L’insegnamento del giapponese viene di solito fatto senza spiegare il perché di certe regole. Questo vale anche e prima di tutto per i pronomi personali, ritenuti troppo complessi e diversi dai nostri per poter essere insegnati ad un principiante nel loro insieme.
Sono arrivato alla conclusione che, al contrario, una vera comprensione del giapponese è impossibile senza una conoscenza dei concetti che seguono, che andrebbero quindi affrontati immediatamente, prima di iniziare a studiare. L’alternativa è lo sperare che l’individuo sia in grado in un indeterminato momento futuro di arrivarci da solo.
Per quanto riguarda “io” rimando anche al post Come si dice “io” in giapponese? In un post futuro coprirò la terza persona.
I pronomi personali in giapponese si basano su due parametri imparati spontaneamente e mai esplicitati.
1 Il primo è la posizione dell’interlocutore rispetto a se stessi, che può essere superiore o inferiore. Si usa un titolo con i superiori, il nome con gli inferiori. Notare che in italiano si fa la stessa cosa. Si usano mamma, zia, avvocato, dottore come vocativo nel parlare direttamente con gli interessati, il nome proprio con gli altri. Mi sembra ci siano ragioni per pensare questa abitudine si stia indebolendo. Molti ragazzi chiamano loro padre col suo nome proprio (io ne conosco diversi).
In ambedue le culture, usare pronomi personali o nomi propri per chiamare persone a sé superiori è irrispettoso. Per esse si usa un titolo o ruolo sociale. Si dice quindi nonna, zia, direttore, avvocato, dottore, capo, ingegnere ai propri superiori, e Gianni a proprio cugino o ad un collega dei pari grado.
2 L’appartenenza o meno al proprio gruppo, una distinzione che in italiano (mi sembra) non venga fatta.
La differenza pratica fra il giapponese e l’italiano consiste nell’intensità dello stigma posto sui pronomi personali, quasi mai usati in giapponese. Questo possiede termini per la seconda e terza persona singolare, ma sono tutti da evitare. La ragione è l’idea che gli altri ci sono superiori per definizione, se non altro finché il nostro rapporto con loro si chiarisce. Anche in seguito, quando necessario per chiamare qualcuno si usano preferibilmente altri mezzi.
SOSTITUTI DEI PRONOMI DI SECONDA PERSONA
Questa, ritengo, è la sezione che il principiante dovrebbe studiare con diligenza.
Questi termini sono i più difficili da usare perché sono quelli che entrano in gioco direttamente quando si incontra una persona per la prima volta. I pronomi vanno evitati, ma farlo in una lingua senza singolare e plurale, senza maschile e femminile e praticamente priva di coniugazioni dei verbi non è facile.
Con chi conosciamo il problema è presto risolto (si fa per dire…).
Membri della famiglia:
Al posto del pronome personale, tecnicamente anata, si usa il rapporto di parentela. Otōsan (il trattino sopra una vocale, chiamato macron, la allunga), parola formale per padre, o okaasan, madre.
I fratelli maggiori sono oniisan, e non Taro o Akira. Notare il -san onorifico.
Membri di status inferiore:
Il nome proprio.
Tenere presente che io chiamo mia suocera okaasan, mamma, quando la chiamo, come è normale e mio dovere fare.
Per spiegare l’uso dei pronomi personali fra intimi per esempio fra me (Fū) e mia moglie (Junko), sarà meglio un esempio che una spiegazione.
“A che ora torna Junko?” dico io.
純子は何時に帰る?
Mi risponde: “Verso mezzogiorno. Francesco ci sarà, vero?”
12時位。フーちゃんはおるやろ?
Per membri della famiglia altrui si deve usare il cognome con -san per i superiori, il nome proprio come qui sopra per gli altri.
E con gli sconosciuti? Qui le cose si complicano.
Un modo è usare i verbi direzionali, verbi che non solo esprimono una azione, ma anche la direzione in cui avviene. Partiamo da un esempio per poi spiegarlo. Se chiedi a un poliziotto dov’è l’ambasciata italiana, ti risponderà per esempio:
真っ直ぐ行ってもらって。。。 Massugu itte moratte …
Moratte deriva da morau, un verbo che non vuole dire semplicemente ricevere, ma che chi riceve è chi parla. In altri termini, il poliziotto sta dicendo:
“Mi dia l’andare diritto …”
Questo rende superfluo il pronome personale.
La stessa cosa può venir fatta con i prefissi di cortesia go- e o-. Dicendo お車 o-kuruma, che sarebbe “onorevole automobile”, metto subito in chiaro che si tratta della TUA automobile, rendendo inutile l’uso del pronome possessivo, in giapponese costruito da quello personale (anata no, letteralmente “di tu”).
A volte però è inevitabile usare un qualche tipo di identificazione personale.
Un impiegato o cameriere ti chiamerà お客様 okyakusama, onorevole cliente. Altrimenti medico, avvocato, poliziotto (seempre usando il suffisso –san).
In tutti questi casi, chi parla mette l’interlocutore al di fuori del proprio gruppo, soluzione preferibile perché consente di usare il massimo grado di cortesia.
E se la funzione o carica non sono chiare? Allora si parla come se ci si stesse rivolgendo ad un membro più anziano della propria famiglia, quindi fratello maggiore (anche se sei più anziano della persona cui ti rivolgi), padre, madre. Utilizzabile, ma ti costringe ad essere meno formale e rischiare di offendere.
Anni fa in un supermercato vidi una monetina da 50 yen per terra e chiesi alla cassiera se era sua. Mi ha risposto:
お父さんのですよ。Otōsan no desu yo
La frase letteralmente vuole dire “È di mio padre.” Cioè io. Mi stava chiamando suo padre. La ragione per cui mi ricordo l’incidente è che in quel momento ho pensato con stizza che non mi aveva chiamato suo fratello maggiore, come avrebbe fatto se avessi avuto i suoi anni o meno. Ed aveva almeno quarant’anni.
I dettagli dell’uso del nome proprio richiederebbero un post a sé stante. Meglio lasciar correre, per ora.
I PRONOMI PERSONALI
Questi i metodi consigliati per sostituire i pronomi di seconda persona.
Di pronomi in senso stretto in giapponese non ce ne sono. Quelli detti pronomi sono in realtà sostantivi, ma quello è un ennesimo ginepraio che per ora è meglio evitare. In ogni caso, eccoli.
ANATA
Anata ha quattro forme:
あなた in hiragana, uno dei due sillabari in uso in giapponese. È la forma più neutra e comune.
貴方 scritta con due caratteri che vogliono dire “preziosa persona”. Nessuna indicazione di genere.
貴女 differisce dal secondo termine visto perché usa il carattere per “donna” al posto di quello per persona. Visto lo status di inferiorità della donna nella società giapponese (perdonatemi ragazze, mi dispiace davvero, ma così stanno le cose), è molto raro.
貴男 finisce invece con il carattere per “uomo.” È usato soprattutto dalle donne al posto del nome proprio (Anata, “vieni un attimo”) per chiamare il marito, un’abitudine che riflette il loro stato di soggezione.
Ed ora una serie di termini che hanno in comune una curiosa caratteristica. I caratteri con cui sono scritti testimoniano il fatto che una volta manifestavano un forte o addirittura estremo rispetto, ed oggi invece fanno il contrario.
Kimi 君
Deriva da una parola che voleva dire “signore feudale”. Amichevole ma informale, fa buona coppia con boku, che vuol dire io.
Omae お前
Letteralmente “onorevole davanti”. Indica inferiorità o parità fra maschi. Inaccettabile se non fra soli uomini. Mia moglie mi chiama scherzosamente omae, ma questo è un nostro vizietto privato e cosa inaudita fra giapponesi, perché lei è una donna ed io sono un uomo. A volte si sbaglia e lo fa in presenza di altri e la cosa suscita sempre una certa sorpresa.
Temae o temee 手前
Letteralmente “davanti alle mani.” Il suo solo uso, specialmente quando pronunciato temee, è di per sé causa di litigio.
Kisama 貴様
Letteralmente “prezioso” col suffisso di estrema cortesia -sama.
È una sfida all’aggressione fisica. “Fatti avanti, se l’osi.”
Probabilmente ci saranno modifiche nei prossimi giorni, man mano che mi vengono in mente dettagli.
Nota finale.
Chiedo scusa dei numerosi errori, ma con un post di questa complessità sono per me difficili da evitare.Come si dice “tu” in giapponese?
L’insegnamento del giapponese viene di solito fatto senza spiegare il perché di certe regole. Questo vale anche e prima di tutto per i pronomi personali, ritenuti troppo complessi e diversi dai nostri per poter essere insegnati ad un principiante nel loro insieme.
Sono arrivato alla conclusione che, al contrario, una vera comprensione del giapponese è impossibile senza una conoscenza dei concetti che seguono, che andrebbero quindi affrontati immediatamente, prima di iniziare a studiare. L’alternativa è lo sperare che l’individuo sia in grado in un indeterminato momento futuro di arrivarci da solo.
Per quanto riguarda “io” rimando anche al post Come si dice “io” in giapponese? In un post futuro coprirò la terza persona.
I pronomi personali in giapponese si basano su due parametri imparati spontaneamente e mai esplicitati.
1 Il primo è la posizione dell’interlocutore rispetto a se stessi, che può essere superiore o inferiore. Si usa un titolo con i superiori, il nome con gli inferiori. Notare che in italiano si fa la stessa cosa. Si usano mamma, zia, avvocato, dottore come vocativo nel parlare direttamente con gli interessati, il nome proprio con gli altri. Mi sembra ci siano ragioni per pensare questa abitudine si stia indebolendo. Molti ragazzi chiamano loro padre col suo nome proprio (io ne conosco diversi).
In ambedue le culture, usare pronomi personali o nomi propri per chiamare persone a sé superiori è irrispettoso. Per esse si usa un titolo o ruolo sociale. Si dice quindi nonna, zia, direttore, avvocato, dottore, capo, ingegnere ai propri superiori, e Gianni a proprio cugino o ad un collega dei pari grado.
2 L’appartenenza o meno al proprio gruppo, una distinzione che in italiano (mi sembra) non venga fatta.
La differenza pratica fra il giapponese e l’italiano consiste nell’intensità dello stigma posto sui pronomi personali, quasi mai usati in giapponese. Questo possiede termini per la seconda e terza persona singolare, ma sono tutti da evitare. La ragione è l’idea che gli altri ci sono superiori per definizione, se non altro finché il nostro rapporto con loro si chiarisce. Anche in seguito, quando necessario per chiamare qualcuno si usano preferibilmente altri mezzi.
SOSTITUTI DEI PRONOMI DI SECONDA PERSONA
Questa, ritengo, è la sezione che il principiante dovrebbe studiare con diligenza.
Questi termini sono i più difficili da usare perché sono quelli che entrano in gioco direttamente quando si incontra una persona per la prima volta. I pronomi vanno evitati, ma farlo in una lingua senza singolare e plurale, senza maschile e femminile e praticamente priva di coniugazioni dei verbi non è facile.
Con chi conosciamo il problema è presto risolto (si fa per dire…).
Membri della famiglia:
Al posto del pronome personale, tecnicamente anata, si usa il rapporto di parentela. Otōsan (il trattino sopra una vocale, chiamato macron, la allunga), parola formale per padre, o okaasan, madre.
I fratelli maggiori sono oniisan, e non Taro o Akira. Notare il -san onorifico.
Membri di status inferiore:
Il nome proprio.
Tenere presente che io chiamo mia suocera okaasan, mamma, quando la chiamo, come è normale e mio dovere fare.
Per spiegare l’uso dei pronomi personali fra intimi per esempio fra me (Fū) e mia moglie (Junko), sarà meglio un esempio che una spiegazione.
“A che ora torna Junko?” dico io.
純子は何時に帰る?
Mi risponde: “Verso mezzogiorno. Francesco ci sarà, vero?”
12時位。フーちゃんはおるやろ?
Per membri della famiglia altrui si deve usare il cognome con -san per i superiori, il nome proprio come qui sopra per gli altri.
E con gli sconosciuti? Qui le cose si complicano.
Un modo è usare i verbi direzionali, verbi che non solo esprimono una azione, ma anche la direzione in cui avviene. Partiamo da un esempio per poi spiegarlo. Se chiedi a un poliziotto dov’è l’ambasciata italiana, ti risponderà per esempio:
真っ直ぐ行ってもらって。。。 Massugu itte moratte …
Moratte deriva da morau, un verbo che non vuole dire semplicemente ricevere, ma che chi riceve è chi parla. In altri termini, il poliziotto sta dicendo:
“Mi dia l’andare diritto …”
Questo rende superfluo il pronome personale.
La stessa cosa può venir fatta con i prefissi di cortesia go- e o-. Dicendo お車 o-kuruma, che sarebbe “onorevole automobile”, metto subito in chiaro che si tratta della TUA automobile, rendendo inutile l’uso del pronome possessivo, in giapponese costruito da quello personale (anata no, letteralmente “di tu”).
A volte però è inevitabile usare un qualche tipo di identificazione personale.
Un impiegato o cameriere ti chiamerà お客様 okyakusama, onorevole cliente. Altrimenti medico, avvocato, poliziotto (seempre usando il suffisso –san).
In tutti questi casi, chi parla mette l’interlocutore al di fuori del proprio gruppo, soluzione preferibile perché consente di usare il massimo grado di cortesia.
E se la funzione o carica non sono chiare? Allora si parla come se ci si stesse rivolgendo ad un membro più anziano della propria famiglia, quindi fratello maggiore (anche se sei più anziano della persona cui ti rivolgi), padre, madre. Utilizzabile, ma ti costringe ad essere meno formale e rischiare di offendere.
Anni fa in un supermercato vidi una monetina da 50 yen per terra e chiesi alla cassiera se era sua. Mi ha risposto:
お父さんのですよ。Otōsan no desu yo
La frase letteralmente vuole dire “È di mio padre.” Cioè io. Mi stava chiamando suo padre. La ragione per cui mi ricordo l’incidente è che in quel momento ho pensato con stizza che non mi aveva chiamato suo fratello maggiore, come avrebbe fatto se avessi avuto i suoi anni o meno. Ed aveva almeno quarant’anni.
I dettagli dell’uso del nome proprio richiederebbero un post a sé stante. Meglio lasciar correre, per ora.
L’insegnamento del giapponese viene di solito fatto senza spiegare il perché di certe regole. Questo vale anche e prima di tutto per i pronomi personali, ritenuti troppo complessi e diversi dai nostri per poter essere insegnati ad un principiante nel loro insieme.
Sono arrivato alla conclusione che, al contrario, una vera comprensione del giapponese è impossibile senza una conoscenza dei concetti che seguono, che andrebbero quindi affrontati immediatamente, prima di iniziare a studiare. L’alternativa è lo sperare che l’individuo sia in grado in un indeterminato momento futuro di arrivarci da solo.
Per quanto riguarda “io” rimando anche al post Come si dice “io” in giapponese? In un post futuro coprirò la terza persona.
I pronomi personali in giapponese si basano su due parametri imparati spontaneamente e mai esplicitati.
1 Il primo è la posizione dell’interlocutore rispetto a se stessi, che può essere superiore o inferiore. Si usa un titolo con i superiori, il nome con gli inferiori. Notare che in italiano si fa la stessa cosa. Si usano mamma, zia, avvocato, dottore come vocativo nel parlare direttamente con gli interessati, il nome proprio con gli altri. Mi sembra ci siano ragioni per pensare questa abitudine si stia indebolendo. Molti ragazzi chiamano loro padre col suo nome proprio (io ne conosco diversi).
In ambedue le culture, usare pronomi personali o nomi propri per chiamare persone a sé superiori è irrispettoso. Per esse si usa un titolo o ruolo sociale. Si dice quindi nonna, zia, direttore, avvocato, dottore, capo, ingegnere ai propri superiori, e Gianni a proprio cugino o ad un collega dei pari grado.
2 L’appartenenza o meno al proprio gruppo, una distinzione che in italiano (mi sembra) non venga fatta.
La differenza pratica fra il giapponese e l’italiano consiste nell’intensità dello stigma posto sui pronomi personali, quasi mai usati in giapponese. Questo possiede termini per la seconda e terza persona singolare, ma sono tutti da evitare. La ragione è l’idea che gli altri ci sono superiori per definizione, se non altro finché il nostro rapporto con loro si chiarisce. Anche in seguito, quando necessario per chiamare qualcuno si usano preferibilmente altri mezzi.
SOSTITUTI DEI PRONOMI DI SECONDA PERSONA
Questa, ritengo, è la sezione che il principiante dovrebbe studiare con diligenza.
Questi termini sono i più difficili da usare perché sono quelli che entrano in gioco direttamente quando si incontra una persona per la prima volta. I pronomi vanno evitati, ma farlo in una lingua senza singolare e plurale, senza maschile e femminile e praticamente priva di coniugazioni dei verbi non è facile.
Con chi conosciamo il problema è presto risolto (si fa per dire…).
Membri della famiglia:
Al posto del pronome personale, tecnicamente anata, si usa il rapporto di parentela. Otōsan (il trattino sopra una vocale, chiamato macron, la allunga), parola formale per padre, o okaasan, madre.
I fratelli maggiori sono oniisan, e non Taro o Akira. Notare il -san onorifico.
Membri di status inferiore:
Il nome proprio.
Tenere presente che io chiamo mia suocera okaasan, mamma, quando la chiamo, come è normale e mio dovere fare.
Per spiegare l’uso dei pronomi personali fra intimi per esempio fra me (Fū) e mia moglie (Junko), sarà meglio un esempio che una spiegazione.
“A che ora torna Junko?” dico io.
純子は何時に帰る?
Mi risponde: “Verso mezzogiorno. Francesco ci sarà, vero?”
12時位。フーちゃんはおるやろ?
Per membri della famiglia altrui si deve usare il cognome con -san per i superiori, il nome proprio come qui sopra per gli altri.
E con gli sconosciuti? Qui le cose si complicano.
Un modo è usare i verbi direzionali, verbi che non solo esprimono una azione, ma anche la direzione in cui avviene. Partiamo da un esempio per poi spiegarlo. Se chiedi a un poliziotto dov’è l’ambasciata italiana, ti risponderà per esempio:
真っ直ぐ行ってもらって。。。 Massugu itte moratte …
Moratte deriva da morau, un verbo che non vuole dire semplicemente ricevere, ma che chi riceve è chi parla. In altri termini, il poliziotto sta dicendo:
“Mi dia l’andare diritto …”
Questo rende superfluo il pronome personale.
La stessa cosa può venir fatta con i prefissi di cortesia go- e o-. Dicendo お車 o-kuruma, che sarebbe “onorevole automobile”, metto subito in chiaro che si tratta della TUA automobile, rendendo inutile l’uso del pronome possessivo, in giapponese costruito da quello personale (anata no, letteralmente “di tu”).
A volte però è inevitabile usare un qualche tipo di identificazione personale.
Un impiegato o cameriere ti chiamerà お客様 okyakusama, onorevole cliente. Altrimenti medico, avvocato, poliziotto (seempre usando il suffisso –san).
In tutti questi casi, chi parla mette l’interlocutore al di fuori del proprio gruppo, soluzione preferibile perché consente di usare il massimo grado di cortesia.
E se la funzione o carica non sono chiare? Allora si parla come se ci si stesse rivolgendo ad un membro più anziano della propria famiglia, quindi fratello maggiore (anche se sei più anziano della persona cui ti rivolgi), padre, madre. Utilizzabile, ma ti costringe ad essere meno formale e rischiare di offendere.
Anni fa in un supermercato vidi una monetina da 50 yen per terra e chiesi alla cassiera se era sua. Mi ha risposto:
お父さんのですよ。Otōsan no desu yo
La frase letteralmente vuole dire “È di mio padre.” Cioè io. Mi stava chiamando suo padre. La ragione per cui mi ricordo l’incidente è che in quel momento ho pensato con stizza che non mi aveva chiamato suo fratello maggiore, come avrebbe fatto se avessi avuto i suoi anni o meno. Ed aveva almeno quarant’anni.
I dettagli dell’uso del nome proprio richiederebbero un post a sé stante. Meglio lasciar correre, per ora.
I PRONOMI PERSONALI
Questi i metodi consigliati per sostituire i pronomi di seconda persona.
Di pronomi in senso stretto in giapponese non ce ne sono. Quelli detti pronomi sono in realtà sostantivi, ma quello è un ennesimo ginepraio che per ora è meglio evitare. In ogni caso, eccoli.
ANATA
Anata ha quattro forme:
あなた in hiragana, uno dei due sillabari in uso in giapponese. È la forma più neutra e comune.
貴方 scritta con due caratteri che vogliono dire “preziosa persona”. Nessuna indicazione di genere.
貴女 differisce dal secondo termine visto perché usa il carattere per “donna” al posto di quello per persona. Visto lo status di inferiorità della donna nella società giapponese (perdonatemi ragazze, mi dispiace davvero, ma così stanno le cose), è molto raro.
貴男 finisce invece con il carattere per “uomo.” È usato soprattutto dalle donne al posto del nome proprio (Anata, “vieni un attimo”) per chiamare il marito, un’abitudine che riflette il loro stato di soggezione.
Ed ora una serie di termini che hanno in comune una curiosa caratteristica. I caratteri con cui sono scritti testimoniano il fatto che una volta manifestavano un forte o addirittura estremo rispetto, ed oggi invece fanno il contrario.
Kimi 君
Deriva da una parola che voleva dire “signore feudale”. Amichevole ma informale, fa buona coppia con boku, che vuol dire io.
Omae お前
Letteralmente “onorevole davanti”. Indica inferiorità o parità fra maschi. Inaccettabile se non fra soli uomini. Mia moglie mi chiama scherzosamente omae, ma questo è un nostro vizietto privato e cosa inaudita fra giapponesi, perché lei è una donna ed io sono un uomo. A volte si sbaglia e lo fa in presenza di altri e la cosa suscita sempre una certa sorpresa.
Temae o temee 手前
Letteralmente “davanti alle mani.” Il suo solo uso, specialmente quando pronunciato temee, è di per sé causa di litigio.
Kisama 貴様
Letteralmente “prezioso” col suffisso di estrema cortesia -sama.
È una sfida all’aggressione fisica. “Fatti avanti, se l’osi.”
Probabilmente ci saranno modifiche nei prossimi giorni, man mano che mi vengono in mente dettagli.
Nota finale.
Chiedo scusa dei numerosi errori, ma con un post di questa complessità sono per me difficili da evitare.Come si dice “tu” in giapponese?
L’insegnamento del giapponese viene di solito fatto senza spiegare il perché di certe regole. Questo vale anche e prima di tutto per i pronomi personali, ritenuti troppo complessi e diversi dai nostri per poter essere insegnati ad un principiante nel loro insieme.
Sono arrivato alla conclusione che, al contrario, una vera comprensione del giapponese è impossibile senza una conoscenza dei concetti che seguono, che andrebbero quindi affrontati immediatamente, prima di iniziare a studiare. L’alternativa è lo sperare che l’individuo sia in grado in un indeterminato momento futuro di arrivarci da solo.
Per quanto riguarda “io” rimando anche al post Come si dice “io” in giapponese? In un post futuro coprirò la terza persona.
I pronomi personali in giapponese si basano su due parametri imparati spontaneamente e mai esplicitati.
1 Il primo è la posizione dell’interlocutore rispetto a se stessi, che può essere superiore o inferiore. Si usa un titolo con i superiori, il nome con gli inferiori. Notare che in italiano si fa la stessa cosa. Si usano mamma, zia, avvocato, dottore come vocativo nel parlare direttamente con gli interessati, il nome proprio con gli altri. Mi sembra ci siano ragioni per pensare questa abitudine si stia indebolendo. Molti ragazzi chiamano loro padre col suo nome proprio (io ne conosco diversi).
In ambedue le culture, usare pronomi personali o nomi propri per chiamare persone a sé superiori è irrispettoso. Per esse si usa un titolo o ruolo sociale. Si dice quindi nonna, zia, direttore, avvocato, dottore, capo, ingegnere ai propri superiori, e Gianni a proprio cugino o ad un collega dei pari grado.
2 L’appartenenza o meno al proprio gruppo, una distinzione che in italiano (mi sembra) non venga fatta.
La differenza pratica fra il giapponese e l’italiano consiste nell’intensità dello stigma posto sui pronomi personali, quasi mai usati in giapponese. Questo possiede termini per la seconda e terza persona singolare, ma sono tutti da evitare. La ragione è l’idea che gli altri ci sono superiori per definizione, se non altro finché il nostro rapporto con loro si chiarisce. Anche in seguito, quando necessario per chiamare qualcuno si usano preferibilmente altri mezzi.
SOSTITUTI DEI PRONOMI DI SECONDA PERSONA
Questa, ritengo, è la sezione che il principiante dovrebbe studiare con diligenza.
Questi termini sono i più difficili da usare perché sono quelli che entrano in gioco direttamente quando si incontra una persona per la prima volta. I pronomi vanno evitati, ma farlo in una lingua senza singolare e plurale, senza maschile e femminile e praticamente priva di coniugazioni dei verbi non è facile.
Con chi conosciamo il problema è presto risolto (si fa per dire…).
Membri della famiglia:
Al posto del pronome personale, tecnicamente anata, si usa il rapporto di parentela. Otōsan (il trattino sopra una vocale, chiamato macron, la allunga), parola formale per padre, o okaasan, madre.
I fratelli maggiori sono oniisan, e non Taro o Akira. Notare il -san onorifico.
Membri di status inferiore:
Il nome proprio.
Tenere presente che io chiamo mia suocera okaasan, mamma, quando la chiamo, come è normale e mio dovere fare.
Per spiegare l’uso dei pronomi personali fra intimi per esempio fra me (Fū) e mia moglie (Junko), sarà meglio un esempio che una spiegazione.
“A che ora torna Junko?” dico io.
純子は何時に帰る?
Mi risponde: “Verso mezzogiorno. Francesco ci sarà, vero?”
12時位。フーちゃんはおるやろ?
Per membri della famiglia altrui si deve usare il cognome con -san per i superiori, il nome proprio come qui sopra per gli altri.
E con gli sconosciuti? Qui le cose si complicano.
Un modo è usare i verbi direzionali, verbi che non solo esprimono una azione, ma anche la direzione in cui avviene. Partiamo da un esempio per poi spiegarlo. Se chiedi a un poliziotto dov’è l’ambasciata italiana, ti risponderà per esempio:
真っ直ぐ行ってもらって。。。 Massugu itte moratte …
Moratte deriva da morau, un verbo che non vuole dire semplicemente ricevere, ma che chi riceve è chi parla. In altri termini, il poliziotto sta dicendo:
“Mi dia l’andare diritto …”
Questo rende superfluo il pronome personale.
La stessa cosa può venir fatta con i prefissi di cortesia go- e o-. Dicendo お車 o-kuruma, che sarebbe “onorevole automobile”, metto subito in chiaro che si tratta della TUA automobile, rendendo inutile l’uso del pronome possessivo, in giapponese costruito da quello personale (anata no, letteralmente “di tu”).
A volte però è inevitabile usare un qualche tipo di identificazione personale.
Un impiegato o cameriere ti chiamerà お客様 okyakusama, onorevole cliente. Altrimenti medico, avvocato, poliziotto (seempre usando il suffisso –san).
In tutti questi casi, chi parla mette l’interlocutore al di fuori del proprio gruppo, soluzione preferibile perché consente di usare il massimo grado di cortesia.
E se la funzione o carica non sono chiare? Allora si parla come se ci si stesse rivolgendo ad un membro più anziano della propria famiglia, quindi fratello maggiore (anche se sei più anziano della persona cui ti rivolgi), padre, madre. Utilizzabile, ma ti costringe ad essere meno formale e rischiare di offendere.
Anni fa in un supermercato vidi una monetina da 50 yen per terra e chiesi alla cassiera se era sua. Mi ha risposto:
お父さんのですよ。Otōsan no desu yo
La frase letteralmente vuole dire “È di mio padre.” Cioè io. Mi stava chiamando suo padre. La ragione per cui mi ricordo l’incidente è che in quel momento ho pensato con stizza che non mi aveva chiamato suo fratello maggiore, come avrebbe fatto se avessi avuto i suoi anni o meno. Ed aveva almeno quarant’anni.
I dettagli dell’uso del nome proprio richiederebbero un post a sé stante. Meglio lasciar correre, per ora.