Chi ha avuto modo di seguire l’adattamento animato o di leggere il manga di Jujutsu Kaisen (呪術廻戦) ricorderà certamente l’iconica scena dell’intervento di Tōdō Aoi (東堂葵) durante l’”Incidente di Shibuya“, in cui salva Itadori Yuji dall’attacco mortale di Mahito. In questa sequenza cruciale, l’autore affida al personaggio di Tōdō una frase che riecheggia antiche saggezze:
Il suono delle campane del Gionshōja (祇園精舎) ci ricorda che tutti i fenomeni di questo mondo sono in costante cambiamento. Il colore dei fiori di sara (娑羅), invece, rappresenta la verità secondo cui anche i più prosperi sono destinati a declinare. Ma, noi siamo destinati a splendere in eterno!
Questo passaggio esprime l’idea che ogni ascesa ha un suo tramonto. Eppure, Todō sfida questa legge universale, affermando: “Noi siamo destinati a splendere in eterno!” riferendosi a Itadori Yuji.
Questa affermazione, ricca di simbolismo e riferimenti religiosi, avrà sicuramente suscitato curiosità tra i lettori piu attenti e curiosi.
Heike Monogatari
Vi chiederete sicuramente quale connessione ci sia con lo Heike Monogatari (平家物語). Ebbene, queste parole ne rappresentano l’incipit, l’inizio di una delle più celebri epopee giapponesi. lo Heike Monogatari, classificabile come gunki monogatari (軍記物語, “cronaca di guerra”), narra l’ascesa e la caduta del clan Taira, e della sua rivalità con il clan dei Minamoto. Considerato un pilastro della letteratura giapponese, offre uno sguardo vivido sul tumultuoso mondo del Giappone feudale.
Il Gionshōja
Sebbene il nome “Gion” possa farti pensare a un tempio di Kyōto, il nome Gionshōja si riferisce in realtà a un monastero buddista che esisteva nell’India antica. È un comune equivoco pensare che si trovi in Giappone.
Il dizionario del buddismo riporta che il nome si riferisce a un monastero che si trovava a Shravasti, la capitale del regno di Kosala nell’antica India. Si racconta che Sudatta, un ricco mercante di Shravasti, impiegò la sua fortuna personale per acquistare il giardino del principe Jeta e costruì lì un monastero per Buddha e la sua comunità monastica.
Poiché il monastero fu costruito sul giardino del principe Jeta, fu tradotto in cinese come “Gijū” o “Gion“.
La divinità protettrice di questo monastero era Gōzutennō (牛頭天皇). In Giappone, fu costruito un santuario dedicato a questa divinità, che divenne il centro dell’attuale quartiere di Gion a Kyōto.
È così che il nome “Gion” si diffuse in Giappone. Sebbene il termine “Gionshōja” suoni molto giapponese, in realtà è un nome importato dall’India insieme al Buddhismo.
Per inciso, il santuario di Gion fu rinominato Yasakajinja (八坂神社) durante la separazione tra Shintoismo e Buddhismo nel periodo Meiji, e oggi è famoso in tutto il Giappone per il Gion Matsuri.
L’impermanenza
Lo Heike Monogatari inizia con questi versi potenti e ricchi di significato: il suono delle campane del monastero di Gion. Questo tintinnio, ci ricorda l’autore, è un costante memento mori, un richiamo alla shōgyō mujō (諸行無常), l’impermanenza di ogni esistenza. Un’idea ulteriormente rafforzata dall’immagine dai due alberi di sara (沙羅双樹), effimeri come la vita stessa, che secondo la tradizione buddhista erano presenti al momento del parinirvana del Buddha. Questo ci insegna che ogni esistenza, per quanto gloriosa, è destinata a finire.
Shōgyō mujō
Shōgyō mujō, o impermanenza è un concetto buddista che indica la natura impermanente di tutti i fenomeni. Suggerisce che tutto nell’universo è in costante cambiamento e nulla rimane statico. Nel buddismo, mentre la morte è considerata sofferenza, la vera sofferenza deriva non dalla morte stessa, ma dal desiderio di essere permanenti in un mondo che è intrinsecamente impermanente.
Una volta compreso il concetto di shōgyō mujō , possiamo vedere come il nostro desiderio di cose immutabili, come l’amore costante o un lavoro stabile, spesso porta a sofferenze inutili. Riconoscere la natura impermanente del mondo può aiutare ad alleviare questo tipo di ansia.
Il Gionshōja, dove il Buddha tenne molti dei suoi sermoni, era un luogo di profonda spiritualità. In particolare, il mujōdō (無常堂), il “padiglione dell’impermanenza”, era dedicato alla contemplazione della transitorietà dell’esistenza. Qui, al momento della morte di un monaco, il suono dolce di piccole campane di cristallo dette hari annunciava la fine di una vita terrena, invitando alla riflessione sulla natura ciclica dell’esistenza.
Il suono delle campane di Gion, dunque, non è solo un semplice segnale funebre, ma un invito a considerare la vita e la morte alla luce della shōgyō mujō e del concetto di jōsha hissui (盛者必衰) l’inevitabile declino di ogni cosa. I fiori di sara e il mujōdō si intrecciano a questo suono, creando un’atmosfera di profonda spiritualità e malinconica bellezza.
Jōsha hissui
“Coloro che prosperano sicuramente declineranno”, questo è il significato del termine jōsha hissui. È un concetto buddista radicato nell’idea dell’impermanenza ed è un insegnamento che suggerisce che anche coloro che sperimentano una grande prosperità alla fine declineranno, poiché tutto in questo mondo è impermanente. Nel mondo degli affari e dello sport, spesso vediamo esempi di questo: anche gli individui più di successo alla fine si ritirano e vengono sostituiti da nuove stelle. Similmente, anche le tendenze e le mode popolari alla fine svaniscono.
Sarasōja, i due alberi di sara
L’albero di sara è considerato uno dei tre alberi sacri nel buddismo perché si dice che Buddha sia passato a miglior vita sdraiato sotto due di questi alberi. Secondo la leggenda, questi alberi si seccarono al momento del passaggio di Buddha e poi fiorirono magnificamente con fiori bianchi.
Provate a rileggere questo passaggio del manga o rivedete la punta dell’anime con una comprensione più profonda di concetti legati al Gionshōja , l’impermanenza di tutte le cose e l’inevitabile declino dei prosperi, per averne un’esperienza completamente nuova e profonda. È un promemoria che la conoscenza e l’apprendimento modellano davvero il modo in cui percepiamo il mondo che ci circonda.