapponese

    Nella tradizione giapponese, la morte assume un ruolo centrale, quasi equiparabile all’importanza della vita stessa. Il trapasso segna l’inizio di un viaggio spirituale verso l’aldilà, dove l’anima del defunto si avventura nello yominokuni (黄泉の国), l’oltretomba shintoista, o nell’ anoyo (あの世), la terra pura del Buddhismo. Tuttavia, questo percorso non è privo di insidie: ostacoli e difficoltà possono intrappolare lo spirito, condannandolo a vagare come uno yūrei (幽霊), un fantasma tormentato, figura che ricorre frequentemente nel folklore giapponese.

    Intrappolate in un limbo tra l’esistenza terrena e l’aldilà, queste figure tormentate hanno assunto un ruolo di primaria importanza nell’immaginario nipponico, divenendo protagoniste di innumerevoli storie e leggende permeando con la loro presenza la cultura popolare giapponese.

    Tormentati da un’eterna inquietudine, gli yūrei sono gli spiriti di coloro che non hanno trovato pace dopo la morte. Spesso li si vede vagare alla ricerca di vendetta o punizione per i torti subiti in vita. La tradizione shintō insegna che dentro di noi risiede un kami, simile all’anima che pervade il nostro corpo fisico. Al cessar della vita, il kami si libera dalla sua veste terrena.

    Questo spirito deve raggiungere l’aldilà, ma il viaggio può essere arduo. Per questo motivo, in Giappone, quando un membro della famiglia muore, i parenti in vita devono vegliare sul defunto, aiutarlo e accompagnarlo nel suo viaggio verso l’aldilà attraverso specifici rituali, detti kuyō (供養). Una volta superati tutti gli ostacoli per raggiungere l’aldilà, questo antenato veglierà a sua volta sui suoi discendenti sulla terra per proteggerli da qualsiasi sventura.

    Tuttavia, coloro che hanno subito una morte innaturale, lasciando questioni aperte o non avendo avuto un funerale adeguato, potrebbero rimanere intrappolati tra la vita e la morte. Di conseguenza, gli yūrei sono queste anime tormentate, definite come disconnesse, che non troveranno pace finché non risolveranno i loro problemi terreni.

    Il termine yurei deriva dalla combinazione di due kanji: 幽 (), che significa “oscuro” o “tenebroso”, e 霊 (rei), che significa “anima” o “spirito”. Un yūrei generalmente assume una forma umana priva di piedi e fluttua nell’aria. Inoltre, è caratterizzato da lunghi capelli neri e indossa un kimono bianco, simile a quelli utilizzati durante i riti funebri. Può presentare anche delle deformità, in quanto conserva l’aspetto che aveva al momento del decesso.

    Nella cultura giapponese, la collera dei defunti che non riescono a trovare riposo è sempre stata fonte di timore. Per tale ragione, ogni volta che un imperatore decedeva, si rendeva necessario il trasferimento in un nuovo palazzo, poiché si credeva che lo yūrei del precedente imperatore potesse tormentare il suo successore.

    Lo stesso discorso valeva per un celebre rituale suicida, il seppuku (切腹): quando un samurai subiva una sconfitta in battaglia, gli era concessa la possibilità di morire “con dignità”, non per mano del nemico, ma per sua stessa mano. In questo modo, si credeva di evitare anche la potenziale comparsa di uno yūrei vendicativo dopo la sua morte.

    Shinishōzoku, l’abito dei defunti

    Il kyōkatabira

    http://www.kyohaku.go.jp

    Il kimono bianco che la maggior parte dei giapponesi indossa al momento della sepoltura è chiamato kyōkatabira  (経帷子). La parola stessa è composta da due kanji: kyō in riferimento ai sutra buddisti e katabira (帷子) che indica un kimono leggero senza fodera, che veniva  indossato in occasioni informali, spesso in casa.

    Nato dalla fibra grezza della canapa, il katabira trovò la sua ascesa durante il periodo Heian (794-1185). In questo periodo, il bianco del katabira assunse un significato più profondo, divenendo espressione di un connubio tra le tradizioni shintoiste e buddiste. L’imperatore, durante le cerimonie sacre, sfoggiava un byakue (白衣), un kimono bianco di seta, mentre i sacerdoti shintoisti adottarono un abito simile, il jōe (浄衣), che significa “abito purificato”. Ancora oggi, le spose nel giorno delle nozze velano la loro bellezza con uno shiromuku (白無垢), un kimono bianco simbolo di purezza immacolata.

    I preti buddisti, in contrapposizione alle sete pregiate del byakue e del jōe, preferirono la canapa grezza per i loro abiti, dando vita al kyōkatabira. Questo katabira, recante incisi sutra buddisti, divenne l’indumento distintivo dei pellegrini buddisti durante i loro viaggi in Giappone, simboleggiano la purezza e la dedizione al loro cammino spirituale. 

    Bianco, il colore della purezza

    Nel paese del sol levante, il bianco domina la scena dei funerali. Ma perché questa scelta cromatica? Le ragioni si intrecciano con la tradizione e la simbologia. Il bianco, emblema di purezza e distacco dal mondo terreno, si contrappone al rosso, simbolo di vita e vitalità, secondo il principio del kōhaku (紅白). Un binomio che accompagna il defunto nel suo passaggio verso l’aldilà.

    Come ho già scritto in altri articoli, il bianco rappresenta da tempo immemore la purezza, in particolare quella rituale. Lo Shintō pone grande enfasi sulla pulizia e la purificazione. Infatti, in molti santuari shintoisti troviamo un luogo dedicato alle abluzioni, un rito da compiere prima di entrare.

    La purezza rituale va oltre il semplice bagno, seppur parte importante della tradizione giapponese. Per raggiungerla, è necessario liberarsi dal kegare (穢れ), le “impurità”, attraverso una serie di riti specifici condotti da un sacerdote. Il kimono bianco, simbolo visibile di purezza, è riservato a tre categorie: sacerdoti, spose e defunti (veniva indossato anche da chi si apprestava a commettere il seppuku).

    Il bianco è anche il colore associato agli yūrei, i fantasmi.

    L’abito dei defunti

    Come abbiamo già approfondito diverse volte all’interno del nostro blog, il Buddismo arrivò in Giappone intorno al VII secolo d.C. e trovò terreno fertile per diffondersi. Incontrando lo Shintoismo, religione già radicata nel paese, diede vita a un sincretismo unico (神仏習合, shinbutsu-shūgō), ben distinto dalle sue origini.

    Nel corso dei secoli, shintoismo e buddismo si separarono, assumendo ruoli differenti: i kami dello shintoismo proteggono i viventi, mentre le divinità buddiste si prendono cura delle anime dei defunti. Il buddismo divenne così protagonista dei riti funebri, tradizione che ancora oggi caratterizza la cultura giapponese.

    Nella tradizione buddista, la morte non segna la fine, ma l’inizio di un nuovo ciclo di esistenza (輪廻転生, rinne-tensei). In Giappone, i fedeli buddhisti onoravano questa credenza vestendo i defunti come fossero dei pellegrini in procinto di intraprendere il loro ultimo viaggio, conosciuto come li shidenotabi (死出の旅), letteralmente “il viaggio finale verso la morte”. L’abito indossato, lo shinishōzoku (死装束), aveva un significato preciso: “l’abito di chi va incontro alla morte”.

    Lo shinishōzoku 

    Tutti gli elemento che compongono lo shinishōzoku, l’abito tradizionale buddista per i defunti in Giappone, hanno un significato simbolico preciso. 

    Il kyōkatabira, conosciuto anche come shirokatabira (白帷子), un kimono bianco, rappresenta la purezza del defunto. I sutra scritti all’interno offrono preghiere per il suo passaggio nell’aldilà. Guanti (手甲, tekkō) e ghette (脚絆, kyahan) proteggono il corpo durante il viaggio. Un cappello di paglia (網笠, amigasa) protegge dal sole, mentre calzini (足袋, tabi) e zoccoli (草履, zōri) facilitano il cammino. Un bastone (杖, tsue),nella mano dominante, offre sostegno al defunto e il juzu (数珠), nell’altra mano. Una borsello detto sudabukuro (頭陀袋) contiene sei monete di carta conosciute come rokumonsen (六文銭) per il pagamento per il traghetto sul fiume Sanzu (三途の川), che conduce nell’aldilà. Sulla fronte viene posto un panno bianco triangolare detto tenkan (天冠).

    http://www.kyouten.co.jp

    Si dice che i monaci scrivessero le scritture per cancellare i peccati commessi in vita e per ottenere una buona illuminazione. Le donne della famiglia del defunto si riunivano per cucire a mano il kyōkatabira. C’erano delle regole ben precise: non si potevano usare lame per tagliare il tessuto, non si potevano usare spille da balia e non si potevano fare nodi con il filo.

    Nella tradizione giapponese, la piegatura di yukata e kimono segue una regola precisa: “sinistra su destra” per i vivi, “destra su sinistra” per i defunti. Mia moglie mi ha spiegato che questa tradizione deriva dal passato quando il modo in cui si piegava il kimono era un modo visibile per mostrare il proprio rango sociale. Le persone di corte erano solite piegare il kimono sinistra su destra mentre le persone comuni, specialmente i lavoratori per favorire i movimenti, erano soliti piegarlo da destra su sinistra.

    Mi preme ricordare che lo shinishōzoku qui sopra descritto appartiene alla tradizione giapponese e non è detto che sia mandatoriamente seguito al giorno d’oggi. A volte viene fatto indossare al defunto sotto gli abiti da lui preferiti mentre era in vita.

    Nelle cerimonie funebri shintoiste, la consuetudine prevede l’utilizzo di una manica corta bianca e dello shaku (笏,il bastone cerimoniale), richiamando l’abbigliamento dei sacerdoti shintoisti prima della deposizione nella bara. Tale pratica trova la sua origine nella tardiva legittimazione dei funerali shintoisti, risalente al periodo Meiji, che ha portato all’appropriazione di diverse tradizioni buddhiste preesistenti dalle quali lo shintoismo ha attinto.

    Il tenkan

    Che cos’è il tenkan?

    Il tenkan è un elemento iconico della rappresentazione dei fantasmi nella cultura giapponese. La sua forma triangolare e il suo colore bianco sono spesso associati a concetti di morte, spiritualità e purificazione. Tuttavia, il significato preciso del tenkan può variare a seconda del contesto e della storia in cui viene utilizzato.

    In alcune regioni è chiamato anche zukin (頭巾), hitaieboshi (額烏帽子) o kamikakushi (髪隠し). Fa parte del vestito funebre indossato dal defunto.

    Il tenkan che cinge la loro fronte può essere interpretato come una benda o una copertura per una ferita ricevuta al momento del decesso, oppure come un simbolo del trauma e della sofferenza patiti durante la loro vita terrena e rappresenta un elemento chiave nella tradizione funeraria giapponese. Le sue funzioni e il suo simbolismo sono molteplici, come testimoniano le diverse interpretazioni che ne emergono.

    1. Un segno di rispetto verso il Re Enma, figura venerata nell’oltretomba che giudica le anime dei dannati e assegna loro la pena che si sono meritati con le azioni compiute durante la loro vita
    2. Un mezzo per proteggere i defunti dalle forze oscure dell’inferno
    3. Un emblema di status sociale, che conferisce al defunto un’identità aristocratica nell’aldilà

    Il significato del termine tenkan non si riferisce esclusivamente alla striscia di stoffa bianca a forma di triangolo. Anche il copricapo indossato dalle bambole Hina viene chiamata tenkan, così come un elemento del costume del teatro No. Nel teatro No, il tenkan sembra essere utilizzato per i personaggi di alto rango o per rappresentare divinità e creature celesti.

    Sotto questa luce, il tenkan indossato dai defunti potrebbe rappresentare il desiderio degli antichi di “inviare i propri cari nell’aldilà con un aspetto nobile”.

    Il delicato atto di vestire il defunto con il kimono funebre rappresenta un momento cruciale nel complesso rituale funebre giapponese. Questa pratica, carica di simbolismo e significato culturale, assume due forme principali: la vestizione preliminare durante la pulizia del corpo in ospedale e la vestizione definitiva al momento della chiusura della bara, in presenza di familiari e parenti.

    La modalità di vestizione può variare: in alcuni casi, il kimono viene indossato correttamente, inserendo le braccia nelle maniche del defunto, mentre in altri viene semplicemente steso sul corpo. In alcune regioni, persiste la superstizione di vestire il defunto al rovescio, come a voler sottolineare il passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti.

    Ogni aspetto di questo rituale, dalla scelta del kimono al modo in cui viene indossato, è permeato di profondo significato e riflette il profondo rispetto e la cura che la cultura giapponese riserva ai propri defunti.

    In passato si credeva che gli spiriti dopo la morte siano masse di luce bianca e questo sembra abbia portato all’ associazione del kimono funebre al bianco degli spiriti.
    Inoltre, l’idea che i fantasmi indossano il kimono funebre si è diffusa nella società perché nelle storie di fantasmi e nelle rappresentazioni kabuki, i morti sono rappresentati indossando un kimono funebre per essere facilmente identificati come tali.

  • -kyō e -dō

    -kyō e -dō

    A ciascuno la sua strada

    Qualche giorno fa ho scritto un breve articolo sulla mia scoperta che la presenza del suffisso -dō dopo il nome di una disciplina giapponese non è neutrale, ma ha implicazioni precise che non vanno ignorate. 

    La scoperta mi ha aperto diverse porte, facendomi realizzare un’altra volta che penso di comprendere cose che in realtà non mi sono chiare. Ora spiego.

    Le dottrine e le “vie”

    Conosco diverse parole giapponesi che terminano con il suffisso “dō” (道), un carattere usato solo in composti che significa “via” o “cammino”. Ecco alcuni esempi:

    1. Judō (柔道), “la via morbida”, un’arte marziale che enfatizza la flessibilità e l’efficienza.

    2. Kendō (剣道): “la via della spada”, un’arte marziale che si concentra sull’uso della katana in bambù. Gli scolari in divisa da kndō 

    3. Aikidō (合気道) “la via dell’armonia spirituale”, un’arte marziale che mira ad armonizzare l’energia.

    4. Karatedō (空手道), ”la via della mano vuota”, un’arte marziale che impiega ogni parte del corpo per l’autodifesa senz’armi.

    5. Chadō (茶道) “la via del tè”, più comunemente conosciuta come la cerimonia del tè giapponese.

    6. Shodō (書道), “la via della scrittura”, l’arte giapponese della calligrafia.

    7. Ikebanadō (生け花道) “la via dell’ikebana”, l’arte giapponese di arrangiare i fiori.

    8. Shintō, nome di una religione spacciata per la più antica del popolo giapponese, in realtà un’invenzione dell’amministrazione Meiji. (Nota 1)

    Per spiegare un po’ meglio il significato di questo suffisso, -dō indica che, a differenza di quanto accade nel buddhismo, dove esistono e sono sempre esistiti i maestri ( a partire da Siddhartha Gautama), la conoscenza in Giappone viene associata col perseguire una via. Tale via ti darà un obiettivo e null’altro. Il resto dovrai trovarlo da solo nel percorrere la tua strada. Non ci sono insegnamenti, l’essenza della via è la tua crescita personale,  conseguenza diretta dei problemi che incontrerai e delle soluzioni che darai loro.

    Il pensiero e l’azione

    Sarebbe un errore a questo punto pensare che questo modo di pensare si limiti a queste poche arti. 

    Al contrario, l’enciclopedia della filosofia dell’Università di Stanford dichiara che l’unione di azione e pensiero è la caratteristica fondamentale della filosofia giapponese.

    Se questo è vero, e non ho ragione di pensare il contrario, la filosofia giapponese si limita al rapporto fra l’individuo e il mondo, un raggio di interessi molto inferiore a quello della filosofia europea, che si estende perlopiù al non umano, per capirlo e definirlo.

    Alla base delle manifestazioni di creatività giapponese che abbiamo visto c’è l’incontro con la realtà come momento di comprensione di se stessi. Nel modo di pensare del Giappone l’importante non è la riflessione astratta, quanto quella applicata appunto all’azione.

    Credo di avere un episodio tratto dalla mia vita personale che illustra bene il significato di via come appare nella filosofia giapponese. Sono falegname, scadente ma falegname, e mi sono autoimposto alcune condizioni di lavoro piuttosto scomode, ma che mi consentono di evitare di farmi male seriamente. Non uso utensili utensili elettrici, il che vuol dire che passo spesso ore a fare quanto altri fanno in un minuto, meglio di me e con una sega a nastro di costo modesto. Eppure la decisione di non usare utensili elettrici, ma solo una sega a mano Ryōba, originariamente presa per motivi di sicurezza, è stata una delle migliori della mia vita. Le difficoltà extra che mi sono andato a cercare mi hanno tutte insegnato qualcosa di utile. La prima è stata quanto duro e difficile sia essere un falegname, e quanto difficile sia mantenere una famiglia in questo modo. Lavori per due giorni per costituire un oggetto disponibile da qualche parte per metà di quello che hai speso, senza contare il tuo lavoro. 

    C’è di più, ovviamente. Costruire qualcosa di concreto, avere un obiettivo preciso in mente, necessitare di cose che non possedevi come la pazienza e l’accettazione serena che un errore può rendere inutili giorni di lavoro, ti cambiano. Per essere un buon falegname devi essere una persona migliore. I tuoi mobili rifletteranno la complessità e la ricchezza della tua personalità. I mille pali fra le ruote che ho trovato prima del successo mi sono stati molto utili in campi molto diversi dalla falegnameria. La pazienza è una dote utile un po’ dappertutto.

    Ed ora arriva finalmente l’episodio che avevo nominato in apertura. Avevo notato che molti dei pali usati dall’industria edilizia (2 by 4) qui in Giappone per costruire le case sono fatte in legno bianchissimo. Ho deciso quindi di tagliare uno di questi pali in fettine, ciascuna di dimensione 180 × 12 × 0,5 cm per farne scatole. La prima fetta mi è costata quattro ore di lavoro. Il legno era durissimo e fibroso, uno dei peggiori che avrei potuto scegliere. Non mi pento del mio fallimento. Ci sono due modi per imparare. Uno è la fortuna, l’altro è il fallimento.

    A modo mio, , ho trovato il mio “-dō,” la mia strada. ‘’

    Note

    1 Chi avesse dubbi in proposito può leggere Shinto in the History of Japanese Religion dell’insigne studioso Kuroda Toshio.

  • Il motto-mo

    Il motto-mo

    Dopo un periodo di pausa forzata causato dall’impatto della pandemia di COVID-19, le vivaci grida del motto-ji [モットモ爺, “nonno motto”] e dei bambini terrorizzati hanno di nuovo animato le case delle cittadine di Teguma [手熊] e Kakidomari [柿泊], situate nella zona occidentale di Nagasaki.

    Nelle aree menzionate, il setsubun [節分] è festeggiato attraverso una tradizione conosciuta come motto-mo [モットモ]. Questo rito, simile ad altri rituali associati al setsubun, è concepito per scacciare i demoni e attirare la fortuna.

    La nascita di questa tradizione non è documentata in fonti scritte; piuttosto, è stata tramandata oralmente da oltre cento anni. Ogni individuo che vi ha preso parte ha appreso questa tradizione dalle generazioni precedenti e a sua volta l’ha insegnata a quelle successive, creando così un legame duraturo tra passato e futuro.

    Nel 2015, il motto-mo è stato ufficialmente designato come patrimonio folkloristico immateriale nazionale [重要無形文化財, jūyōmukei-minzoku-bukazai], per il suo significato nel contesto delle caratteristiche regionali e dello sviluppo dei riti associati al setsubun.

    Le cittadine di Teguma e Kakidomari celebrano il setsubun rispettivamente il 2 e il 3 di Febbraio.

    Durante il rituale, un gruppo di tre persone, composto dal toshi-otoko [年男, “ragazzo dell’anno”], dalla fuku-musume [福娘, la “ragazza della fortuna”] e dal motto-mo ji [モットモ爺, il “nonno Motto-mo“], si reca in visita nelle case della zona.

    Il termine toshi-otoko [年男], che letteralmente significa “l’uomo dell’anno”, si riferisce a un individuo nato sotto lo stesso segno zodiacale (cinese) dell’anno in corso. In Giappone, il concetto di toshi-otoko si estende anche al capofamiglia maschile, responsabile della conduzione dei riti di fine anno.

    La fuku-musume [福娘], nota come la “ragazza della fortuna”, è una figura comune nei santuari giapponesi, spesso selezionata annualmente per distribuire gli amuleti portafortuna. Durante il motto-mo, indossa un kimono e il volto è dipinto di bianco. A Teguma, la fuku-musume può essere interpretata da un uomo travestito da ragazza, aggiungendo un tocco unico alla tradizione locale.

    Il motto-mo-ji [モットモ爺], letteralmente “nonno motto-mo“, si presenta con il volto dipinto di rosso e nero e indossa un copri abito chiamato shuro-mino [棕櫚蓑], fatto di foglie di palma di canapa intrecciate, un tempo utilizzato dai contadini della regione. Spesso, durante le celebrazioni, vengono anche indossate maschere per aggiungere ulteriore mistero e fascino alla tradizione.

    La prima persona ad entrare in casa è il toshi-otoko, il quale sparge i mame mentre urla “Oni ha soto!” [鬼は外!], ossia “fuori i demoni”, seguito dalla fuku-musume che grida “Fuku ha uchi!” [福は内!], “dentro la fortuna”. Questo momento simbolico marca l’inizio delle festività e dei rituali del setsubun.

    Infine, gridando motto-mooo! [モットモー!]”, il motto-mo ji fa il suo ingresso nella casa, battendo i piedi e picchiando il pavimento con un bastone, prendendo in braccio i bambini che piangono e si nascondono terrorizzati. Si crede che più i bambini piangono, più la famiglia sarà fortunata durante l’anno nuovo, mantenendo viva la tradizione e il folklore della festività del setsubun.

    La pratica di picchiare energicamente il pavimento con i piedi e un bastone, creando un forte rumore, ha lo scopo di placare gli spiriti maligni. Questo gesto condivide il medesimo significato dello shiko [四股], il cerimoniale eseguito dai lottatori di sumō quando alzano le gambe in aria e colpiscono con forza il terreno, un atto che simboleggia la purificazione e la scacciata delle energie negative.

    Quando i tre lasciano la casa, un accompagnatore dice “le divinità della fortuna sono venuti a trovarvi” e riceve un dono della famiglia.

    Sebbene in passato eventi simili al motto-mo siano stati tramandati in tutte le cittadine della penisola di Nishisonogi [西彼杵半島, “Nishisonogi Hantō“, dove sorge anche Nagasaki], negli ultimi decenni molte di queste celebrazioni sono state abbandonate a causa della mancanza di persone disponibili ad impegnarsi nel preservare e portare avanti tali tradizioni. Tuttavia, c’è speranza che con il rinnovato e crescente interesse per il folklore locale, possa esserci un ritorno e una rinascita di questi rituali nel futuro.

  • È vero che gli stranieri in Giappone sono considerati sporchi?

    È vero che gli stranieri in Giappone sono considerati sporchi?

    Prima di tutto vorrei specificare che non ho mai sentito un giapponese esprimersi in questi termini. Possono avere pensato che gli europei sono sporchi, ma non mi è mai stato detto. Quelle che seguono quindi sono mie opinioni, quello che penso i giapponesi pensino, non fatti.

    Per un giapponese probabilmente è sporco il fatto che non ci facciamo il bagno tutti i giorni. Per loro è impensabile. Il bagno è un rituale, forse il momento più bello della giornata. In Giappone è sporco portare le scarpe in casa. Nessuno lo farebbe. I giapponesi, perlomeno quelli della mia età, 70 anni, trovano inconcepibile defecare e fare il bagno nello stesso luogo fisico. Il gabinetto ed il bagno sono locali separati. Per mia moglie è sporco mettere un rotolo di carta igienica nuovo di pacca sul tavolo di cucina. Le cose vecchie son sporche, quindi gli anziani, almeno, non andrebbero mai da un robivecchi. Mia moglie e quelle dei miei amici si rifiutano persino di entrarvi.

    I giapponesi sono famosi per essere amanti dell’igiene e chi è stato in oriente sa che nulla di paragonabile al Sol Levante esiste nel resto dell’Asia. Gli abiti si portano una volta sola. È ben vero che con questo clima è bene farselo, ma ci sono città italiane con climi simili, eppure non vi vedo tanta solerzia. Tutte le donne fanno il bucato tutte le mattine: siamo una famiglia di tre persone e la lavatrice corre tutte le mattine. La lavatrice una volta si teneva fuori casa perché considerata essa stessa sporca.

    Dopo gli attacchi terroristici al gas nervino degli anni 90, dal Giappone sono scomparsi i cestini dell’immondizia. Si vedono cartacce e rifiuti per terra? No. I tifosi del calcio giapponese puliscono lo stadio prima di andarsene, anche in caso di partite internazionali che perdono. Vediamo la mia cucina. Su di una mensola ci sono il contenitore arancione del liquido lavapiatti, quello verde del sapone liquido per le mani, mentre il terzo è una confezione di alcol disinfettante, fatto specificamente per la cucina e di comune uso. Questa pulizia fa parte di un panorama generale di estrema attenzione all’ordine, la precisione, la pulizia, la correttezza.

    Tutte queste cose hanno origine da un singolo concetto, causa di innumerevoli problemi sociali ed origine di molti dei tratti migliori di questa cultura, un concetto così importante che penso sia bene spiegarlo all’inizio, una volta per tutte, in modo che possa fare da sfondo a tutti i miei post. Il concetto in questione è quello di contaminazione, in giapponese kegare.

    Un breve racconto di dare un’idea chiara della sua natura. Mia moglie fino a qualche anno fa disegnava calzini per un’azienda che si chiamava Renown. Essa poi fallí ma i suoi prodotti, di ottima qualità, vennero venduti fino a esaurimento dello stock. Un giorno la mia metà entrò in un negozio di lusso e sentire una conversazione fra un uomo e una donna:

    -Guarda che belli questi calzini. E costano poco.

    -È vero. Sono della Renown. Ehi, ma la Renown non è quella ditta che era fallita? Lascia perdere.

    -Hai ragione! Meglio lasciar perdere. Sono pieni di kegare. (Risparmiatevi le battute. Lo so anch’io a che parola assomiglia)

    in altri termini, il fatto che l’azienda che li aveva prodotti fosse fallita contaminava i calzini al punto da poter trasmettere la sfortuna della Renown ai loro acquirenti.

    Esso è un’energia negativa e funesta emanata da certi oggetti o eventi, per certi versi simile alla iettatura. Ottimi esempi sono il contatto con la morte, col sangue (e quindi le mestruazioni), le malattie infettive e la sporcizia. A causa del kegare è possibile trovarsi in uno stato equivalente a quello di peccato senza avere alcuna colpa. Se si rimane coinvolti in un incidente automobilistico e si è coperti dal sangue di un altro, che magari poi è morto, ma si è indenni, si è ugualmente carichi di kegare. Funziona insomma in modo simile alla radioattività. Il kegare è trasmissibile da persona a persona, attraverso gli abiti, il contatto diretto, le azioni o perfino nessuno di questi.

    Due idee ad esso legate sono lo tsumi 罪 e l’oharae お祓 え. Lo tsumi è superficialmente simile al peccato cristiano, e di fatto lo include come caso particolare, ma in ultima analisi è tutt’altra cosa perché non implica necessariamente responsabilità morale. Avere rapporti sessuali con una donna mestruante, ad esempio, è uno tsumi che genera kegare. La fonte più comune di kegare al giorno d’oggi è probabilmente un funerale. I funerali sono così carichi di kegare che ogni gesto, ogni utensile utilizzato nel corso della cerimonia non è utilizzabile in qualsiasi altra circostanza. Chi partecipa deve poi purificarsi con sale.

    ​Lo oharae è il nome della cerimonia con cui il kegare viene lavato via. Ne esistono di diversi tipi e il più delle volte la soluzione è qualcosa di semplice, ad esempio fare un’offerta. Di qui la passione giapponese per le cose bianche e nuove. Di qui il disprezzo per tutto quello che è vecchio. Una cosa antica è una cosa da buttare e un mio conoscente che, pur essendo giapponese, fa l’antiquario mi assicura che molti dei suoi clienti sono stranieri e che gli eventuali accompagnatori giapponesi preferiscono spesso rimanere fuori dalla porta mentre l’amico foresto fa compere. L’usato respinge molti.

    Tutti abbiamo sentito storie di ciliegie in vendita a 200 euro l’una. Queste storie, anche se non esattamente all’ordine del giorno, sono nondimeno vere. La ragione per cui esistono giapponesi disposti a pagare certe cifre è che sono primizie. Una fragola in febbraio annuncia la bella stagione, parla di vita, di resurrezione, di primavera. Il contrario del kegare.

    Storicamente, il kegare ha avuto effetti calamitosi ed è direttamente responsabile di tre problemi sociali diversi.

    I burakumin

    Il primo è quello dei cosiddetti burakumin, i fuoricasta giapponesi. Si trattava inizialmente di persone adibite alla rimozione di corpi durante una epidemia a Kyoto. La loro presenza si consolidò con gli anni. Finirono con l’essere addetti alla macellatura e alla conceria delle pelli.  I macellai erano contaminati dal loro lavoro al di là di ogni possibile emancipazione. Non erano una casta bassa, ma dei fuoricasta. Avevano una società loro, separata da quella normale. Per questo erano chiamati Eta (穢多), tanto kegare.  Paradossalmente, il monopolio della produzione del cuoio li rese ricchi, ma questo non cambiò nulla. Lafcadio Hearn, il migliore ma quasi dimenticato osservatore del Giappone, descrive un loro villaggio. Lindo, ordinato, in tutto e per tutto come gli altri.

    Lungi da essere un retaggio del passato, il kegare è un concetto essenziale per interpretare correttamente il Giappone.Un oggetto trovato viene di rado raccolto, anche se costoso, perché possibile fonte di kegare.

    Condizione della donna

    il secondo problema causato dal concetto di contaminazione non è esclusivo del Giappone ma è conosciuto anche da noi. La condizione della donna deriva in parte dal fatto che mestrua. In molte culture il nesso fra mestruazioni, parto, e sesso non è chiaro, quello che è chiaro invece è che la donna ogni mese perde sangue direttamente dall’interno del suo corpo. Questo non sembra farle male, ma è ugualmente una forma chiara di kegare.

    Anni fa stavo cenando con alcune amiche (tutti i miei amici giapponesi sono di sesso femminile) quando ho sentito una di loro parlare con un’altra, dicendo che suo marito le aveva detto che “le donne sono sporche”. Io ho capito immediatamente che non stava parlando di sporcizia fisica. In quel senso, non c’è dubbio, se qualcuno è sporco sono i maschi.

    Parlava della contaminazione profonda dovuta alle mestruazioni. Lei, più che comprensibilmente offesa, gli ha subito risposto che questo poteva anche essere vero, ma che ugualmente anche lui era nato di donna. Il problema femminile quindi è più grave che altrove. Qualche anno fa durante un incontro di sumo un arbitro si era sentito male. Una donna, unico medico presente, è salita sul ring, cosa assolutamente proibita proprio a causa di questo kegare. L’impianto voci le ha immediatamente intimato di uscire… La cosa è meno significativa di quello che sembra, perché l’ambiente del sumo è uno dei più conservatori del Giappone, inoltre la cosa ha fatto un enorme scandalo. Non è possibile però negare che la questione esista.

    Spreco

    Il terzo problema è lo spreco. Chi conosce i giapponesi sa quanto siano parchi, frugali e semplici nelle loro abitudini. Per esempio, non credo di avere mai visto un giapponese lasciare qualcosa sul piatto. Si mangia tutto. Le agende che mia moglie gettano dopo anni di uso, quando lo spazio finisce, sono come nuove. Questo vale per tutte le giapponesi che conosco. Come spiegare allora la loro tendenza indubbia a gettar via cose nuove? Col fatto che nessuno le vorrebbe. Come mai la mania per le primizie? Perché una persona è disposta a pagare 200 € per una ciliegia? Perché sono nuove e quindi “pure”. Tutte queste domande hanno la loro risposta nel kegare.

    Un’ultima storia, poi stacco. Una mia conoscente ha purificato il suo appartamento prima di lasciarlo, per essere certa di non lasciare alcuna traccia di kegare ai nuovi inquilini.

    Il kegare, poi, insieme alla paura delle anime dei morti contribuisce a una situazione di continua paranoia caratteristica di questo paese.

  • Piccolo dizionario di termini attinenti la religione in Giappone

    Piccolo dizionario di termini attinenti la religione in Giappone

     

    Amida Nyorai

     

    Giapponese scritto: 阿弥陀如来

    Divinità venerata dalla scuola buddista Jōdo. Appartiene al gruppo dei tathagata (detti anche buddha, nyorai in giapponese), cioè coloro che hanno già raggiunto l’illuminazione. A Kamakura è venerato, tra gli altri, a Hasedera, Kōtokuin e An ‘yōin, tutti templi Jōdo.

    Il gruppo nella foto è chiamato Sanzebutsu (三世佛, o i Buddha delle Tre Ere). Essi sono, da sinistra a destra, Amida (buddha del passato), Shaka (buddha del presente) e Miroku (buddha del futuro). 

     

    Amida Sanzon

    Giapponese scritto: 阿弥陀三尊

    Un trio di statue, in piedi o sedute, con il nyorai Amida al centro. I due assistenti sono solitamente il bosatsu Kannon a sinistra e Seishi (勢至) a destra.  

     

    Ashikaga Takauji

    Giapponese scritto: 足利尊氏

    Generale di Kamakura che fondò il secondo shogunato del Giappone. Il suo clan governò il paeseda poco dopo la caduta di Kamakura fino, almeno formalmente, al 1573.

     

    Bosatsu

    Giapponese scritto: 菩薩

    Chi  potrebbe raggiungere l’illuminazione, ma non lo fa per rimanere su questa terra e salvare altri.

     

    Clan Ashikaga

    Giapponese scritto: 足利氏

    Vedere Ashikaga Takauji.

     

    Campata

    Chiamata ken (間) in giapponese, la campata è la distanza tra due pilastri di un edificio o di una porta. Poiché la sua lunghezza può variare anche all’interno dello stesso edificio, è un’indicazione delle proporzioni, piuttosto che un’unità di misura.

    Il numero di campate è quasi sempre dispari. Ad esempio, il butsuden di Kenchōji misura 5 x 5 campate.

     

    Nella foto il Sanmon di Komyoji, che è largo cinque campate e profondo tre.

     

    Bentendō

    Giapponese scritto: 弁天

     

    Vedi Benzaiten

    Benzaiten

    Giapponese scritto: 弁財天 

    Dea sincretica buddista e shintō associata all’acqua e venerata a Zeniarai Benten, Sugimotodera e Tsurugaoka Hachimangū. Si ritiene che sia un alter ego di Ugafukujin, il kami venerato insieme a lei a Zeniarai Benten. Nella foto qui sotto (per gentile concessione di Wikimedia Commons) la testa baffuta di Ugafukujin è visibile sopra la testa di Benzaiten. Si noti il torii.

     

    Giapponese scritto: 堂

    Suffisso, solitamente tradotto in inglese come hall, che indica un sotto-tempio all’interno di un complesso di templi (vedi garan). Il prefisso è di solito il nome della divinità che l’edificio ospita, come in Benten-dō (Sala di Benten), Jizōdō (Sala di Jizō), ecc. ma può occasionalmente essere qualcos’altro, come in Kaisandō o Soshidō (entrambe le parole significano “Sala del Fondatore”). 

    Bosatsu

     

    Bosatsu

    Giapponese scritto: 菩薩 

    Bodhisattva in inglese. Qualcuno che vuole raggiungere l’illuminazione, o che può raggiungerla ma non lo fa perché vuole rimanere in questo mondo per salvare gli altri. Si veda ad esempio Miroku Bosatsu.

     

    Buddha

    Qualsiasi essere umano che abbia raggiunto la perfetta illuminazione è chiamato buddha (notare la minuscola). Siddartha Gautama, fondatore del buddismo e normalmente chiamato semplicemente Buddha in maiuscolo, è uno di questi. Questo comporta un’ambiguità che può portare a fraintendimenti,

    L’ambiguità viene evitata usando il termine Buddha storico per Gautama e buddha in minuscolo per gli altri, un uso che questa guida segue. Il problema persiste tuttavia quando il termine è maiuscolo perché fa parte di un nome proprio. Ad esempio, il Grande Buddha di Kōtokuin non è Gautama Buddha, ma Amida, un altro essere umano che ha raggiunto la perfetta illuminazione.

    Il problema non esiste in giapponese, dove esistono parole separate per i due significati del termine inglese (Nyorai per buddha e Shaka Nyorai per il Buddha storico.

     

    Butsuden

    Giapponese scritto: 仏殿

    Edificio che custodisce lo spirito del Buddha storico. 

    Tipico dell’architettura zen, ha una struttura unica (visibile a Kenchōji) con un tetto a gonna puramente decorativo a metà altezza che lo fa sembrare un edificio a due piani, mentre in realtà ne ha solo uno, e misura 5 x 5 campate con un nucleo interno di 3 x 3 campate circondato da un corridoio perimetrale largo 1 campata. Altre scuole chiamano la loro versione shakadō da Shaka Nyorai, il nome giapponese del Buddha storico.

     

    Chinjūsha

    Giapponese scritto: 鎮守社

    Un chinjūsha è un santuario tutelare, cioè un santuario appartenente a un tempio buddista che ospita i kami tutelari del tempio. Di solito è piccolo, ma può essere molto grande. 

     

    Nella foto, il santuario tutelare di Kenchōji. Si noti che un rappresentante di Kenchōji si è fortemente opposto quando ho chiamato il loro santuario tutelare “santuario Shintō” in una bozza che gli avevo inviato, e mi ha chiesto di rimuovere la parola offensiva.  

    Intendeva dire che questo santuario è effettivamente dedicato a un’entità animistica giapponese, ma non ha nulla a che fare con l’istituzione dello Shintō. 

     

    Illuminazione

    Traduzione libera dell’originale sanscrito bodhi  (da cui bodhisattva), ovvero risveglio. Il termine indica infatti il risveglio alla vera natura della realtà, come se la si vedesse per la prima volta. L’illuminazione perfetta porta alla buddità.

     

    Feng-shui

    Giapponese scritto: 風水

    Geomanzia cinese molto influente in Giappone. La funzione e la disposizione degli edifici di un tempio erano decise soprattutto in base alle sue regole.

     

    Gongen

    Giapponese scritto: 権現

    Un gongen è un dio indiano che ha assunto le sembianze di un kami giapponese, per salvare più facilmente i giapponesi. Dettagli in Gongen di Wikipedia.

     

    Gorintō

    Giapponese scritto: 五輪塔

    Un tipo estremamente comune di pagoda in pietra divisa in cinque sezioni, ognuna delle quali rappresenta uno dei cinque elementi della cosmologia giapponese. Per maggiori dettagli su questa importantissima pagoda e sulle sue varianti, si veda la sezione Pagode nel capitolo sull’Architettura tradizionale di questo libro o l’articolo Tō di Wikipedia.

    Hachiman

     

    Giapponese scritto: 八幡

    Entità complessa custodita a Tsurugaoka Hachimangū, che possiede tratti sia buddisti che shintō ed è basata sullo spirito dell’imperatore mitologico Ojin. Nell’immagine il kami è ritratto come un monaco buddista, per attestare la sua conversione a quella religione.

     

    Haibutsu Kishaku

    Giapponese scritto: 廃仏毀釈

    Un’ondata di violenza anti-buddista su scala nazionale, scatenata dalla separazione del buddismo dallo Shintō nel 1968 e che ha portato il buddismo sull’orlo dell’estinzione. Si veda “Kami e Buddha divorziano” nel capitolo “La religione in Giappone”. In questa immagine del XIX secolo, le campane dei templi demoliti vengono fuse per recuperare il bronzo. 

    Han

     

    Giapponese scritto: 藩

    Una delle centinaia di piccole regioni semi-indipendenti in cui era diviso il Giappone prima del 1868. Solitamente chiamata dominio in inglese, era di proprietà di un clan di guerrieri.

    Buddha storico

     

    Gautama Buddha, fondatore della religione buddista. Il termine viene utilizzato per evitare la confusione causata dal fatto che il termine Buddha ha due significati distinti. Per maggiori dettagli, si veda Nyorai.

     

    Hodō o hattō

     

    Giapponese scritto: 法堂

    Un edificio utilizzato per le lezioni del capo sacerdote di un tempio Zen sulle scritture del buddismo (hō [法] in giapponese). Nella foto, il garan di Kenchōji, dove l’hōdō è il primo edificio da destra.

     

    Hōjō

     

    Giapponese scritto: 方丈

    Da non confondere con gli Hōjō, il clan dominante di Kamakura. In teoria l’abitazione del capo sacerdote di un tempio, in pratica un edificio spesso utilizzato per altro. Nell’immagine, l’hōjō di Kenchoji è il primo edificio da sinistra.

     

    Clan Hōjō

     

    Giapponese scritto: 北条氏

    Clan imparentato con il potente clan Taira di Kyoto, che tradì per sostenere Minamoto no Yoritomo, nemico mortale dei Taira. In seguito gli Hōjō avrebbero ucciso tutti i discendenti diretti dello shōgun, nominando una serie di fantocci che avrebbero obbedito ai loro ordini. In basso, lo stemma di famiglia del clan.

     

    Hokkedō

     

    Sala conferenze. Prende il nome dal Sutra del Loto (Hokkekyō), un testo sacro del buddismo.  

    Giapponese scritto: 宝篋印塔 

    Una grande pagoda in pietra con un terminale molto pronunciato.

    Sotto alcuni hōkyōintō a Kōmyōji. 

     

    Honden

    Giapponese scritto: 本殿

    Sala principale di un santuario, sempre chiusa perché dedicata a un kami. Questo edificio, il più importante di un santuario, può mancare. In tal caso, viene sostituito da un oggetto naturale, ad esempio un albero o una roccia. 

     

    Iso Mutsu

    Mutsu Iso (Gertrude Ethel Passigham, conosciuta in inglese anche come Iso Mutsu) è stata una donna britannica che ha scritto la prima guida moderna di Kamakura. Per maggiori dettagli, vedere l’articolo Jufukuji.

     

    Iwasaka/iwakura

    Giapponese scritto: 磐境/磐座

    Le iwakura sono rocce ritenute essere yorishiro (vedi). Una iwasaka ne contiene uno) Si tratta di oggetti naturali in grado di attirare i kami. Nel caso dell’iwasaka, la roccia viene utilizzata anche come altare per il culto. Nella foto, un iwakura a Meigetsuin.

     

    Jinguji

    Giapponese scritto: 神宮寺

    Centri religiosi che in passato comprendevano sia templi buddisti che santuari di kami. Erano la norma fino a quando non furono vietati dal governo Meiji nel 1868. Vedere Religione in Giappone. Nella foto, il Kumano Hongū Taisha nella prefettura di Wakayama, uno dei pochi jingūji ancora esistenti. 

     

    Jinja

    Giapponese scritto: 神社

    Vedi santuario.

     

    Jizō

    Giapponese scritto: 地蔵

    Dio tutelare delle anime perdute, che guida alla salvezza. Si ritiene che si occupi soprattutto dei bambini. Spesso indossa una pettorina rossa e/o uno zucchetto ed è riconoscibile per la testa rasata. A volte si possono trovare sei statue di Jizō (Roku Jizō [六地蔵]) insieme, nel qual caso ognuna guida le anime di un diverso Regno di Esistenza. Vedi Hasedera.

     

    Scuola Jōdo

     

    Giapponese scritto: 浄土宗

    Scuola di buddismo basata sul culto di Amida Nyorai.

     

    Kaisandō

    Giapponese scritto: 開山堂

    Sala che custodisce il fondatore di un tempio. Nella foto, il Kaisandō di Kōmyōji.

    Kamakura Gozan

     

    Giapponese scritto: 鎌倉五山

    Cinque templi zen di Kamakura (Kenchōji, Engakuji, Jufukuji, Jōchiji e Jōmyōji) che, insieme al Kyōto Gozan, di rango superiore, erano al vertice di una rete di templi zen immensamente influente a livello nazionale. Vedere il primo corso.

    Kamakura Kaidō

     

    Una rete di strade che collegava Kamakura al resto del Paese.

    Oggi, lo stesso nome viene dato alla strada che da Kamakura va a Yamanouchi e oltre. 

    Kamakura Kubō

     

    Giapponese scritto: 鎌倉公方

    Kubō è un titolo paragonabile a shōgun che il ramo Kamakura della famiglia Ashikaga, rappresentanti dello shogunato Ashikaga nella regione del Kantō, assunse lasciando il titolo ufficiale di kanrei (管領) al clan vassallo Uesugi. L’uso di questo titolo, che implica una posizione pari a quella di uno shōgun, è una misura della crescente tensione tra i due rami del clan. Poiché esisteva un altro Kubō nella provincia di Koga, quelli di Kamakura sono chiamati Kamakura Kubō.

    I sette ingressi di Kamakura

     

    Giapponese scritto: 鎌倉七口 (Kamakura Nanakuchi)

    Sette passi famosi per essere stati presumibilmente l’unico accesso a Kamakura all’epoca dello shogunato. L’idea è tuttavia falsa. Si veda la sezione Kamakura di Tokugawa Mitsukuni in Storia di Kamakura.

     

    Kami

    Giapponese scritto: 神

    Una parola con molti significati, solitamente tradotta come dio, una traduzione a mio avviso problematica. Kikuchi Dairoku lo dice meglio.

    “Nella mitologia giapponese c’è una difficoltà particolare per l’interprete: una difficoltà di nomenclatura. È stata abitudine costante degli scrittori stranieri della storia del Giappone parlare di una “Età degli dei” (Kami no yo). Ma la parola giapponese Kami non ha necessariamente un significato di questo tipo. Non ha alcuna valenza divina. Tra poco scopriremo che, tra le centinaia di famiglie in cui si divideva la società giapponese, ognuna aveva il suo Kami, che non era altro che il capofamiglia. Cinquant’anni fa, il governo era comunemente chiamato O Kami (l’onorevole capo) e un feudatario aveva spesso il titolo di Kami di una tale località. Tradurre Kami con “divinità” o “dio” è quindi fuorviante e, poiché la lingua inglese non fornisce un equivalente esatto, la cosa migliore è attenersi all’espressione originale.

    Estratto da: Frank Brinkley e Dairoku Kikuchi. “Storia del popolo giapponese”, disponibile gratuitamente sull’iTunes Store di Apple.

    In origine un kami giapponese era semplicemente una forza impersonale della natura, ad esempio uno spirito che dimorava all’interno di una cascata, di un albero o di una roccia. Poteva anche essere un antenato o semplicemente la sacralità di un luogo, ma in seguito il buddismo introdusse l’idea di creature antropomorfe come Amaterasu e Hachiman.

    Nel XVIII secolo Motoori Norinaga (1730 – 1801) diede la seguente, famosa definizione: “Un kami è qualsiasi cosa o fenomeno che produce emozioni di paura e soggezione, senza distinzione tra bene e male”. 

    Il culto dei kami

     

    A causa della controversia in corso sulla natura dello Shintō, descritta nel capitolo sulla religione in Giappone, gli specialisti evitano di usare la parola Shintō quando si parla di eventi precedenti alla predicazione di Yoshida Kanetomo, che per primo usò il termine in qualcosa di vicino al suo senso moderno. Usano invece l’espressione “culto dei kami” (神祇信仰; jingi shinkō), e io farò lo stesso.

     

    Kannon

    Giapponese scritto: 観音

    Divinità buddista della misericordia e della compassione, estremamente popolare in Giappone. Viene solitamente descritta come una dea, ma in realtà è di sesso indeterminato.

     

    Karamon

    Giapponese scritto: 唐門

    Un tipo minore di cancello caratterizzato da un tetto curvo.

     

    Karesansui

    Giapponese scritto: 枯山水

    Lit. paesaggio secco. Normalmente si trova nei templi zen, ma a volte anche nei templi di altre scuole. Kōmyōji, un tempio Jōdo, ne ha uno.

    Giapponese scritto: 火灯窓

    Finestra a forma di campana, originariamente sviluppata nei templi zen in Cina, ma ora ampiamente utilizzata da altre scuole buddiste e anche nell’architettura laica.

     

    Komainu

    Giapponese scritto: 狛犬

    Chiamati cani-leone in inglese, sono bestie simili a leoni incastonate nella pietra all’ingresso di santuari e templi per proteggerli. L’usanza ha origine nella Mezzaluna Fertile ed è arrivata in Giappone attraverso la Cina con il Buddismo. 

    Di solito uno degli animali ha la bocca aperta, l’altro chiusa. Questa differenza ha un valore simbolico: una delle bestie pronuncia il suono “a”, la prima lettera dell’alfabeto sanscrito, l’altra il suono “um”, l’ultima lettera dell’alfabeto sanscrito, a significare il ciclo della vita e della morte che muove il mondo.  L’animale punon essere affatto un cane-leone: Tsurugaoka Hachiman-gū ha due tigri. Anche le statue dei due Niō che si trovano all’interno delle porte dei templi seguono questo schema. Il komainu nella foto ha un cucciolo ed è presumibilmente una femmina.

     

    Kumimono

    Giapponese scritto: 組み物 

    Chiamati anche tokyō, sono elaborate serie di staffe a incastro che sostengono il tetto di un edificio, fungendo da ammortizzatori. La staffa agli angoli è famosa tra gli artigiani giapponesi per la sua complessità. 

     

    Padiglione principale

     

    L’edificio di un tempio o di un santuario che ospita l’oggetto di culto più importante del tempio o del santuario. 

     

    Minamoto no Yoritomo

    Capo del ramo Seiwa Genji del clan Minamoto e fondatore dello shogunato di Kamakura.  

    Chiamati inzō in giapponese, i mudra sono gesti compiuti dai Nyorai con le dita e che possono essere utilizzati per identificarli. Nella foto, le mani del Grande Buddha di Kamakura formano il Dhyani Mudra. Vedi Arte religiosa.

     

    Giapponese scritto: 仁王

    Letteralmente “due re”. I Niō sono Ten, divinità minori del Pantheon buddista, e le loro statue sono normalmente ospitate all’interno della porta di un tempio, in questo caso chiamato Niōmon. Nella foto il Niōmon di Sugimotodera. Vedi anche Arte religiosa.

     

    Pagoda

    Giapponese scritto

    La forma assunta dallo stupa indiano in Estremo Oriente. Quest’ultimo, originariamente un reliquiario a forma di campana, in Cina divenne una torre con un numero dispari di piani. In Giappone si è evoluta rapidamente in molte forme originali utilizzate per vari scopi, tra cui la decorazione. Si trovano quindi nei cimiteri dei templi, nei santuari, nei giardini e persino nei ristoranti. Le pagode in legno sono molto grandi, ma a Kamakura non ce ne sono, in parte perché sono passate di moda prima che la città diventasse capitale, in parte perché alcune sono state distrutte durante i primi giorni dell’era Meiji. Le pagode in pietra, mai più alte di un paio di metri, sono comuni. I due tipi più comuni sono il gorintō e l’hōkyōintō.

     

    Si veda la sezione Pagode nel capitolo sull’architettura buddista di questo libro e l’articolo Tō di Wikipedia.

     

    Regno di esistenza 

    Secondo il buddismo, le creature viventi si spostano senza fine dall’uno all’altro dei sei mondi in base al loro karma. Dal basso verso l’alto sono abitati da fantasmi affamati, demoni guerrieri, bestie, esseri umani ed esseri celesti.

     

    Ri

    Giapponese scritto: 里

    Il ri è un’antica unità di misura di origine cinese equivalente a 2,4 km.

     

    Giapponese scritto: 楼門

    Lit. “porta della torre”. Il rōmon è caratterizzato dalla presenza di un secondo piano che, sebbene spesso di aspetto confortevole, non ha un punto di ingresso ed è quindi inutilizzabile.

     

    Sanmon

    Giapponese scritto: 山門

    Anche se non è la prima, questa porta è il vero ingresso di un tempio. Si suppone anche che guarisca chi entra dai tre mali dell’avidità, dell’ignoranza e dell’accidia. Vedere Engakuji.

     

    Shichido Garan

    Giapponese scritto: 七堂伽藍

    Lit. composto di sette edifici ritenuto idea<le per i templi. Un complesso di templi, composto in modo diverso a seconda della scuola, ma che si suppone comprenda sette edifici distinti, ognuno dei quali ha una posizione particolare, che dipende ancora una volta dalla scuola e dal periodo.

    Nella foto, il garan di Kenchōji.

        

    Shide

    Giapponese scritto: 紙垂, 四手

    Festoni di carta zigzaganti che pendono da corde sacre chiamate shimenawa. Solitamente associati allo Shintō, sono comuni anche nei templi buddisti.

     

    Shikken

    Giapponese scritto: 執権

    Titolo usato dai reggenti Hōjō che governarono Kamakura, usurpando il potere dello shōgun.

     

    Shimenawa

    Giapponese scritto: 注連縄

    Corda di paglia di riso intrecciata e decorata con festoni di carta a zig zag (shide), utilizzata per contrassegnare un oggetto sacro.

     

    Shinbutsu bunri

    Giapponese scritto: 神仏分離

    La separazione legale dei buddha dai kami del 1868. Per maggiori dettagli, vedere Religione in Giappone.

     

    Shinbutsu shūgō

    Giapponese scritto: 神仏習合

    Fusione parziale del culto locale dei kami con il buddismo in un unico sistema religioso. Ufficialmente terminato per legge nel 1868, nella pratica il sistema è ancora vivo e vegeto. Nella foto, alcuni santuari portatili vengono portati in un tempio, Kōmyōji a Kamakura, per essere benedetti.

     

    Shingon

    Giapponese scritto: 真言宗

    Antica scuola di buddismo fortemente combinatoria a cui apparteneva Tsurugaoka Hachimangū. Come la Tendai, strettamente correlata, è rara a Kamakura, dove lo Zen è prevalente.  

     

    Shinpen Kamakurashi

    Giapponese scritto: 新編鎌倉志

    La prima e più importante guida di Kamakura, scritta da un gruppo di scrittori agli ordini di Tokugawa Mitsukuni nel XVI secolo.

     

    Shintai

    Giapponese scritto: 身体

    Oggetto, di solito uno specchio o una spada, utilizzato in un santuario per ospitare un kami, dandogli spazio da occupare.

    Shintō

     

    Giapponese scritto: 神道

    Una delle due fedi dominanti in Giappone, l’altra è il buddismo. Le due fedi sono di natura molto diversa, ma hanno comunque un rapporto complesso, vicino alla simbiosi. Forse vi sorprenderà che io dica che lo Shintō, solitamente descritto come la religione ancestrale del Giappone, sia un’invenzione recente dell’amministrazione Meiji. Tuttavia, questo è il consenso degli specialisti. Dopo aver letto i fatti in Religione in Giappone, credo che sarete in grado di capire da soli se questa tesi ha senso.

     

    Santuario

     

    Per convenzione, un’istituzione religiosa Shintō.

    Purtroppo, questa singola parola traduce in inglese molte parole giapponesi di significato molto diverso. Vedi anche Religione in Giappone.

    Sei Jizō

     

    Giapponese scritto: 六地蔵 (Roku Jizō)

    I Sei Jizō (gli stessi già visti al Butsuden e al Roku Jizō Crossing lungo il viale Yuigahama) sono un gruppo di sei incarnazioni del bodhisattva. Il buddismo afferma che gli esseri senzienti sono intrappolati in un circolo vizioso di nascita e morte e rinascita in uno dei cosiddetti Sei Regni. Si inizia con l’Inferno, in basso, seguito dai Regni dei fantasmi affamati, degli animali, dei demoni, degli esseri umani e degli esseri celesti o Deva. Le anime salgono e scendono la scala dei reami in base a ciò che hanno ottenuto nella loro vita precedente, ma la vera liberazione può essere raggiunta solo attraverso l’illuminazione. Ognuno dei sei è responsabile di uno dei mondi. Un gruppo simile di sei Jizō può essere visto all’incrocio Roku Jizō, che protegge i viaggiatori. 

     

    Sōmon

    Giapponese scritto: 総門

    La prima porta di un tempio. Normalmente precede il sanmon più importante.

     

    Sotoba

    Giapponese scritto: 卒塔婆

    La parola è una traslitterazione fonetica della parola sanscrita stupa. Le Sotoba sono strisce di legno utilizzate nei cimiteri per rappresentare una pagoda. La parte superiore è divisa in cinque parti come un gorintō ed è decorata con citazioni sanscrite e il nome del defunto. Vedi anche Pagode nell’architettura tradizionale giapponese.

     

    Lanterna di pietra

    Chiamata tōrō in giapponese, è un tipo di pagoda e ne possiede la maggior parte delle caratteristiche.

    Conigli di pietra

     

    Nella mitologia dell’Estremo Oriente, uno o due conigli abitano la luna. Si veda la voce Coniglio lunare di Wikipedia. Il numero di animali può variare, ma sono sempre presenti.

    Svastica

     

    Antico simbolo utilizzato da molte civiltà, tra cui gli indù, alcune tribù indiane americane e i vichinghi. Nell’induismo e nella sua propaggine, il buddismo, è un simbolo di infinito, di pace e di armonia, e in Giappone la sua associazione con il buddismo è così forte che una svastica segna la presenza di un tempio buddista sulle mappe. Non si sente alcuna associazione con il nazionalsocialismo tedesco.

    Temizuya

    Giapponese scritto: 手水舎

    Bacino coperto all’ingresso di un santuario o di un tempio dove i visitatori possono purificarsi prima di entrare. È consuetudine lavarsi le mani e sciacquarsi la bocca senza bere.

     

    Tempio

    寺 (tera) – Per convenzione, un’istituzione religiosa buddista. Come per il santuario, questa singola parola è usata per tradurre diverse parole giapponesi non equivalenti. Vedere Templi, santuari e i loro nomi nel capitolo Religione in Giappone.

     

    Ten

    Giapponese scritto: 天

    Divinità minori del pantheon buddista. Vedi Arte religiosa.

     

    Tendai

    Giapponese scritto: 天台宗

    Una delle più antiche scuole del buddismo giapponese, rappresentata a Kamakura solo da Sugimotodera e Hōkaiji. 

     

    Tokugawa Mitsukuni

    L’uomo che nel XVI secolo scrisse la prima e più influente guida di Kamakura, lo Shinpen Kamakurashi. Meglio conosciuto dai giapponesi come Mito Kōmon (水戸黄門).

     

    Tomba

    Ho recentemente scoperto che le mie fonti giapponesi non fanno distinzione tra tomba (お墓, ohaka) e cenotafio (供養塔, kuyōtō). In realtà credo, ma non ne ho la certezza, che tutte le cosiddette tombe di questa guida siano in realtà cenotafi, perché non contengono un corpo.

    Torii

     

    Giapponese scritto: 鳥居

    Un tipo di cancello presente sia nei templi che nei santuari, il cui profilo è diventato un simbolo del Giappone. Sebbene sia principalmente un simbolo dello Shintō, ha forti legami anche con il buddismo giapponese. Una misura della profondità di questi legami è data dal fatto che la targa spesso appesa al suo centro conteneva sutra buddisti.

     

    Yagura

    Giapponese scritto: やぐら

    Grotte artificiali utilizzate come tombe durante il periodo Kamakura. Sono estremamente comuni in 

    città e nei dintorni. Si trovano ad esempio a Engakuji, Kenchōji, Jōchiji e altre.

     

    Yorishiro

    Giapponese scritto: 依り代

    Un oggetto che per natura attrae i kami, che scelgono di dimorarvi. Un santuario ha almeno uno yorishiro. La maggior parte degli yorishiro sono contrassegnati da uno shimenawa, una speciale corda decorata da festoni di carta a zig zag chiamati shide.

     

    Zazen

    Giapponese scritto: 座禅

    Letteralmente Zen seduto, una forma di meditazione praticata da seduti.

     

    Zen

    Giapponese scritto: 禅

    Scuola di buddismo che enfatizza la meditazione e l’autosufficienza, piuttosto che lo studio delle scritture, come mezzo per raggiungere l’illuminazione. Si divide in tre sotto-scuole, Sōtō, Rinzai e Ōbaku, ma Rinzai domina completamente la Kamakura.


  • Come si contano i kami in giapponese?

    Come si contano i kami in giapponese?

    “Un kami, è qualsiasi cosa o fenomeno al di fuori dell’ordinario, che possiede un potere superiore o che incute timore”.

    Motoori Norinaga – 本居 宣長 (1730-1801), Kojiki-den (古事記伝, commentario sul Kojiki)

    Fonte: bushō-japan


    Parlando di kami si sente spesso usare l’espressione yaoyorozu no kami (八百万の神, lett. otto milioni di divinità). Questo termine è legato alla tradizione shintoista giapponese e sebbene letteralmente significhi “otto milioni di divinità”, non sta ad indicare una cifra esatta ma viene semplicemente utilizzato per esprimere l’idea dell’esistenza di “innumerevoli” divinità, siano queste di indole mite o malvagia e tutte dotate di una propria personalità. I giapponesi credono che esista un numero infinito di kami, alcuni in grado di controllare i fenomeni atmosferici e altri più strettamente legati alla vita delle persone.

    Ma come si contano in kami in giapponese.

    Nella lingua giapponese non esiste una distinzione tra maschile e femminile come non esiste nemmeno tra singolare e plurale. In italiano per indicare la quantità desiderata ci si limita ad usare il numerale corrispondente. In giapponese invece si ricorre ai josūshi (助数詞) conosciuti come classificatori o contatori. Sono delle particelle che, associate ad un sostantivo, ne indicano il numero, cioè “quante” cose ci sono e, a seconda della natura del sostantivo che lo precede, il parlante dovrà scegliere quello adatto. La scelta del classificatore corretto é legata il più delle volte alla caratteristiche fisiche dell’oggetto che desideriamo contare. Per esempio se stiamo parlando di persone useremo il classificatore “人” mentre per contare un elettrodomestico o le macchine useremo il classificatore “台” e così via. I classificatori più comuni vanno imparati a memoria; mentre per padroneggiare l’uso di quelli più particolari ci vorrà più tempo ed esperienze. A seconda dei casi i classificatori possono anche subire delle modifiche fonetiche.

    La lingua giapponese ha un modo specifico anche per contare sia le divinità appartenenti alla tradizione shintoista che quelle appartenenti alla dottrina buddista (che vi racconterò in un altro articolo).

    Per contare i kami della tradizione shintoista si usa il contatore hashira (柱) nella sua lettura kun-yomi, la lettura semantica giapponese del kanji.

    Si leggerà quindi:

    Hito-hashira (一柱), un kami

    Futa-hashira (二柱), due kami

    Mi-hashira (三柱), tre kami

    E così via…


    Origini del josūshi hashira.

    La nascita di questo contatore deriva dal concetto shintoista dello shintai (神体, lett. Corpo del kami) che rappresenterebbe la manifestazione materiale di un kami, ovvero l’oggetto in cui quest’ultimo vi alberga. Possono essere oggetto come spade, specchi oppure manifestazioni della natura come le montagne (il monte Fuji è considerato un shintai-zan (神体山, montagna sacra) le cascate e nel nostro caso si tratta di un albero.

    Fin dall’antichità, i giapponesi hanno sentito la presenza dei kami nella natura. In Giappone, la natura ha da sempre portato abbondanti benedizioni al popolo, che ne era grato e percepiva queste benedizioni come opera dei kami. In origine, il santuario o la divinità principale di un santuario shintoista era la natura stessa. Per il Giappone, paese circondato su tutti i lati dal mare e frastagliato da numerose catene montuose, le foreste sono sempre state percepite come il luogo in cui dimoravano le divinità.

    Ancora oggi, la maggior parte dei santuari ha nelle sue immediate vicinanze le cosiddette chinju mori (鎮守森) o foreste sacre, verdi e profonde, che vengono gestite e protette con cura. Gli alberi hanno una propria vita e una propria anima e lo shintoismo ha una cultura religiosa che valorizza gli alberi. Quindi gli alberi, come le pietre e le montagne, sono stati a lungo oggetto di profonda devozione in Giappone. In origine non esistevano santuari o templi, ma un albero, una foresta, un grande masso o una montagna erano il fulcro del culto. Ancora oggi capita spesso di vedere in Giappone alberi, rocce ed altri oggetti circondati da una shimenawa (注連縄, letteralmente “corda di chiusura”), una corda di paglia o canapa intrecciate utilizzate per riti di purificazione shintoisti o usate per delimitare lo spazio appartenente a quello che in giapponese sono conosciuti come yorishiro (依り代, 依代) che per l’animismo giapponese sono degli oggetti che possiedono la capacità di attirare i kami fornendo loro uno spazio fisico da occupare durante i vari matsuri che si svolgono in tutto il paese.

    Come detto in precedenza quando un kami dimora in un oggetto questo viene definito uno shintai. Le shimenawa decorate con gli shide (紙垂, 四手) spesso circondano uno yorishiro per manifestare la sua sacralità. Gli shide sono festoni di carta a forma di zig zag che si possono trovare anche come ornamenti sulle porte dei santuari o sui kamidana all’interno delle case giapponesi. Anche una persona può svolgere lo stesso ruolo di uno yorishiro, e in tal caso sono chiamate yorimashi (憑坐, letteralmente “persona posseduta”) o kamigakari (神懸りletteralmente “possessione del kami”).

    Nel Giappone antico si credeva che esistesse una sorta di forza misteriosa della natura detta ke (気) che riempiva lo spazio e gli oggetti, che normalmente in giapponese vengono indicati con il termine generico mono (物). Questa forza misteriosa dava vita al mononoke (物の気) che scorreva all’interno anche di alberi e pietre. Alcune tipologie di alberi, come ad esempio il sakaki (榊), sono considerati sacri per questo motivo. Quando uno di questi alberi veniva abbattuto e trasformato in legno utilizzato per la costruzione di un santuario, si credeva che la sacralità dell’albero venisse trasferita all’edificio stesso. La forza spirituale dell’albero rimaneva sotto forma di pilastro attorno al quale veniva costruito il santuario.

    Il daikoku-bashira (大黒柱, pilastro centrale) di un santuario o di una semplice casa era spesso ricavato da uno di questi grandi alberi. Da qui è quindi nata la credenza che i kami risiedessero nei pilastri e l’uso di hashira (柱) come contatore. Non c’è da stupirsi che, a causa di questa cultura che valorizza ciò che la circonda, la gente credesse che la divinità risiedesse nel pilastro principale, ricavato da un albero molto grande, e considerasse la divinità stessa come un pilastro. Nel Giappone antico, la preparazione di un pilastro era una cosa molto importante. Tradizionalmente, l’abbattimento del legname era una cerimonia estremamente importante e solenne, eseguita di notte. La preparazione e il posizionamento del legname erano un rito sacro e potevano essere eseguiti solo dai sacerdoti shintoisti.

    La data di posizionamento del pilastro centrale era determinata da un decreto imperiale e coincideva con le cerimonie di apertura del terreno per la costruzione di un santuario. Dall’inizio del periodo Edo, il decreto imperiale per questa cerimonia è stato interrotto. Oggi le cerimonie di posa del pilastro e di rottura del terreno si svolgono in giorni diversi. L’erezione di un pilastro sulla terra è visto come un mezzo di collegamento tra il cielo e la terra e funge da richiamo per lo spirito divino che dimora nel cielo. I pilastri si crede conferiscono stabilità alla struttura e alla terra stessa in quanto abitato dai kami.

  • I ritmi astrali e le attività umane

    I ritmi astrali e le attività umane

    I ritmi astrali e le attività dell’essere umano

    Qualche giorno fa Christian Savini ha postato un articolo sullo higan (equinozio d’autunno) in Giappone. Non avevo mai sentito il termine ma, guarda caso, il giorno dopo sono andato a visitare un tempio vicino a casa mia il cui portone principale è sempre chiuso. Questa volta era aperto. Ho domandato perché e la ragione era proprio lo higan.

    Ora so che in giapponese la parola “higan” (彼岸) si riferisce a un concetto associato al Buddhismo giapponese. È spesso utilizzata per riferirsi al periodo di sette giorni intorno all’equinozio d’autunno, che di solito cade a metà settembre. Questo periodo è noto come “Higan no chūgen” (彼岸の中元) o semplicemente “Higan.”

    Higan è un periodo in cui molte persone in Giappone visitano i cimiteri per onorare i propri antenati e pregare per il riposo delle loro anime. Per qualche ragione che sarebbe molto interessante sapere, si ritiene che l’abbia qualche rapporto con gli antenati. È una pratica buddista che riflette l’idea di passare dallo “Shigan” (o mondo terreno) allo Higan” (o altro mondo) e rappresenta un momento di riflessione, gratitudine e rispetto per gli antenati. Durante li higan, è comune offrire fiori e pulire le tombe dei defunti.

    Questa non è che è una delle tantissime feste giapponesi basate su un evento siderale.

    Setsubun: Questa festa si celebra il 3 febbraio ed è associata all’equinozio di primavera. Durante il Setsubun, le persone lanciano fagioli per scacciare i demoni e portare la buona fortuna per l’anno a venire

    Hina Matsuri (Festa delle bambole): Si celebra il 3 marzo ed è una festa tradizionale dedicata alle bambine. Le famiglie espongono una serie di bambole chiamate “hina ningyo” per auspicare prosperità e felicità per le loro figlie.

    Hanami (ammirare i fiori di ciliegio): Questa festa non ha una data specifica, ma di solito avviene tra marzo e aprile, quando i ciliegi sono in fiore. Le persone si riuniscono nei parchi per ammirare i ciliegi in fiore, fare picnic e festeggiare la bellezza della primavera.

    Tanabata (Festa delle stelle): Si celebra il 7 luglio (o il 7 agosto secondo il calendario lunare). La festa di Tanabata coinvolge la scrittura di desideri su pezzi di carta colorato e appenderli a rami di bambù per celebrare l’incontro annuale di due stelle, Orihime e Hikoboshi.

    Obon: Questa festività dura tre giorni e cade generalmente in agosto, ma le date variano da regione a regione. Obon è una festa in cui le persone commemorano i propri antenati. Si crede che le anime dei defunti ritornino in questo mondo, quindi si praticano danze tradizionali come il Bon Odori.

    Tsukimi (Festa della luna piena): Si celebra durante la luna piena di settembre o ottobre. Durante Tsukimi, le persone ammirano la luna e spesso consumano cibi tradizionali come il mochi (dolce di riso glutinoso) per celebrare l’autunno.

    Queste festività sono solo alcune delle celebrazioni basate su eventi siderali e stagionali in Giappone.

    Sorge spontanea la domanda: perché? C’è una risposta ovvia. I ritmi della natura sono importanti nelle società preindustriali.

    Ma ci sono altre ragioni. Da sempre, il cielo è associato con gli dei e il divino. Tutte le società celebrano in qualche modo le stelle e tentano di predire il futuro sulla base del loro comportamento. Le stelle ed il loro movimento sono visti come un modo per penetrare il mistero delle intenzioni degli dei, appunto nel cielo

    È anche comune l’associazione di antenati e stelle.

    Infine, si crede che le stelle in qualche modo controllino il nostro destino. Quanti modi di dire si basano appunto sull’idea che le stelle controllano il nostro futuro?

    Un elemento sicuramente è la costanza della loro presenza, che ci induce a pensarle eterne. Un altro è il fatto che non cambiano mai, e sono quindi incorruttibili, salvo alcune, che invece cambiano spesso, i pianeti. Ce ne sono alcuni, per esempio Giove, che addirittura cambiano direzione improvvisamente in certe date.

    Ma ecco un’altra parola che sta per destino. I pianeti.

    L’associazione tra antenati, stelle e fortuna può variare da cultura a cultura, ma è presente ovunque.

    Mi viene in mente ora che le montagne sono oggetto di culto praticamente ovunque per vari motivi, ma uno che è sempre presente è il fatto che toccano il cielo. Basta questo per renderle sacre. Il culto delle montagne poi ha multiple conseguenze, una delle quali sono i giardini zen, dai quali possono sparire del tutto le piante, ma dove le pietre sono indispensabili. Le pietre nella cultura giapponese rappresentano infatti le montagne quelle montagne la cui forza dipende in parte dal fatto che raggiungono gli astri, astri in cui riposano i nostri antenati.

    Nei prossimi giorni cercherò di imparare di più su questo bellissimo argomento.

    I ritmi astrali e le attività dell’essere umano

    Qualche giorno fa Christian Savini ha postato un articolo sullo higan (equinozio d’autunno) in Giappone. Non avevo mai sentito il termine ma, guarda caso, il giorno dopo sono andato a visitare un tempio vicino a casa mia il cui portone principale è sempre chiuso. Questa volta era aperto. Ho domandato perché e la ragione era proprio lo higan.

    Ora so che in giapponese la parola “higan” (彼岸) si riferisce a un concetto associato al Buddhismo giapponese. È spesso utilizzata per riferirsi al periodo di sette giorni intorno all’equinozio d’autunno, che di solito cade a metà settembre. Questo periodo è noto come “Higan no chūgen” (彼岸の中元) o semplicemente “Higan.”

    Higan è un periodo in cui molte persone in Giappone visitano i cimiteri per onorare i propri antenati e pregare per il riposo delle loro anime. Per qualche ragione che sarebbe molto interessante sapere, si ritiene che l’abbia qualche rapporto con gli antenati. È una pratica buddista che riflette l’idea di passare dallo “Shigan” (o mondo terreno) allo Higan” (o altro mondo) e rappresenta un momento di riflessione, gratitudine e rispetto per gli antenati. Durante li higan, è comune offrire fiori e pulire le tombe dei defunti.

    Questa non è che è una delle tantissime feste giapponesi basate su un evento siderale.

    Setsubun: Questa festa si celebra il 3 febbraio ed è associata all’equinozio di primavera. Durante il Setsubun, le persone lanciano fagioli per scacciare i demoni e portare la buona fortuna per l’anno a venire

    Hina Matsuri (Festa delle bambole): Si celebra il 3 marzo ed è una festa tradizionale dedicata alle bambine. Le famiglie espongono una serie di bambole chiamate “hina ningyo” per auspicare prosperità e felicità per le loro figlie.

    Hanami (ammirare i fiori di ciliegio): Questa festa non ha una data specifica, ma di solito avviene tra marzo e aprile, quando i ciliegi sono in fiore. Le persone si riuniscono nei parchi per ammirare i ciliegi in fiore, fare picnic e festeggiare la bellezza della primavera.

    Tanabata (Festa delle stelle): Si celebra il 7 luglio (o il 7 agosto secondo il calendario lunare). La festa di Tanabata coinvolge la scrittura di desideri su pezzi di carta colorato e appenderli a rami di bambù per celebrare l’incontro annuale di due stelle, Orihime e Hikoboshi.

    Obon: Questa festività dura tre giorni e cade generalmente in agosto, ma le date variano da regione a regione. Obon è una festa in cui le persone commemorano i propri antenati. Si crede che le anime dei defunti ritornino in questo mondo, quindi si praticano danze tradizionali come il Bon Odori.

    Tsukimi (Festa della luna piena): Si celebra durante la luna piena di settembre o ottobre. Durante Tsukimi, le persone ammirano la luna e spesso consumano cibi tradizionali come il mochi (dolce di riso glutinoso) per celebrare l’autunno.

    Queste festività sono solo alcune delle celebrazioni basate su eventi siderali e stagionali in Giappone.

    Sorge spontanea la domanda: perché? C’è una risposta ovvia. I ritmi della natura sono importanti nelle società preindustriali.

    Ma ci sono altre ragioni. Da sempre, il cielo è associato con gli dei e il divino. Tutte le società celebrano in qualche modo le stelle e tentano di predire il futuro sulla base del loro comportamento. Le stelle ed il loro movimento sono visti come un modo per penetrare il mistero delle intenzioni degli dei, appunto nel cielo

    È anche comune l’associazione di antenati e stelle.

    Infine, si crede che le stelle in qualche modo controllino il nostro destino. Quanti modi di dire si basano appunto sull’idea che le stelle controllano il nostro futuro?

    Un elemento sicuramente è la costanza della loro presenza, che ci induce a pensarle eterne. Un altro è il fatto che non cambiano mai, e sono quindi incorruttibili, salvo alcune, che invece cambiano spesso, i pianeti. Ce ne sono alcuni, per esempio Giove, che addirittura cambiano direzione improvvisamente in certe date.

    Ma ecco un’altra parola che sta per destino. I pianeti.

    L’associazione tra antenati, stelle e fortuna può variare da cultura a cultura, ma è presente ovunque.

    Mi viene in mente ora che le montagne sono oggetto di culto praticamente ovunque per vari motivi, ma uno che è sempre presente è il fatto che toccano il cielo. Basta questo per renderle sacre. Il culto delle montagne poi ha multiple conseguenze, una delle quali sono i giardini zen, dai quali possono sparire del tutto le piante, ma dove le pietre sono indispensabili. Le pietre nella cultura giapponese rappresentano infatti le montagne quelle montagne la cui forza dipende in parte dal fatto che raggiungono gli astri, astri in cui riposano i nostri antenati.

    Nei prossimi giorni cercherò di imparare di più su questo bellissimo argomento.

  • Nomi segreti

    Nomi segreti

    La storia dei nomi in Giappone è legata in modo profondo a quella dei cognomi. Il diiritto ad avere una genealogia e a tenere un butsudan (un mobile di casa dove vivono i propri antenati) fu esteso al popolo da Tokugawa Hidetada nel 1637. Prima di allora solo i nobili (tutti di sangue imperiale) avevano nomi e cognomi. Notare che l’imperatore stesso non aveva cognome. Il possesso di un cognome in sé indicava l’appartenenza a un ramo cadetto della famiglia imperiale. Non solo avevano un cognome, ma ne avevano più di uno. Avevi un nome da bambino e vari da adulto, validi in circostanze diverse. Per esempio, Minamoto no Yoshisada è conosciuto come Nitta Yoshisada perché era capo clan dei Nitta, una suddivisione dei Minamoto. Poi in pratica veniva chiamato, come tutti gli altri leader, non col suo nome ma con titoli come Gosho (御所)”onorevole luogo” per motivi scaramantici, in altri termini evitare il malocchio. Non dirò altro sui nomi e cognomi dei samurai perché a essere onesto non ci ho mai capito molto. È veramente una giungla dalla quale non si viene fuori. Uno aveva vari cognomi (vedi Nitta Yoshisada). Tutto questo perché sia il nome che i cognomi dovevano illustrare la posizione dell’individuo all’interno della complessa struttura a clan della società giapponese. All’epoca della guerra fra gli Stati (dal 1467 al 1615) la storia era diventata molto diversa. I nomi si assumevano e si abbandonavano con facilità. Toyotomi Hideyoshi nacque Hiyoshi-maru, dove -maru è un suffisso infantile. Come contadino, non aveva cognomi. Scelse più tardi il nome Kinoshita Tokichirō per finire con il nome con cui è passato alla leggenda. Hōjō Sōun nacque Ise Moritoki, divenne Ise Shinkurō e finì con Hōjō Sōun, appunto. In questa fase della storia giapponese, di solito le classi meno abbienti avevano nomi ma non cognomi, come detto. Erano nomi molto diversi da quelli attuali, spesso derivati da una professione. La riforma della famiglia attuata dai Tokugawa dava il diritto di un cognome e un nome solo al capofamiglia. Le donne non avevano esistenza legale, gli uomini dopo il primogenito non avevano diritto ad un cognome, non avevano diritto ad una famiglia, anche se potevano averla dietro permesso del primogenito. Come nome avevano gli ordinali nominati da Arturo Camillacci. Vorrei fare una parentesi per spiegare il perché di Queste severissime, per non dire disumane, leggi. La questione della struttura della famiglia era legata intimamente alle ragioni della lunghissima guerra civile da cui il paese era appena uscito. Il diritto di tutti i figli maschi a ereditare, accoppiato all’ereditarietà della carica di feudatario (Gokenin) aveva portato ad un’eccessiva frammentazione del territorio coltivabile, causando una crisi alimentare e più di tre secoli di guerra praticamente continua. Tanto ci volle per ricomporre il paese sotto una sola mano. La nuova struttura della famiglia, insieme ad altre misure, serviva a garantire una pace futura nel paese. A questo punto l’uso di un cognome è comune, ma non universale. La società è divisa in quelle che sono praticamente a caste, che non hanno tutte uguali privilegi. Nel 1868 inizia la restaurazione Meiji. A tutti viene dato il diritto ad un nome e un cognome. Tutti se ne scelgono uno, spesso inventandoselo. Per questo, esistono cognomi estremamente comuni, come Tanaka e Takahashi, ma ne esistono molti altri, 100 mila in tutto, molti rari e spesso regionali. Okinawa in particolare ha cognomi suoi, come Chinen e Shimabukuro. I cognomi giapponesi odierni possono consistere di un singolo carattere, per esempio Hara (原), ma generalmente di due, come per esempio Takahashi (高橋o più. Il cognome di Okinawa Kōhiruimaki 高比類巻 ne ha quattro. Tutti erano originariamente in qualche modo descrittivi, e quindi possono venire tradotti. Tanaka vuol dire “nel campo”, Takahashi “ “Pontealto“ e così via. Penso di fare cosa gradita dando una traduzione letterale, se non un’etimologia, dei cognomi giapponesi più conosciuti da noi. Il significato originario a volte è chiaro, a volte meno. Kawasaki 川崎 Promontorio sul fiume (?) Honda 本田 Campo di origine Mitsui 三井 Tre pozzi Mitsubishi 三菱 Tre diamanti Suzuki 鈴木 albero delle campanelle Toyota 豊田 Ricco campo Makita 牧田 Pastorizia e agricoltura Un aspetto importante di qualsiasi nome o cognome sono i caratteri con cui viene scritto. Per esempio, lo shogun Ashikaga Takauji scriveva inizialmente il suo nome non 足利尊氏 ma 足利高氏. L’uso del carattere 尊 (onore) al posto di quello 高 (alto) gli fu concesso come onorificenza dell’imperatore Go-Daigo. I nomi maschili di solito sono composti da due caratteri, spesso invertibili. Ad esempio Akihiro, Hidetaka, Yoshinobu e Kazuyoshi possono diventare Hiroaki, Takahide, Nobuyoshi e Yoshikazu semplicemente invertendo l’ordine dei caratteri che li compongono. Il significato dei caratteri e di solito qualcosa come onesto, retto, chiaro e roba del genere. Le grafie possibili sono numerosissime, tanto che dal nome in caratteri romani è impossibile risalire con sicurezza al nome originario. I nomi femminili sono molto più elaborati. I suffissi tipici dei nomi femminili sono -ko (子 Akiko), -ka (Norika, Tomoka, Momoka, di solito 香, profumo, o 花 fiore), -yo 代 (nessun significato ovvio), -e (恵Yoshie) -ho (Miho o Kaho) o -na (Riona, Kana) , questi ultimi scritti in molti modi diversi. Sono presenti alcuni nomi femminili di origine europea che potevano essere scritti facilmente con caratteri cinesi. Tre esempi sono Maria, Naomi e Erena (sì, proprio Erena) Viene fatta molta attenzione ai caratteri con cui il nome si scrive e l’effetto ottenuto può essere molto diverso a seconda dei casi. Uno estremo è quello del nome Akiko, che può essere scritto in mille modi fra cui 明子 e 秋子. Il secondo carattere, ko, è un diminutivo come -etta di Simonetta. Il primo nome si scrive col carattere “luce”, il secondo nome col carattere per autunno. La pronuncia è la stessa, l’effetto è molto diverso. È quindi normale chiedere ad un nuovo amico come scrive il suo nome. Il seguente collegamento porta a un sito che elenca i cognomi e nomi più comuni in Giappone. Data and Information for Learning Japanese Un’ultima nota, poi vi lascio. Dopo la morte di un individuo, è buona norma comprargli un nome postumo, diverso da quello che aveva quand’era in vita, in modo che la sfortuna e il male non possano trovarlo/a.

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